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Lezioni da Madrid? La Spagna nel dibattito pubblico italiano, tra guerra civile e transizione democratica
di Antonio Carioti
LEZIONI DA MADRID? LA SPAGNA NEL DIBATTITO PUBBLICO ITALIANO,
TRA GUERRA CIVILE E TRANSIZIONE DEMOCRATICA
Una qualche attenzione verso l’esperienza
spagnola del periodo 1936-
39 e le vicende del regime franchista
non è mai mancata, sin dai primi anni
dopo la Liberazione, da parte delle
forze politiche italiane e degli intellettuali
impegnati. Se non altro per
motivi “autobiografici”. I leader dei
maggiori partiti di sinistra e del più
importante sindacato (rispettivamente
il comunista Palmiro Togliatti, il
socialista Pietro Nenni, il repubblicano
Randolfo Pacciardi e il segretario
generale della Cgil, a sua volta comunista,
Giuseppe Di Vittorio) avevano
partecipato direttamente al conflitto
in posizioni di notevole rilievo, mentre
un altro partito effimero ma non
irrilevante, il Partito d’Azione, aveva
visto uno dei suoi padri spirituali,
Carlo Rosselli, accorrere tra i primi in
terra iberica coniando lo slogan «Oggi
in Spagna, domani in Italia». Inoltre,
soprattutto per il Pci, le forme di
unità antifascista sperimentate in
quel paese dai governi repubblicani
apparivano un valido esempio da seguire
nel solco della “democrazia
progressiva” teorizzata da Togliatti.
Sul versante opposto, il massiccio
e vittorioso intervento al fianco delle
armate di Francisco Franco, con un
contingente di circa 50 mila uomini,
era stato uno degli ultimi vistosi successi
del fascismo, quanto meno sul
piano dell’immagine, prima dei disastri
a catena del secondo conflitto
mondiale. E per il mondo nostalgico
riunito intorno al Msi il regime di Madrid
restava un punto di riferimento
importante: determinare in Italia uno
scontro frontale tra le sinistre e un
blocco d’ordine cattolico-nazionalista,
grosso modo secondo il modello
spagnolo, è stato a lungo uno degli
obiettivi perseguiti, più o meno esplicitamente,
dall’area neofascista.
Ovviamente a questi due punti di
vista corrispondevano vulgate e mitologie
conseguenti. A sinistra si coltivava
l’immagine di un fronte repubblicano
spagnolo compattamente democratico,
magari ignorando episodi
di conflitti interni a quel campo che
avevano fatto anche vittime italiane,
come l’anarchico Camillo Berneri ucciso
dai comunisti a Barcellona nel
1937. A destra Franco era presentato
come un governante saggio e benigno,
che avrebbe mostrato rispetto
per i combattenti della parte avversa:
per esempio circolava la leggenda, ripetuta
da Gianfranco Fini anche in
una conferenza stampa dei primi an-
Interventi
ni Novanta, con grande scandalo di
una corrispondente spagnola presente,
secondo cui nella Valle de los Caidos
sarebbero state seppellite con
tutti gli onori anche salme di militari
caduti per la Repubblica.
Al cospetto di simili semplificazioni
(a volte falsificazioni) ideologiche,
più sfumato era il modo in cui
guardavano alla guerra di Spagna le
varie componenti dell’area cattolica.
Per i democratici cristiani di fede antifascista
era senza dubbio imbarazzante
il modo in cui la Chiesa di quel
paese si era schierata nella contesa
dalla parte delle destre, per non parlare
delle sanguinose persecuzioni subite
da religiosi e sacerdoti nella zona
repubblicana. Rispetto alla situazione
italiana, dove i cattolici al governo
erano i massimi garanti della democrazia
parlamentare, la Spagna costituiva
un segno di contraddizione forte,
che periodicamente veniva sollevato
in chiave polemica. Così, se l’anticlericale
e antifascista Ernesto Rossi
amava ricordare l’appoggio esplicito
del Vaticano alla “crociata” di
Franco (e parallelamente il suo silenzio
sulle violenze subite dai preti baschi),
la pubblicistica clerico-fascista
non si stancava di denunciare, per
esempio, il passato del ministro della
Difesa Pacciardi, fedele alleato della
Dc nei governi centristi, ma un tempo
comandante dei “miliziani rossi”
macchiatisi di gravi atrocità contro il
clero cattolico in terra iberica.
Comunque la felice transizione
della Spagna verso la democrazia, dopo
la morte del Caudillo, aveva contribuito
ad attenuare le contrapposizioni
anche dal punto di vista italiano.
La cordiale amicizia stabilitasi tra il
presidente Sandro Pertini, alfiere dell’antifascismo
più intransigente, e il re
Juan Carlos, a suo tempo designato
come erede alla corona da Franco, appariva
un po’ la sanzione simbolica
della volontà di chiudere i conti con il
passato, nella convinzione che l’approdo
pacifico della Spagna alla democrazia
e alla Comunità Europea
fosse il dato essenziale. Per giunta negli
anni Ottanta si manifestò una significativa
analogia tra i sistemi politici
delle due nazioni latine: in entrambi
i paesi infatti assursero a protagonisti
della vita pubblica due leader socialisti
(Bettino Craxi in Italia, Felipe
González in Spagna) che avevano rotto
con la tradizione marxista e avevano
imboccato con determinazione la
strada di un energico pragmatismo.
Naturalmente si tratta di un parallelismo
molto relativo, perché González
guidava un partito di ben maggiore
peso elettorale, che mantenne a lungo
il predominio assoluto della scena,
mentre Craxi, a capo di una formazione
che non arrivava (nemmeno nei
momenti migliori) al 15 per cento, ricavava
la sua influenza dalla posizione
strategica del Psi. La differenza
emerge in modo lampante dalle crisi
in cui entrambi i partiti socialisti caddero
all’inizio degli anni Novanta. Il
declino del Psoe, sconfitto alle elezioni
del 1996, non è nemmeno lontanamente
paragonabile alla completa disintegrazione
subita dal Psi nel biennio
1992-93. E di come siano state diverse
le sorti personali di González e
Craxi non c’è bisogno di parlare.
Ai fini del nostro discorso, tuttavia,
il terremoto italiano degli anni
Novanta è importante per un altro
motivo. Mentre in precedenza si era
posto il problema di un allineamento
della Spagna alle democrazie europee,
compresa l’Italia, ora la disgregazione
degli equilibri politici conso-
435
436
lidati nel nostro paese, posta a raffronto
con la felice sperimentazione
del meccanismo dell’alternanza tra
schieramenti diversi in terra iberica,
rovesciava le parti. Era l’Italia, incapace
di rinnovarsi senza un trauma
così profondo e ricco di anomalie – il
ruolo centrale assunto dalla magistratura
inquirente, il crollo o il mutamento
d’identità di tutti i partiti, la
vittoriosa discesa in campo di un imprenditore
come Silvio Berlusconi, i
governi “tecnici” guidati dai banchieri
Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto
Dini – a dover imparare dalla Spagna,
il cui sistema di governo, benché anche
a Madrid l’azione giudiziaria
avesse avuto una notevole influenza
politica, dimostrava ben altra solidità.
Era appunto questo il tema su cui
si soffermava, sia pure da un’angolazione
molto particolare, Michele Salvati
in un lungo e importante intervento
apparso sul «Corriere della Sera
» il 14 maggio 1994, anche in seguito
alle reazioni preoccupate della
stampa internazionale di fronte all’ingresso
nel governo italiano di tre ministri
del Msi-Alleanza nazionale, la
cui svolta ideologica non appariva all’epoca
abbastanza netta e limpida.
Emblematico il titolo dell’articolo:
Democrazia senza nostalgici. L’autore
si ricollegava a un saggio di Víctor Pérez
Díaz uscito nel 1987, El retorno de
la sociedad civil (Madrid, Istituto de
Estudios Economicós), per notare
come le diverse transizioni alla democrazia
di Spagna e Italia, a trent’anni
di distanza l’una dall’altra, avessero
prodotto rapporti differenti con i
precedenti regimi. Defunto Franco,
gli spagnoli erano riusciti a inventarsi
“nuovi riferimenti ideali” in cui tutti,
fossero eredi dei vincitori o dei vinti
del 1939, si erano potuti identificare:
quindi non era sorto nessun rilevante
partito nostalgico che sognasse un ritorno
agli anni del Caudillo. Al contrario
in Italia l’assetto politico scaturito
dalla Liberazione si era fortemente
caratterizzato in senso escludente
nei riguardi dei fedeli di Mussolini,
raccoltisi nel “ghetto” del Msi,
che si erano rifiutati di riconoscersi
nel nuovo ordine e avevano mantenuto
una posizione di alternativa al sistema,
mai apertamente rinnegata,
nemmeno quando il collasso della cosiddetta
Prima Repubblica li aveva
proiettati al governo: «Che gioco ci
può essere – si domandava Salvati –
se uno dei giocatori, e un giocatore
importante, non accetta le regole?».
La sua conclusione era che l’Italia
doveva passare da una Costituzione
antifascista a una post-fascista, che
consentisse il recupero alla democrazia
degli epigoni di Mussolini. Non si
trattava di cambiare la Carta entrata
in vigore nel 1948, ma di interpretarne
diversamente lo spirito. Gli antifascisti
avrebbero dovuto accettare «un
più generoso riconoscimento della
verità storica», ammettendo i torti
della propria parte e la buona fede di
molti avversari. Il partito di Fini
avrebbe dovuto impegnarsi ad «un’esplicita
e formale accettazione programmatica
di principi democratici e
liberali». Due condizioni che si sarebbero
in gran parte verificate in seguito:
per quanto riguarda Alleanza nazionale
con il congresso di Fiuggi;
sull’altro versante con atti importanti
come il discorso d’insediamento tenuto
dal neoeletto presidente della
Camera, Luciano Violante, nel 1996,
con l’apertura ai “ragazzi di Salò”.
Per quanto efficace (ma non risolutivo,
come si sarebbe visto in seguito)
sul terreno politico, il ragiona437
mento di Salvati scontava tuttavia alcune
semplificazioni eccessive sul
piano storico. Ad esempio ignorava il
fatto che il regime di Franco, pur feroce
all’interno, non aveva mai condotto
guerre d’aggressione all’esterno,
come invece aveva fatto il fascismo
italiano, da solo o in subordine al
Terzo Reich: anche per questo vi era
verso i post-fascisti italiani una vigilanza
internazionale ben diversa rispetto
ai post-franchisti spagnoli. Per
lo stesso motivo il regime di Mussolini
era caduto nel quadro di un conflitto
mondiale, di cui la guerra civile
italiana, svoltasi peraltro solo su una
parte del territorio nazionale, era un
risvolto secondario. E il contesto internazionale
in cui era stata approvata
la Costituzione italiana, con l’Europa
distrutta e l’Urss al culmine del
suo prestigio, era ben diverso da
quello in cui si era svolta la transizione
spagnola, con l’integrazione europea
in marcia da molti anni e il blocco
sovietico arenato nella stagnazione
brezneviana. Anche per questo il
problema comunista in Spagna aveva
avuto un rilievo di gran lunga inferiore:
elemento non di poco conto, visto
che la definizione usata da Salvati per
descrivere la posizione storica del
Msi-An – «un partito importante che
non accetta le regole del gioco» – si
poteva applicare anche al Pci, quanto
meno in riferimento agli obiettivi ultimi
che perseguiva, per una parte
importante della sua storia anche dopo
il 1945.
La questione si dimostrò rilevante,
poco tempo dopo, non solo in riferimento
al confronto tra le due
transizioni, ma anche in rapporto al
significato della partecipazione italiana
alla guerra di Spagna. Cruciale, a
tal proposito, fu la disputa aperta nel
1998 da Sergio Romano, con il suo tipico
stile provocatorio, attraverso la
prefazione al libro Due fronti, edito
da Liberal Libri (Firenze). Lo smilzo
volumetto raccoglieva due contributi:
quello di Nino Isaia raccontava la
vicenda di Giuliano Bonfante, intellettuale
antifascista italiano che in un
primo tempo aveva partecipato al
conflitto nelle file repubblicane e poi
si era allontanato dinanzi agli eccessi
della repressione stalinista; quello di
Edgardo Sogno era una testimonianza
dell’autore sulla sua esperienza come
volontario del corpo di spedizione
italiano inviato da Mussolini in
terra iberica. Lo scritto di Romano
s’incentrava sul ruolo dei comunisti
nella guerra di Spagna, proponendo
un’interpretazione secondo cui il
conflitto era cominciato come scontro
tra fascismo e antifascismo, ma
poi aveva visto i comunisti monopolizzare,
con l’aiuto di Mosca, il campo
repubblicano: «Se la Repubblica
avesse vinto – scriveva Romano – sarebbe
stata la prima democrazia popolare
d’Europa». La conclusione
era che in fondo il successo di Franco
poteva apparire un male minore,
perché il suo regime, per quanto crudele,
aveva senza dubbio prodotto
meno danni di quelli instaurati dopo
il 1945 nei paesi appartenenti alla sfera
d’influenza sovietica, come testimoniava
anche una transizione alla
democrazia e all’economia di mercato
di gran lunga più agevole e meglio
riuscita.
Tale impostazione suscitò alcune
reazioni furenti, a volte decisamente
fuori misura, da parte dei custodi di
una certa ortodossia antifascista, ma
anche interventi critici più misurati,
che riconoscevano a Romano almeno
qualche ragione. Alcuni fecero nota438
re che nel campo repubblicano non
erano stati solo i comunisti a macchiarsi
di atrocità e che il ruolo centrale
acquisito dagli agenti di Mosca e
del Comintern derivava anche dall’atteggiamento
di Francia e Gran Bretagna,
che si erano rifiutate di appoggiare
la democrazia spagnola nonostante
gli ingenti aiuti forniti da Roma
e Berlino ai militari insorti. D’altronde
in una certa fase della guerra proprio
i comunisti erano stati i migliori
alleati della componente più moderata
del fronte repubblicano, nello sforzo
di frenare l’estremismo degli anarchici,
dei socialisti massimalisti e dei
marxisti eretici del Poum. Comunque
era evidente che il nocciolo della questione
non riguardava la Spagna, bensì
l’Italia. Era infatti in questo paese
che il maggiore partito della sinistra
(insieme a un paio di forze minori, ma
non irrilevanti) proveniva dal ceppo
del Pci e ne rivendicava come sostanzialmente
democratica l’eredità politico-
ideologica. E proprio le riflessioni
di Togliatti sulla guerra civile spagnola
erano portate ad esempio di un
precoce distacco dallo stalinismo, come
prefigurazione di una via parlamentare
al socialismo. Una lettura alla
quale la posizione di Romano si
contrapponeva in modo frontale.
Pochi anni dopo Salvati tornava a
puntare i riflettori sul confronto tra le
due nazioni latine, in termini ancora
più crudi e impietosi per il nostro
paese. Se infatti nel 1994 la transizione
italiana era appena agli esordi, nel
2003, quando l’economista scrisse un
ampio saggio introduttivo per l’edizione
italiana (edita dal Mulino) di un
altro lavoro di Pérez Díaz, intitolata
significativamente La lezione spagnola
(il titolo originale di quella versione
dell’opera, uscita nel 1999, era
Spain at the Crossroads, Harvard University
Press), i suoi esiti non apparivano
confortanti. Usando il termine
“società civile” nell’accezione di Pérez
Díaz, come sinonimo di comunità
che abbia raggiunto un certo grado di
civilizzazione (cioè con uno Stato di
diritto, una democrazia liberale e
un’economia di mercato ben funzionanti),
Salvati osservava che mentre
la Spagna, concluso il trapasso dal
franchismo, tendeva sempre più ad
assomigliare ai “paesi europei di democrazia
matura”, l’Italia rimaneva
fortemente anomala. A suo parere «i
conflitti ideologici radicali della prima
metà del Novecento», che erano
penetrati «in profondità nella definizione
iniziale del sistema politico italiano
», continuavano a farsi sentire
secondo un perverso meccanismo di
condizionamento degli stadi successivi
di sviluppo (la cosiddetta path-dependence),
che neppure la forte discontinuità
dei primi anni Novanta
era riuscita a spezzare. Anzi, da quel
trauma era emerso, quale figura dominante
del quadro politico, un leader
come Berlusconi, caratterizzato
da una forte carica populista e da un
vistoso conflitto d’interessi che ci allontanavano
ancor di più dall’Europa:
né si poteva ragionevolmente addossare
al fondatore di Forza Italia la
responsabilità esclusiva della situazione,
poiché anche la prospettiva di
una sua uscita di scena apriva scenari
per nulla rassicuranti.
“Povera Italia!” era l’eloquente
esclamazione con cui Salvati tirava le
fila di un esame da cui il nostro paese
usciva bocciato, sia pure con qualche
attenuante, e la Spagna invece promossa,
se non a pieni voti, certo con
una valutazione ampiamente positiva.
Anche la rilettura del rapporto con il
439
passato finiva così per radicalizzarsi,
assumendo un tono polemico verso
la visione “ciellenistica”, tipica della
sinistra italiana, che basava la democrazia
sull’antifascismo. A giudicarla
sulla scorta di un simile criterio, osservava
Salvati, la transizione spagnola
si sarebbe fondata non solo e non
tanto sull’oblio dei passati orrori, ma
su una vera e propria menzogna, sul
rifiuto di riconoscere e condannare le
atrocità della dittatura franchista. Ma
la verità era che le colpe della guerra
civile non potevano essere addebitate
a una parte sola. E in fondo i protagonisti
e i complici del regime del
Caudillo, pur assicurandosi l’impunità,
avevano dovuto lasciare pacificamente
il potere. Quindi si era rivelata
molto saggia la scelta delle forze
politiche spagnole di mettere tra parentesi
i conflitti ideologici ereditati
dalla prima metà del Novecento e
cercare una soluzione negoziata capace
di garantire sufficientemente
tutti gli interessi in gioco, senza sacrificare
l’obiettivo prioritario del ritorno
alla libertà. Era improponibile, secondo
Salvati, la tesi che avere «una
Costituzione e una memoria ufficiale
basata solo sull’antifascismo» fosse
stato un bene per l’Italia e che altri
paesi avrebbero dovuto ispirarsi al
suo esempio. Ben più virtuoso, proseguiva,
si era dimostrato il modello
spagnolo o tedesco, caratterizzato dal
«rigetto simmetrico delle due esperienze
totalitarie del Novecento, fascismo
e comunismo».
Del resto, aggiungeva Salvati, anche
in Spagna ormai il tempo della
memoria era venuto: nella letteratura,
nel cinema, nella storiografia si
parlava sempre più apertamente e
diffusamente della guerra civile e degli
aspetti più nefandi del regime
franchista. I conti con il passato, in
fondo, erano stati solo rimandati a un
tempo più opportuno e propizio. Il
fatto stesso che si manifestasse, con le
opere di Pío Moa, un “revisionismo”
di segno favorevole alla sollevazione
militare del 1936 era in fondo la dimostrazione
che al di là dei Pirenei si
stava sviluppando un dibattito aspro
e spregiudicato, un’ennesima prova
del livello di maturità raggiunto da
quella democrazia.
L’anno dopo, nel 2004, lo storico
Gabriele Ranzato dava alle stampe
per l’editore Bollati Boringhieri un
volume ampio e articolato sulla guerra
civile spagnola, che per certi versi
sin dal titolo, L’eclissi della democrazia,
confermava il giudizio di Salvati
circa l’insostenibilità di una visione
manichea del conflitto. A giudizio
dell’autore, nel 1936 «in seguito al
golpe anche la Spagna repubblicana
aveva presto cessato di essere una democrazia
» e comunque in precedenza
gli stessi esponenti moderati del fronte
progressista, da Manuel Azaña a
Indalecio Prieto, avevano tenuto
comportamenti che avevano contribuito
a delegittimare le istituzioni
rappresentative. Per nulla indulgente
verso Franco (aveva del resto aspramente
polemizzato con Romano al
tempo dell’uscita di Due fronti), Ranzato
riconosceva tuttavia che i nemici
della libertà, nella Spagna degli anni
Trenta, si contavano sia tra i reazionari
sia tra i rivoluzionari. Ed aggiungeva
che vi era «un deficit di democrazia
della stessa area democratica».
Convergente con Salvati nella valutazione
sulle responsabilità relative
alla guerra civile, Ranzato dissentiva
invece da lui sul tema della transizione
spagnola alla democrazia, tema affrontato
in un successivo e più agile
440
saggio, Il passato di bronzo, pubblicato
lo scorso anno da Laterza. Qui la
visione edulcorata ed idealizzata della
fuoriuscita dal franchismo incontra
parecchie obiezioni, a cominciare dai
forti dubbi sollevati sulla presunta disponibilità
della grande maggioranza
degli spagnoli a passare un colpo di
spugna sugli abusi e i delitti della dittatura.
Se i responsabili la fecero franca
e non vi fu alcuna epurazione, sostiene
Ranzato, fu soprattutto perché
essi, in particolare gli alti gradi delle
forze armate, facevano pesare sul
paese gravi minacce. E non vi era
dunque modo di punirli. Ne consegue
che «la nota essenziale della transizione
spagnola», sottovalutata invece
da Salvati, fu “quella della impossibilità”:
il silenzio e l’oblio non avevano
alternative perché, sul sottofondo
di quel “tintinnare di sciabole”,
bisognava fare di necessità di virtù.
Tanto è vero che si manifestarono
ugualmente forti tensioni sul piano
delle agitazioni sociali, della violenza
politica (prevalentemente, ma non
soltanto, generata dalla questione nazionale
basca) e delle tentazioni golpiste.
Lo stesso tentativo di putsch
che vide il colonnello Antonio Tejero
irrompere in Parlamento venne punito
in modo piuttosto lieve e fu proprio
il re a farsi apertamente garante
presso i militari per assicurare che
non vi sarebbe stata alcuna resa dei
conti. Insomma, osserva Ranzato, ce
n’è abbastanza per concludere che la
transizione spagnola non fu «un processo
sostanzialmente armonioso e
consensuale di cui sarebbe stata interprete
una larga maggioranza di
vecchi e nuovi democratici», ma un
percorso accidentato e scabroso, che
non può quindi essere presentato come
una lezione da seguire per qualunque
paese intenda passare dal dispotismo
alla democrazia.
A riprova della sua tesi, lo storico
nota come la mancanza di una memoria
pubblica della guerra civile e
della dittatura abbia alimentato il
proliferare delle memorie private,
inevitabilmente parziali, fino a produrre
una corrente di risentimento,
da parte dei vinti, che per lungo tempo
si è espressa soprattutto attraverso
le varie forme di rappresentazione artistica,
ma negli ultimi tempi, specie
dopo la vittoria elettorale di José Luís
Zapatero, è debordata in politica, con
effetti non sempre positivi. Se infatti
la richiesta di una condanna aperta
del passato regime ha un fondamento,
come dimostrano le ripetute scoperte
di fosse comuni nelle quali il
franchismo aveva occultato i cadaveri
delle sue vittime, non c’è dubbio però
(e qui si torna al tema del precedente
libro di Ranzato) che lo schieramento
repubblicano non può uscire assolto
da una disamina imparziale degli
eventi storici. Al di là della vocazione
prevaricatrice e totalitaria di alcune
componenti del Fronte popolare, nota
l’autore, nel suo insieme esso era
affetto da una deleteria
incapacità di concepire la democrazia
come sforzo in prima istanza conciliatorio
e inclusivo – diretto cioè a governare
il conflitto e ad allargare il più
possibile la base dei consensi, o quanto
meno a svelenire i contrasti – anziché
come via libera alla totale prevaricazione
dell’avversario politico.
E tuttora gli eredi della Repubblica,
come dimostrano diversi esempi
citati da Ranzato, fanno fatica ad ammetterlo.
Proprio queste considerazioni,
peraltro, suggeriscono un giudizio
441
sulla transizione spagnola meno critico
di quello espresso dall’autore nelle
pagine precedenti. Se ancora oggi
in quel paese la cultura della sinistra
stenta a produrre una riconsiderazione
spassionata e spregiudicata del
suo passato, il fatto che essa si sia trovata
negli anni Settanta con le mani
legate, nell’impossibilità di far valere
tutte le sue istanze, può essere ritenuto,
se non provvidenziale, certo in
buona misura positivo. Fare di necessità
virtù può essere una benedizione,
se nei fatti la scelta obbligata risulta
anche la più proficua possibile. E
quando Ranzato, in riferimento alla
guerra civile del 1936-39, scrive che
«anche sul piano della politica la distanza
tra vincitori e vinti fu molto
meno enorme di quella che corre tra
un regime fascista e l’odierna democrazia
spagnola», finisce per ammettere
esplicitamente che mettere una
pietra sopra quel conflitto fra contendenti
non democratici (o, nel migliore
dei casi, solo parzialmente affidabili
sotto il profilo democratico) fu
una soluzione avveduta, oltre che priva
di reali alternative.
Certamente l’analisi di Ranzato,
grazie alla notevole conoscenza che
l’autore dimostra di entrambi i paesi,
aiuta a cogliere meglio le differenze
tra Spagna e Italia nel rapporto con le
rispettive guerre civili. L’autore è
molto (forse troppo) severo con il
“revisionismo” italiano, che a suo avviso
finisce per mettere sullo stesso
piano chi lottava per la libertà e chi
era schierato al fianco del Terzo Reich.
Ma quando deplora il “conservatorismo”
di coloro che forniscono
un’immagine agiografica della Repubblica
spagnola, e così alimentano
il successo del neofranchismo alla Pío
Moa, in fondo descrive un fenomeno
simile a quello che constatiamo da alcuni
anni in Italia: non c’è dubbio infatti
che le rimozioni di certa retorica
resistenziale abbiano parecchio contribuito
a rimpinguare le vendite dei
libri di Giampaolo Pansa sulle cruente
vendette seguite al 25 aprile.
Più in generale, è evidente che entrambi
i paesi conservano un rapporto
problematico con le loro vicissitudini
novecentesche. Alla democrazia
spagnola, come sottolinea Ranzato,
manca ancora un richiamo simbolico
forte, un monumento che possa valere
per tutti i cittadini come emblema
della ritrovata convivenza. In Italia
resta fortissima la tendenza delle forze
politiche a usare la storia per delegittimarsi
reciprocamente, o al contrario
per procurarsi sospirate legittimazioni
attraverso frettolose abiure.
Se posso terminare con una nota personale,
non penso che in questo campo
ci sia una grande possibilità di impartire
o ricevere lezioni: ogni nazione
segue la sua vocazione storica.
Credo però di poter dire che la Spagna,
all’alba del XXI secolo, sembra
disporre di una classe politica più valida
e vigorosa (se non altro per ragioni
anagrafiche), più attiva e fiduciosa,
più consapevole e più responsabile
di quella italiana. E ciò le consegna
un grosso vantaggio anche nel
compito, sempre arduo, di fare i conti
con un passato tragico quanto e più
del nostro.
Antonio Carioti
442
Nel recente fascicolo n. 3/2006
(luglio-settembre) della rivista Clio è
apparso un contributo firmato da
Marco Paolino che porta il titolo I liberali
tedeschi e il 1848: alcune considerazioni
in merito alla loro «ostilità»
per il Risorgimento italiano.
L’Autore afferma al suo inizio che
«l’esame dell’atteggiamento dei liberali
tedeschi riguardo alle vicende verificatesi
in Italia nel 1848 ha costituito
oggetto di ricerca più per gli
storici tedeschi che non per quelli italiani
». A suo dire sarebbe stata inoltre
poco analizzata (come sembra di
capire, in Italia) sia la stampa, sia la
pubblicistica tedesca coeva «con la
conseguenza di presentare in maniera
acritica il cliché dell’ostilità dei liberali
tedeschi nei confronti del movimento
per l’unificazione nazionale
italiana, mentre […] il quadro è più
complesso». L’esame da lui fatto porterebbe
pertanto ad «attenuare alquanto
il giudizio perentorio» fornito
in passato su quell’atteggiamento.
Il suo saggio si pone, egli sostiene, «in
una direzione finora trascurata dalla
storiografia italiana»1.
Non c’è dubbio che il tema affrontato
da Paolino sia di grande interesse,
ma è dubbio che nel suo saggio
vi sia qualcosa di veramente nuovo,
che non sia stato cioè già detto
dalla storiografia tedesca sulla base di
fonti più o meno note. Di fatto l’autore
sembra essersi limitato ad esporre,
riassumere e tradurre qualcuna di
queste fonti, dove peraltro si trova
confermato quanto la letteratura secondaria
tedesca, che si è occupata
del tema, ha già analizzato ed esposto2.
In secondo luogo, è certo un merito
l’avere studiato la stampa e la
pubblicistica tedesca del tempo. Dalle
traduzioni che se ne danno risulta
però fraintesa parte del tenore dei testi.
In terzo, ma non ultimo luogo, la
parte centrale del suo contributo appare
un po’ carente quanto all’impostazione
generale del problema, perché
non fornisce al lettore almeno
due elementi di fondo utili, anzi indispensabili
per farsi un quadro equilibrato
della questione.
Nella prima sezione del suo saggio
le fonti dell’autore sono: 1) un volume,
pubblicato nel 1850, del «giornalista
ed esponente liberale costituzionale
» Johannes Günther sugli avvenimenti
del 1848; 2) la relazione stenografica
della famosa seduta dell’Assemblea
Costituente di Francoforte
sul Meno del 12 agosto 1848, nella
quale si discusse del problema italiano;
3) alcuni passi estrapolati da una
lettera dello storico Johann Gustav
Droysen a Wilhelm Arendt del 16 dicembre
1848.
Del Günther il Paolino riporta nel
testo alcuni passi da lui tradotti. Paolino
attribuisce a Günther l’affermazione
secondo cui
il ruolo che aveva avuto l’aristocrazia
in Italia […] nella rivoluzione del
1848 era di gran lunga più importante
di quello avuto a Parigi, dove invece
gli elementi socialisti avevano conquistato
l’egemonia del movimento e
ciò aveva avuto la conseguenza di
spaventare vasti settori della società
francese, con il rischio di gettare le
1848 TEDESCO E RISORGIMENTO ITALIANO.
QUALCHE DOVEROSA RETTIFICA
443
basi di una controrivoluzione nelle
campagne come era accaduto due anni
prima nella Galizia.
Un’occhiata al testo originale di
Günther è sufficiente ad accorgersi
che questa traduzione non collima con
esso. Ivi si trova infatti scritto altro:
A Milano non si verificò tuttavia subito
ciò che ci si sarebbe aspettato a
seguito degli avvenimenti di Parigi; si
ebbe piuttosto l’impressione che l’aristocrazia
italiana, dalla quale soprattutto
era fomentato il movimento
(e infatti le condizioni di vita materiale
del popolo erano molto buone),
spaventata dal carattere del moto parigino
e dagli elementi socialisti giunti
lì al potere, avesse temuto per sé, da
una insurrezione, ripercussioni analoghe
a quelle subìte due anni prima
dalla nobiltà polacca in Galizia: una
controrivoluzione dei contadini contro
i loro signori, favorita, se non addirittura
suscitata dalla burocrazia
austriaca3.
Poche righe dopo: secondo la traduzione
di Paolino
in attesa dell’auspicato intervento di
Carlo Alberto i nobili lombardi temevano
che le libertà promesse potessero
rendere felici le masse popolari,
ma al contempo potessero vieppiù intimorire
le autorità austriache, con il
risultato di provocare un inasprimento
del loro controllo e quindi di allontanare
il successo della rivoluzione
e la prospettiva dell’unificazione nazionale4.
Il testo tedesco citato a pie’ di pagina
ha però un tenore diverso: «Forse
proprio i Nobili [in italiano nel testo:
N.d.T.] potevano temere che le
libertà promesse avrebbero accontentato
la maggioranza della popolazione,
e dunque avrebbero rafforzato
di nuovo il dominio austriaco, facendo
pertanto allontanare il momento
in cui si sarebbe realizzata la tanto desiderata
unificazione dell’Italia»4.
Ancora, poco più avanti, Paolino
cita un passo, con qualche taglio, dalla
lettera di Droysen ad Arendt traducendolo
così:
Le vicende rivoluzionarie del 1848
non avevano insegnato all’Austria che
doveva permettere alla Germania di
rafforzarsi; dopo il Congresso di
Vienna l’Austria aveva spostato il
proprio campo di interessi dai territori
della Germania occidentale verso
l’Italia e ciò aveva consentito alla
Prussia di poter aumentare la propria
influenza in Germania.
Nel passo di Droysen, nella forma
mutila citata da Paolino, si trova, invece,
scritto questo:
Dal periodo di guerre seguito alla Rivoluzione
francese l’Austria non trasse
l’insegnamento che, proprio nell’interesse
della propria difesa, avrebbe
dovuto permettere alla Germania
di rafforzarsi […]. La pace portò ad
un risultato importante: l’Austria
[…] ritenne di trarre un vantaggio
[…] ritirandosi dai territori della
Germania occidentale, e spostando il
suo centro di gravitazione verso l’Italia5.
Le guerre che Droysen chiama
«Revolutionskriege» non sono le «vicende
rivoluzionarie del 1848» come
ha tradotto Paolino, ma sono le guerre
del periodo della Rivoluzione francese
e il loro seguito in età napoleonica,
al termine delle quali si colloca
la riorganizzazione portata in Europa,
anche nell’Europa centrale, dal
Congresso di Vienna.
444
Oltre a queste discutibili traduzioni
appare pure carente l’impostazione
data alla parte centrale dell’articolo
di Paolino, che è poi quella sulla
quale si basa soprattutto il «giudizio
politico» finale dato dall’autore al suo
saggio. In questa parte centrale, intitolata
Le discussioni nella Paulskirche,
si ricordano particolari noti, già ricordati,
ad esempio, nel 1959 da Theodor
Schieder, e cioè 1) le opinioni
espresse da alcuni deputati all’Assemblea
Costituente di Francoforte,
durante la prima seduta in cui si parlò
dell’Italia, quella del 20 giugno 1848,
circa possibili attacchi da parte dell’esercito
sardo a Trieste, o ad altri porti
o territori tedeschi o a qualsiasi città
facente parte della Confederazione
tedesca (Deutscher Bund), nel qual
caso ciò avrebbe dovuto considerarsi
alla stregua di una dichiarazione di
guerra all’intera Germania6: messa,
però, in questi termini la questione (e
così fa Paolino), sembrerebbe quasi
che tutti i territori italiani dominati
dall’Austria, possibili obiettivi di attacco
dell’esercito sardo, fossero parte
integrante del Bund, cosa che non
è vera, come si vedrà; 2) l’intervento
di Joseph Maria von Radowitz, consigliere
del re prussiano Federico Guglielmo
IV, alla seconda seduta, del 12
agosto 1848, dedicata alla questione
italiana, nel quale si chiarì «cosa significava
la tutela degli interessi tedeschi
in Italia»7, e si esposero le ragioni
per le quali parte dell’Italia settentrionale
doveva rimanere sotto il dominio
austriaco. A parte la garanzia
per il commercio tedesco che transitava
per il porto di Trieste, la cui integrità
sarebbe stata meglio garantita se
anche Venezia fosse rimasta in mani
austriache, il motivo principale era di
natura difensiva, militare e strategica:
il Veneto doveva restare all’Austria fino
alla linea di confine del Mincio per
garantire così una sicurezza di difesa
del confine meridionale del Bund, il
cui Stato-guida era allora ancora, è il
caso di ricordarlo, l’Austria; il Bund
doveva inoltre fare ogni sforzo per
mantenere un rapporto di alleanza
protettiva su una futura, costituenda
confederazione di Stati italiani, onde
evitare che essa cadesse sotto l’influenza
francese. Il «giudizio politico
» che Paolino trae da questi dati è
pertanto obbligato ed è già stato formulato
dalla storiografia tedesca, come
anche, naturalmente, da quella
italiana: «Le discussioni sviluppatesi
nella Paulskirche dimostrano che la
maggioranza dei suoi componenti era
attestata su posizioni nazionaliste,
pantedesche e orientate alla politica
di potenza»8. Nessuna solidarietà,
quindi, dei liberali tedeschi verso le
aspirazioni del movimento liberale
italiano, ma considerazione esclusiva
degli interessi nazionali tedeschi. Ma
non è questo il solito «cliché dell’ostilità
dei liberali tedeschi nei confronti
del movimento per l’unificazione nazionale
italiana», criticato all’inizio
del suo saggio dall’autore, e che egli
asseriva di voler riesaminare?
A mio giudizio il punto nodale di
tutta la questione non sono tanto i
contenuti delle varie dichiarazioni
più o meno anti-italiane dei deputati
all’Assemblea Costituente della
Pauls-kirche, quanto piuttosto l’assetto
costituzionale del Deutscher Bund,
e la questione della definizione di ciò
che doveva considerarsi “tedesco”.
Questi sono i due fattori basilari, già
posti in evidenza nel 1959 da Theodor
Schieder, alla luce dei quali leggere
e interpretare poi i vari interventi
all’Assemblea.
445
I moti popolari scoppiati contemporaneamente,
nel marzo 1848, sia in
Italia che in Germania, sembrarono
in un primo momento accomunare i
due popoli contro il nemico comune,
l’Austria. Ma subito si delineò un
ostacolo di natura costituzionale, destinato
ad impedire la solidarietà tra
loro: questo ostacolo si manterrà intatto
fino a che la monarchia austriaca
rimarrà unita alla Germania nell’area
mitteleuropea. E infatti, se è vero
che la parte principale dei territori
posseduti dall’Austria in Italia, il cosiddetto
Lombardo-Veneto, era formalmente
al di fuori del Deutscher
Bund, la situazione del Trentino, di
Trieste e di parti dell’Istria era diversa:
il primo di questi territori era stato
per secoli parte integrante del Sacro
Romano Impero di nazione germanica;
gli altri due avevano fatto
parte del complesso dei dominii veneziani
(l’Istria gradualmente a partire
dal secolo XIII; il Friuli dal secolo
XV, ma la sua parte orientale, la contea
di Gorizia e Gradisca, passò all’Impero
all’inizio del secolo XVI),
dopo essere stati per secoli divisi tra
il dominio di signori ecclesiastici e di
signori laici, per lo più germanici. Come
è noto, nel 1797 passarono all’Austria.
Dal 1815 tutti questi territori
(Trentino, Trieste, parti dell’Istria)
erano comunque parte integrante
del Deutscher Bund, anche se,
ad esempio, a Trieste si parlava prevalentemente
italiano, o dialetto friulano.
Pertanto l’insurrezione italiana
a Milano e Venezia e le sue conseguenze
erano inevitabilmente destinate
a scontrarsi non solo con gli interessi
austriaci, ma anche con l’opinione
della stragrande maggioranza
della opinione pubblica tedesca, che
considerava il mantenimento della
posizione austriaca, almeno in una
parte dell’Italia settentrionale, alla
stregua di una componente essenziale
della sicurezza tedesca e della sua
indipendenza statale, e temeva l’insorgere
di pretese “italiane” a territori
del Bund.
A ciò si aggiungeva la questione,
anch’essa fondamentale, della definizione
da dare al termine “nazionalità
tedesca”. Chi poteva essere definito
“tedesco”? La maggioranza dell’Assemblea
Costituente scelse una definizione
per la quale era da considerarsi
“tedesco” ogni individuo che vivesse
su territorio tedesco e condividesse
il concetto della Germania come
di un’entità politica e statuale.
Ciò significava l’accoglimento dell’idea
europea occidentale dello Statonazione,
che considerava appunto la
nazione come la comunità politica
dei cittadini, senza tenere conto delle
differenze etniche. Si tratta, è forse il
caso di notarlo, di un concetto molto
vicino a quello espresso da Ernest Renan
dopo l’annessione tedesca dell’Alsazia-
Lorena nel 1871, per il quale
la nazionalità, il sentimento nazionale
è un plebiscito di tutti i giorni.
Questa idea della nazionalità era in
realtà estranea alla tradizione tedesca,
improntata invece all’altra, di
ascendenza herderiana, della nazione
come di una comunità linguistica e
culturale, al di là di tutti i confini statali,
che poi fu la concezione fatta valere,
sempre dalla Germania, per le
annessioni del 1871.
I deputati che parteciparono ai
due dibattiti sull’Italia del 20 giugno e
12 agosto 1848, mentre erano unanimi
nell’affermare la necessità di sostenere
l’Austria nella difesa del territorio
propriamente del Bund (Trento,
Trieste, parte dell’Istria), si trovarono,
446
appunto per la non appartenenza del
Lombardo-Veneto al Bund, e per
quella definizione da loro data al concetto
di nazionalità, in un forte dilemma:
era giustificato che il movimento
nazionale tedesco sostenesse l’Austria
nel suo intento di mantenere anche il
Lombardo-Veneto, che, formalmente,
non apparteneva al Bund?
E qui si raggiunse, ovvero fu proposto
un compromesso: la Lombardia
poteva essere ceduta e annessa al
Regno di Sardegna, non però il Veneto
fino al confine del Mincio per le
considerazioni militari-strategiche
sopra esposte. All’Assemblea di Francoforte
questa sembrò una soluzione
accettabile, che teneva conto sia dell’interesse
nazionale tedesco, sia, pur
se solo in parte, delle aspirazioni italiane
ad un loro Stato nazionale, i cui
contorni, però, allora, nel 1848, ed è
proprio il caso di ricordarlo, erano
tutti ancora da definire. A Francoforte
questo era considerato il massimo
che si poteva concedere, e c’è da chiedersi:
quale altra nazione-Stato
avrebbe ragionato diversamente? A
mio giudizio occorre tenere conto di
tutti questi dati ed elementi prima di
formulare un giudizio di “pangermanesimo”.
Anna Maria Voci
1 M. Paolino, I liberali tedeschi e il
1848: alcune considerazioni in merito alla
loro «ostilità» per il Risorgimento italiano,
in «Clio», 42 (2006), pp. 373-387: qui
p. 373.
2 Mi limito a rinviare al saggio fondamentale
di Th. Schieder, Das Italienbild
der deutschen Einheitsbewegung, in Studien
zur deutschen-italienischen Geistesgeschichte,
Köln-Graz, Böhlau, 1959, pp.
141-162; rist. in Idem, Begegnungen mit
der Geschichte, Göttingen, Vandenhoeck
& Ruprecht, 1962, pp. 210-235: qui pp.
217-221, nonché al lavoro, anch’esso
molto importante, di W. Altgeld, Das politische
Italienbild der Deutschen zwischen
Aufklärung und europäischer Revolution
von 1848, Tübingen, Niemeyer,
1984, entrambi non citati, però, da Paolino.
3 M. Paolino, I liberali tedeschi, cit., p.
375 e nota 8.
4 Ivi, p. 375 e nota 10.
5 Ivi, p. 377 e nota 18.
6 Ivi, pp. 379-381.
7 Ivi, p. 382.
8 Ivi, p. 384.
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