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Giuseppe Mazzini e il liberalismo radicale subalpino (1836-1848)
di Adriano Viarengo
GIUSEPPE MAZZINI E IL LIBERALISMO RADICALE SUBALPINO (1836-
1848)*
1. Nel maggio 1840 Giuseppe Mazzini scriveva, da Londra, una lunghissima lettera
all’amico di gioventù Giuseppe Elia Benza, avvocato di Porto Maurizio. Sono pagine
drammatiche, scritte da un Mazzini “altamente commosso”, come lui stesso diceva,
in risposta ad una missiva del Benza del 31 marzo, purtroppo non conservataci.
[Essa] parla – così la riassumeva Mazzini – d’un abboccamento fra tre buoni egualmente
per intenzioni, e di ciò che vi si è statuito, e della tua adesione ad un sistema di transazione
che distrugge per me tutto quanto lo scopo, e ci converte d’apostoli che dobbiamo essere,
apostoli d’una fede nuova, apostoli d’una nazione nuova che ha da essere il Verbo di questa
fede, in cospiratori volgari, in rivoluzionari alla vecchia, in carbonari e peggio1.
L’esule genovese si rimproverava il «silenzio tenuto per tutti questi anni», causa, a
suo avviso, del mutamento che, proprio ora che aveva deciso di riprendere l’azione
politica, vedeva essersi operato anche nei più stretti fra i suoi amici. Ma qual’era la colpa
di costoro ai suoi occhi? Lo diceva lui stesso: parlare «di Costituzione, di Costituzione,
badate bene, piemontese, perché – aggiungeva – l’uomo, il re dell’Italia voi non
lo avete, né, grazie a Dio, lo avrete mai»2.
Non abbastanza Benza ed i suoi amici avevano analizzato la situazione italiana. Non
avevano capito che «il nostro è un Problema d’Educazione; è un cercar della nostra missione:
è una Rigenerazione nel vero senso. Volete – domandava – incominciarla sulla
menzogna? Avete un popolo vergine d’idee; una carta bianca da scrivervi sopra; e vi
scrivete la Costituzione di Francia o di Maria Cristina o del morente Torismo?»3.
Suppongo sempre – proseguiva Mazzini – che vogliate lavorare a una rivoluzione Italiana,
non Piemontese; perché in caso diverso, i discorsi sarebbero inutili; non mi rimarrebbe che
a insorgere contro di voi; ma quanto a te, ti conosco; e quanto agli altri, le poche parole con-
* Queste pagine riprendono, con correzioni ed ampliamenti, il testo di un intervento presentato
al Convegno internazionale di studi Giuseppe Mazzini, das Risorgimento und die politiche
Migration Italiens, tenutosi a Bochum, il 24-25 giugno 2005, a cura del Consolato d’Italia
di Dortmund e della Ruhr-Universität.
1 Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini (d’ora in poi SEI), volume XIX, Epistolario, volume
IX, Imola, Galeati, 1914, p. 115. Per le indicazioni bibliografiche relative alla situazione
del Regno di Sardegna e all’azione mazziniana negli anni qui considerati si rimanda alla Bibliografia
dell’età del Risorgimento 1970-2001, 4 voll., Firenze, Olschki, 2003, e, in particolare alle
sezioni: Il Regno di Sardegna fino al 1848, di S. Montaldo (II, pp. 645 sgg), e I democratici dalla
Restaurazione all’Unità, di G. Luseroni (I, pp. 365 sgg.; per Mazzini le pp. 377-384).
2 G. Mazzini, SEI, volume XIX, cit., pp. 115-116.
3 Ivi, p. 121.
Studi e ricerche
448
segnate qua e là anche nell’inceppatissimo Subalpino, mi sono pegno ch’essi vivono d’un
pensiero italiano. E per questo ti scrivo. Volete fare una rivoluzione Italiana con un re4?
Mi pare che si tratti di una lettera di grande importanza per la storia ottocentesca
del Regno di Sardegna, poiché vi si coglie bene il sorgere di una nuova area politica.
Stranamente, però, gli storici sembrano avervi posto poca attenzione.
Chiediamoci anzitutto chi potessero essere, oltre al Benza, i “buoni” che avevano
preso parte all’“abboccamento” di cui l’avvocato ligure riferiva a Mazzini. Una qualche
idea mi pare possa ricavarsi da una lettera, purtroppo non datata, che un giovane
concittadino del Benza dirigeva, in quello stesso volgere di anni, a Lorenzo Valerio, il
futuro leader della Sinistra al parlamento subalpino, un personaggio sul quale dovremo
tornare a lungo successivamente.
Domenico il primo, poi Elia, poi Ranco – scriveva Bartolomeo Aquarone – m’insegnarono
ad amarvi – ed io v’amava; e voi, buono, avrete l’amore dei buoni, che è pur il grande conforto.
Noi siamo amici da un pezzo; ed era cosa vostra, da che l’istesso pensiero suscitava un
battito più concitato al cuore di tutti e due.
Ranco mi scrisse di voi: ne ero certo: ma da che voi accettaste, mi par d’essere più confidente,
di me, di noi, di tutti. La vostra decisione per me era più che d’un individuo e presente
un forte avvenire.
Addio. Forse verrà un giorno, che con un bacio fraterno salderemo l’amicizia, augurata sotto
gli auspici di questa trinità: D. E. R.; che con una stretta di mano legheremo l’anime nostre
più fortemente: verrà, ne ho lusinga, e il bisogno. Addio di nuovo: – salutate carissimamente
Domenico – salutate il Pippo, ed amatemi come io v’amo5.
La missiva reca semplicemente la data: «Porto Maurizio, 30 ottobre»; tuttavia disponiamo
di qualche elemento per poter circoscrivere sufficientemente il tempo nel
quale venne redatta. I personaggi indicati con i nomi di battesimo nella lettera sono
infatti Domenico Buffa, Giuseppe Elia Benza, Lorenzo Ranco e infine, col nomignolo
di “Pippo”, Giuseppe Cornero: dalle loro vicende biografiche e da quelle dell’Aquarone
possiamo trarre qualche indicazione temporale. Anzitutto quella che la lettera
dovette essere scritta prima del gennaio 1842. Il mese successivo, infatti, Bartolomeo
Aquarone risulta già essersi trasferito a Firenze. D’altro canto Domenico Buffa
si era trasferito a Torino solamente alla fine del 1838. Aquarone doveva aver scritto,
quindi, tra il 1839 e la fine del 1841. Ma non dobbiamo dimenticare il destinatario,
Lorenzo Valerio. Quest’ultimo, infatti, era passato per Genova nel febbraio del 1840,
diretto in Toscana in compagnia dell’amico Massimo Cordero di Montezemolo, il fondatore
del «Subalpino», la rivista alla quale, come abbiamo visto, faceva riferimento
Mazzini scrivendo al Benza. È verosimile che i due si siano fermati a Genova e vi abbiano
incontrato il Benza, collaboratore del «Subalpino», ed i suoi amici all’andata o
l’abbia fatto, al ritorno, sul finire di aprile o ai primi di maggio, il solo Valerio. Quest’ultimo,
peraltro, era già stato a Genova nel febbraio del 1836 e vi aveva conosciuto
vari «ottimi giovani», come il cugino di Mazzini, il medico Emanuele Solari, e il marchese
Vincenzo Ricci6.
4 Ivi, p. 122.
5 Cfr. L. Valerio, Carteggio (1825-1865), raccolto da L. Firpo, G. Quazza, F. Venturi, III,
(1848), edito a cura di A. Viarengo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1998, Appendice, pp.
447-448.
6 Ivi, I, (1825-1842), edito a cura di L. Firpo e A. Viarengo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi,
1991, Valerio al fratello Gioachino, Milano, 6 marzo 1836, pp. 119-120.
449
Se tutto ciò fosse vero, Valerio (con o senza il Montezemolo) avrebbero incontrato
il gruppo ligure subito prima o subito dopo che il Benza scrivesse la lettera a Mazzini
della quale abbiamo sopra riferito. È plausibile perciò che, consultatosi coi suoi
amici torinesi, in primis Giuseppe Cornero e Domenico Buffa, Valerio comunicasse,
pochi mesi dopo, l’adesione sua e dei suoi amici torinesi alle proposte dei liguri. Non
a caso Aquarone parla di un consenso al progetto politico suo e dei suoi amici che,
per lui, «era più che d’un individuo». Tra i quali amici, inoltre, possiamo senz’altro
annoverare uno degli altri due “buoni” ai quali si doveva riferire Mazzini: Lorenzo
Ranco, un alessandrino già aderente alla prima Giovine Italia, esule in Francia dopo
il ’33 e rientrato sul finire degli anni Trenta. Non è forse impossibile, infine, pensare
all’Aquarone come al terzo “buono”. Il Buffa avrebbe giocato quindi il ruolo di tramite
tra subalpini e liguri. Del resto ci sono da tempo noti i suoi rapporti con il Ranco,
a partire almeno dai primi anni Quaranta, inoltre egli era stato studente a Genova,
presso la Facoltà di Legge, dal 1835 al 1838, allorché ottenne di poter continuare
gli studi nell’ateneo torinese7.
Naturalmente quello che importa è il fatto in sé: personaggi dell’ala più radicale
del liberalismo subalpino, come Valerio, Buffa e Cornero, ed elementi per così dire
“dissidenti” del mazzinianesimo, come Benza, Aquarone e Ranco, attorno all’inizio
degli anni Quaranta dell’Ottocento, si intesero su una via politica di tipo costituzionale,
non aliena dal riporre anche una certa fiducia nell’iniziativa regia. Un cammino,
questo, che Giacomo Durando, scrivendo nel 1845 il suo «saggio politico-militare»,
Della Nazionalità Italiana, tratteggerà come una evoluzione di quelli che egli definiva
i “rivoluzionari-tremendi” o “terroristi” in “rivoluzionisti-razionali”, cioè – spiegava
– «coloro i quali tuttoché siano per massima amici del monarcato e di un equo temperamento
tra il potere della Chiesa e quello del laicato, non rigettano assolutamente
alcuni dei mezzi extra-legali, per cui venir a capo de’ loro divisamenti»8.
2. Quanto siamo venuti sin qui esponendo ci può anche aiutare a comprendere la
debolezza del movimento mazziniano nel Piemonte degli anni Quaranta dell’Ottocento,
dopo l’indubbia diffusione che esso aveva fatto registrare nella prima metà degli
anni Trenta.
Il fallimento del 1833, con la dura repressione voluta da Carlo Alberto della ampia
rete mazziniana, che pur aveva saputo coinvolgere giovani borghesi e numerosi
bassi ufficiali dell’esercito, e la disgraziata spedizione di Savoia dell’anno successivo,
il cui esito ai limiti del ridicolo si era unito all’ancor più sfortunato tentativo contemporaneo
su Genova, avevano suscitato severe riflessioni tra quanti, come Valerio e
Cornero, erano allora “repubblicani per disperazione”9, cioè per mancanza di alter-
7 Cfr. E. Costa, La giovinezza di Domenico Buffa (1818-1847), in Figure e gruppi della classe
dirigente piemontese del Risorgimento, a cura di N. Nada, Torino, Istituto Nazionale per la Storia
del Risorgimento Italiano, Comitato di Torino, 1968, pp. 47-103. I molti lavori di Emilio Costa
sul Buffa hanno rappresentato un arricchimento fondamentale per gli studi sul Regno sardo
del Risorgimento, arricchimento non sufficientemente riconosciuto dalla storiografia corrente.
8 G. Durando da Mondovì, Della Nazionalità Italiana. Saggio politico-militare, p. 398 (cito
dall’edizione di Losanna, S. Bonamici e Compagni, dello stesso anno 1846 nel quale comparve
la prima, a Parigi, presso Frank).
9 Sono parole dello stesso Valerio, contenute in alcune pagine di Note confidenziali, conservate
presso la professoressa Isabella Custodero Scardaccione, ora scomparsa, che ne fornì a suo
tempo copia a chi scrive. Il passo al quale l’espressione appartiene è il seguente: «Convenne a
qualcuno dirmi Mazziniano e Repubblicano: non lo credevano che i gonzi. Fui repubblicano per
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native, a prescindere dal ben diverso grado di coinvolgimento loro nelle trame mazziniane:
nullo nel caso del Valerio. Per cogliere il loro processo di maturazione, però, è
necessario almeno accennare al composito ambiente nel quale esso si svolse.
Anche dopo le repressioni del 1833 e l’occhiuta vigilanza poliziesca degli anni immediatamente
seguenti, infatti, il terreno subalpino rimaneva fertile non solo e non tanto
per le cospirazioni, quanto per la ricerca di vie politiche nuove. La stessa feroce repressione
voluta dal sovrano, salito al trono da un paio d’anni, aveva indignato molti,
mentre l’assenza di speranze di future riforme induceva molti giovani a disperare di una
possibile evoluzione riformistica della monarchia sabauda e ad assumere posizioni radicali;
ma i fallimenti mazziniani rendevano necessaria la ricerca di altre strade.
Inoltre duravano ancora, nella società piemontese, l’eco e i legami che traevano
origine dal moto della primavera del ’21. Era certo, questo dei Federati del ’21, un filone
diverso, di orientamento costituzionale, di cui molti esponenti più radicali, anche
se di secondo piano, erano sì ancora esuli ma non per questo non mantenevano
più contatti con i loro familiari e con gli amici rimasti nel Regno sabaudo. Attraverso
di loro si manteneva perciò vivo, in un certo modo, il ricordo di quello che fu, per il
Regno sabaudo, un trauma politico fortissimo, ai protagonisti del quale i più giovani
guardavano con ammirazione e rispetto. Un Lorenzo Valerio, ad esempio, custodiva
come una reliquia una grammatica greca appartenuta a Santorre di Santa Rosa. Ancora
nel 1867, un antico amico e collaboratore del Valerio, il conte Giovan Battista Michelini,
che la partecipazione al moto del ’21 l’aveva pagata con la semplice revoca della
carica di sindaco di un paesetto della provincia piemontese, volendo rassicurare Riccardo
Sineo sulla sua discrezione, poteva scrivergli:
Sono vecchio, ma il mio obolo lo pagherei tuttora volentieri alla patria. Dunque scrivimi
qualche cosa, e puoi essere sicuro del segreto. Diavolo! Nessuno di quelli del ’21 commise
a questo riguardo la menoma colpa, la menoma imprudenza10.
Dobbiamo quindi tener presente che nel Regno sabaudo, nella seconda metà degli
anni Trenta, due eredità politiche continuavano, più di ogni altra, a farsi sentire nella
gioventù: quella ventunista, orientata alla monarchia costituzionale (una monarchia,
però, che fosse coraggiosamente riformatrice e si facesse promotrice di una guerra
contro l’Austria per assicurare all’Italia la sua indipendenza) e quella, più recente e radisperazione
fino al 47». «Sincero repubblicano avanti le riforme [del 1847]» si dirà anche il Cornero
in un articolo comparso nella «Concordia» (a. I, n. 90, 13 aprile 1848, corrispondenza da
Alessandria, data 11 aprile). «Cornero fu Giovine Italia, anzi membro di comitato a Torino; ricordaglielo
», scriverà Mazzini al Lamberti, da Londra, il 23 ottobre 1843 (cfr. Protocollo della
Giovine Italia (Congrega centrale di Francia), II, (1843), Imola, Galeati, 1916, pp. 140 e 142).
10 Giovan Battista Michelini a Riccardo Sineo, Centallo, 15 ottobre 1867, Torino, Biblioteca
storica della Provincia di Torino, Archivio Sineo-Arnò, III, 24, 2. Sulla partecipazione del giovane
Sineo al moto ventunista, pur attestata da una scheda di polizia (cfr. G. Marsengo, G. Parlato,
Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821, II, F – Z, Torino, Istituto Nazionale
per la Storia del Risorgimento Italiano, Comitato di Torino, 1986, p. 231), lascia un qualche
margine di dubbio la nessuna menzione che fa di lui, nelle sue memorie, Pietro Alessandro
Garda, protagonista dell’episodio di cui il Sineo viene accusato (aver fatto parte del gruppo che
dalla cittadella di Torino marciò sulla residenza del principe di Carignano per ottenere la costituzione).
Eppure il Garda descrive minutamente l’episodio e i suoi protagonisti (cfr. P. A. Garda,
Memorie 1815-1860, a cura di G. Fragiacomo, Ivrea, s.e., 1993, pp. 15-20). È però indubbio
che Sineo sia stato deciso fautore di una monarchia costituzionale assai larga in tutte le fasi
della sua vita politica.
451
dicale, mazziniana e repubblicana. Quest’ultima, però, assai indebolita dai suoi ancora
recenti insuccessi.
Nel clima politicamente depresso della metà degli anni Trenta, inoltre, scoppiò nel
regno una epidemia di colera. Anche questo non è un elemento da sottovalutare: molti
giovani, e non solo medici, si prodigarono a favore dei malati a Torino ed a Genova,
spesso mentre le autorità latitavano. Questi volenterosi, tra i quali, ad esempio, c’era
il fratello medico di Lorenzo Valerio, Gioachino, videro così per la prima volta da
vicino in quali miserabili condizioni vivessero le classi più umili. Di qui la spinta alla
costituzione degli asili infantili, dei pubblici scaldatoi invernali, delle scuole tecniche
domenicali per operai, di casse di risparmio per le classi umili, ai quali i giovani appartenenti
all’ala più radicale del liberalismo, ed in particolare i fratelli Valerio, diedero
contributi spesso decisivi.
Abbiamo parlato di giovani: non a caso. A Torino, infatti, nonostante l’atmosfera
di generale repressione che aveva caratterizzato il regno di Carlo Felice e gli esordi di
quello di Carlo Alberto, i giovani non erano stati fermi. Troppo abituati a guardare alla
cultura “alta”, accademica o a quella “bassa”, popolare, gli storici dell’Ottocento
subalpino hanno per lungo tempo trascurato quella dei giovani figli della media e piccola
borghesia, spesso di provenienza provinciale, che vivevano nella città per ragioni
di studio o professionali.
Non è qui il caso di ripetere quanto si è già avuto modo di esporre altrove11, ma
un accenno va fatto, per capire come si era sviluppato il versante subalpino di quell’area
politica che suscitava nel 1840 una così veemente reazione da parte di Mazzini.
Giovani universitari, insegnanti, impiegati nelle ditte commerciali torinesi, giovani
ufficiali avevano assunto la gestione, all’inizio degli anni Trenta, di un gabinetto letterario,
fondato nel 1818 – un anno prima di quello, celeberrimo, creato dal Vieusseux
a Firenze – da quel brillante imprenditore che era Giuseppe Pomba, il futuro
principe degli editori piemontesi. Sia pure con fatica, riusciranno a mantenerlo in vita
per tutti gli anni Trenta e per parte degli anni Quaranta, finché non verrà assorbito
dalla Associazione agraria, della cui biblioteca costituirà così il nucleo originario.
Alcuni di questi giovani, poi, avevano, attorno alla metà degli anni Trenta e fino al
1840, un altro punto di incontro, fornito loro da due canonici: Clemente Denegri e
Clemente Pino, due sacerdoti particolarmente vicini alla gioventù universitaria torinese.
Si trattava di una vera e propria accademia, la “Conversazione letteraria”, più
nota, col nome del suo ospite, come “Accademia del canonico Pino”. Nell’ampio alloggio
del canonico, infatti, si tenevano incontri settimanali, con tanto di regolamento
accademico, in cui si discuteva di tutto. Ce ne ha lasciato una viva descrizione, nelle
sue lettere, Ercole Ricotti, destinato a ricoprire la prima cattedra di Storia nell’Università
di Torino12. Si parlava di letteratura e di poesia, di filosofia e di economia po-
11 Mi sia consentito di rinviare a A. Viarengo, Tendenze radicali nel liberalismo subalpino prequarantottesco,
in Ombre e luci della Restaurazione. Trasformazioni e continuità istituzionali nei
territori del Regno di Sardegna, Atti del Convegno, Torino 21-24 ottobre 1991, Roma, Ministero
per i Beni culturali e ambientali, 1997, pp. 570-611; Idem, Associazionismo, giornalismo e politica
nella Torino carloalbertina: gabinetti di lettura e associazioni culturali, in Dal Piemonte all’Italia.
Studi in onore di Narciso Nada per il suo settantesimo compleanno, a cura di U. Levra e
N. Tranfaglia, Torino, 1995, pp. 159-190; Idem, I democratici dalla cospirazione alle riforme, in
Il Piemonte alle soglie del 1848, a cura di U. Levra, Torino, Istituto Nazionale per la Storia del
Risorgimento Italiano, Comitato di Torino, 1999, pp. 361-396.
12 Cfr. Ricordi di Ercole Ricotti, pubblicati da Antonio Manno, Torino-Napoli, Roux e Favale,
1886, pp. 46 sgg.
452
litica e, attraverso quest’ultima, di politica. Tra i frequentatori alcuni erano particolarmente
audaci. È il caso del solito Lorenzo Valerio, che una sera lesse un ampio brano
di un’opera anonima che, per il suo tono, preoccupò gli astanti più prudenti, che si allontanarono.
Erano brani di uno scritto giovanile mazziniano, intitolato Dell’amor patrio
di Dante, inviato anni prima al Vieusseux per la «Antologia», rimasto inedito e fatto
arrivare a Valerio (non sappiamo se direttamente) dal Tommaseo.
Mazziniani, dunque, quei giovanotti? Non sarebbe esatto affermarlo. Certo, molti
di loro, come Valerio e Cornero, anch’egli fra gli ospiti del canonico, sono allora «repubblicani
per disperazione», come abbiamo detto. Anzi, quest’ultimo, un giovane
gentile, lettore onnivoro che discuteva in quegli anni con un personaggio come Michele
Parma di sansimonismo e di fourierismo, mazziniano lo era stato senz’altro, come
abbiamo visto. Altri, però, erano, più che prudenti, incerti. Osservavano perplessi
il gran movimento di vecchi carbonari e di nuovi cospiratori mazziniani, di massoni
e di utopisti vari. Sentiamo la più tarda testimonianza di Lorenzo Valerio:
Prima del ’48 quando il dichiararlo menomava i pericoli tacqui sempre quello che ora dichiaro,
che cioè io non appartenni mai a veruna società segreta. Di qui quella pienezza mia,
direi arditezza, che altri attribuiva a forze segrete […]. Fui invitato a far parte dei ruderi
della vecchia Massoneria e del vecchio Carbonarismo, poscia della Giovane [sic] Italia, dei
Filadelfi, dei Cavalieri della Libertà, ecc. Sempre mi rifiutai dicendo: se avete fiducia in me,
e l’avete poiché mi chiamate in mezzo a voi, quando tenterete qualche cosa in favore della
libertà e dell’indipendenza italiana, comunicatemelo; e se a me parrà savio il consiglio vi
prometto la mia cooperazione e quello [sic] della migliore gioventù Piemontese e Ligure.
Se no lo dichiarerò sinceramente. Ma non intendo rinunciare in mano di chicchessia quel
po’ di ragione di cui mi ha dotato natura13.
Sono parole scritte a quasi venticinque anni di distanza da quei momenti, ma sostanzialmente
veritiere. Ce ne fa fede Camillo Cavour, personaggio certo non sospetto
di simpatie nei confronti di Valerio, il quale nel 1860 scriverà chiaramente che Valerio
non era né mai era stato mazziniano14.
Nella accademia del canonico Pino troviamo, oltre a Valerio ed a Cornero, un gran
numero di giovani che saranno tra i protagonisti del giornalismo e della politica piemontese
nei decenni seguenti.
Erano personaggi come Massimo Cordero di Montezemolo, un esule del ’31, allontanatosi
dal Piemonte dopo la scoperta della congiura dei cosiddetti Cavalieri della
Libertà, che, a cavallo tra gli ultimi giorni di regno di Carlo Felice e l’ascesa al trono
di Carlo Alberto, avevano tentato un colpo di mano per ottenere una costituzione.
Tra i cospiratori del ’31 vi era stato anche Angelo Brofferio, solitaria voce di un repubblicanesimo
più letterario che politico, avvocato e giornalista brillante, più tardi oratore
facondo e pungente in Parlamento, allora troppo sospetto di delazioni per essere
tra gli adepti della “Conversazione letteraria”, ma che già dava prova della sua abilità
giornalistica rivitalizzando un modesto «Messaggere Torinese». Nelle sale del canonico
Pino troviamo invece i fratelli Ignazio e Domenico Buffa, quest’ultimo – che
già abbiamo visto ricordato dall’Aquarone – destinato ad essere futuro ministro del
regno.
13 L. Valerio, Note confidenziali, cit.
14 «Valerio fu ed è democratico spinto, ma non fu e non è mazziniano o repubblicano. È deciso,
ardito, orgoglioso, sa urtare contro i pregiudizi popolari e resistere agli impeti della piazza
», così scriveva il Cavour a Carlo Pellion di Persano il 7 luglio 1860 (C. Cavour, Epistolario,
XVII, (1860), tomo 3, a cura di C. Pischedda e R. Roccia, Firenze, Olschki, 2005, p. 1250).
453
Il Montezemolo, rientrato dall’esilio e ancora sorvegliato dalla polizia, aveva fondato,
nel 1836, il «Subalpino», quella rivista citata dal Mazzini nella lettera al Benza
che abbiamo menzionato all’inizio, con l’ambizione di farne nientemeno che la prosecuzione
in Piemonte della famosa «Antologia» fiorentina del Vieusseux, soppressa
tre anni prima.
In quello stesso anno Lorenzo Valerio dava vita ad un foglietto settimanale, le
«Letture popolari», destinate all’educazione delle classi meno abbienti delle città e
delle campagne. A questo periodico non mancheranno nel tempo illustri collaboratori
di area liberale moderata, come Cesare Balbo, Carlo Ignazio Giulio, Ilarione Petitti
di Roreto, ma la base dei collaboratori sarà costituita proprio da molti degli antichi
sodali della «Conversazione letteraria». Del resto lo stesso canonico Pino figurerà tra
i firmatari della richiesta di pubblicazione fatta alle autorità.
Diversi, fra questi giovani, sono orientati su una linea simile a quella che abbiamo
vista enunciata dal Valerio. Sono già figli del disincanto succeduto ai fallimenti del ’33
e del ’34 che li aveva costretti, evidentemente, ad una profonda riflessione.
Era stato dapprima il Gioberti a prendere posizione. Già il 4 ottobre 1834 egli si
era trovato a rispondere ad una lunghissima lettera di Mazzini che gli chiedeva: «perché
non siete con noi? Perché, dopo aver salutato la bandiera della Giovine Italia, dopo
aver detto grideremo con voi Dio e il Popolo, e studieremo di propagare questo
grido, venuto in Francia ci avete lasciati soli e vi siete isolato?»15.
Pensate voi, mio caro Strozzi – scriveva Gioberti nella sua altrettanto lunga replica –, che
tanti giovani tolti dalla morte, dalle carceri e dall’esilio all’Italia, i quali, parlando generalmente,
erano quelli che pensavano meglio e più efficacemente operavano coi discorsi e cogli
scritti, non abbiano impoverita d’assai, mancandole, la patria nostra, scemato il suo progresso
e il vigore dell’opinione pubblica? E se all’incontro costoro fossero continuati a vivere
in patria e a godere di quella, non dirò libertà, ma minore schiavitù che avevasi prima
nel parlare e nel leggere, non credete voi che da qui a qualche anno il progresso sarebbe stato
notabile16?
Considerazioni che potevano sposarsi con quelle che, qualche anno dopo, Lorenzo
Ranco scriveva a Domenico Buffa, narrandogli la vicenda del 1833. Il fallimento
dell’azione rivoluzionaria allora preparata in Piemonte dal Mazzini egli lo attribuiva
ad «un vizio organico che doveva in un momento di crisi paralizzare tutte le forze vive
e toglierci la potenza. Il vizio era la Congrega Centrale di Marsiglia, era la sua lontananza
dal centro dei lavori […] era l’autorità quasi dittatoriale», tutti fattori che avevano
impedito una pronta reazione alla scoperta dei primi fili della cospirazione da
parte delle autorità17.
Non dovevano essere molto diverse le opinioni dell’uomo che, per energia e visione
politica, stava divenendo il punto di riferimento del liberalismo radicale in Piemonte,
Lorenzo Valerio18. Egli aveva avuto una vita abbastanza movimentata. Abbando-
15 G. Mazzini, SEI, volume X, Epistolario, volume III, Imola, Galeati, 1911, p. 71; lettera da
Losanna del 15 settembre 1834.
16 V. Gioberti, Epistolario, a cura di G. Gentile e G. Balsamo Crivelli, II, Firenze, Vallecchi,
1927, p. 210; lettera da Parigi del 4 ottobre 1834.
17 «[…] noi potevamo, volendo, levarci ad un tratto e falciare quanto stava in piedi senza
pur l’ombra d’una opposizione semiseria», ricordava inoltre il Ranco (cfr. L. Ranco a D. Buffa,
Alessandria, 11 agosto 1842, in E. Costa, La giovinezza di Domenico Buffa, cit., p. 87).
18 Sulla figura di Lorenzo Valerio rimando alle mie introduzioni ai volumi del suo Carteggio
(1825-1865), raccolto da Luigi Firpo, Guido Quazza, Franco Venturi, I, (1825-1841), cit.; II,
454
nati gli studi, aveva lavorato per qualche anno presso uno dei tanti banchieri della seta
torinesi, commercianti in seterie che univano ad una bottega e ad una spesso modesta
attività finanziaria in città il possesso di uno o più setifici, in genere dislocati nelle
campagne. Ragioni economiche, più che politiche, l’avevano poi indotto a lasciare
Torino nel 1834: anche se pare che la madre stessa lo abbia spinto ad abbandonare la
città proprio quando la stretta poliziesca si stava facendo più dura, dopo la fallita spedizione
di Savoia, avendo avuto sentore di possibili perquisizioni poliziesche. La sua
famiglia, di piccola borghesia cittadina, versava infatti in brutte condizioni finanziarie
ed egli decise di raggiungere a Vienna uno zio materno, ex-ufficiale napoleonico, che
vi si era dedicato al commercio. Per due anni Valerio aveva percorso le vie dell’Europa
centro-orientale come commesso viaggiatore dello zio. Aveva attraversato le terre
tedesche, ungheresi e rumene, nonché quelle polacche e si era spinto sino all’Ucraina
russa. Non fece la fortuna che sperava, ma osservò da vicino la vita di quei popoli, anzi
di quel mosaico di popoli che componevano l’Europa centro-orientale, ne colse il
risveglio nazionale, ne studiò un po’ le lingue e la letteratura e si rese conto, soprattutto,
della complessa contraddittorietà di quel monstrum che era l’impero asburgico.
L’amore per quei popoli lo accompagnerà per tutta la vita. Ritornato in patria per la
morte della madre, aveva assunto la direzione di un grande setificio ad Agliè, un piccolo
centro del Canavese, dove sempre vivo era stato lo spirito della cospirazione politica,
terra d’origine di personaggi come Massimo Mautino, mazziniano, e di Maurizio
Farina, sindaco del vicino paese di Rivarolo, attivissimo tanto come amministratore
quanto come filantropo, amici, entrambi, del Valerio. Qui quest’ultimo aveva potuto
conoscere direttamente le condizioni degli operai dei setifici e gli era nata quella
passione per lo studio della condizione operaia e quel desiderio di agire per migliorarla
che erano stati alla base della creazione delle «Letture popolari».
Rientrando a Torino dai suoi viaggi, Valerio aveva anche ripreso i contatti con quel
variegato mondo giovanile al quale abbiamo accennato nelle pagine precedenti ed
aveva cercato di dare concretezza alla sua volontà di riforma. Proprio in quell’anno,
il 1836, in Piemonte falliva un tentativo di Mazzini di ridare vita alla propria organizzazione.
Un suo emissario, il diacono Rapelli, veniva infatti arrestato dopo una breve
permanenza nel capoluogo subalpino, sufficiente, peraltro, perché si rendesse conto
della scarsa disponibilità dei torinesi a riprendere l’attività cospirativa.
Redigendo il suo giornaletto, Valerio aveva ben presto stabilito contatti con i più
significativi intellettuali dell’Italia settentrionale e centrale, dal Vieusseux a Defendente
Sacchi, da Capponi a Tommaseo. Quest’ultimo, poi, aveva anch’egli indicato al movimento
nazionale italiano una via diversa da quella della cospirazione. Nel 1835, infatti,
aveva pubblicato a Parigi un’opera che riuscì a circolare abbastanza ampiamente
nella penisola italiana. Si trattava dei due volumi intitolati Dell’Italia, mascherati
sotto la tranquillizzante etichetta di Opuscoli inediti di fra Gerolamo Savonarola. Nella
sua fiammeggiante prosa, l’esule dalmata prospettava ai patrioti italiani una operosa
via di educazione e di perfezionamento delle masse popolari. Esse dovevano essere
educate a sviluppare in sé l’uomo libero. Non è certo un caso che Valerio proprio
all’educazione dei ceti più deboli si venga allora dedicando e che ben presto elegga
proprio il Tommaseo a suo consigliere.
(1842- 1847), a cura di A. Viarengo, Torino, Fondazione “Luigi Einaudi”, 1994; III, (1848), cit.;
IV, (1849), a cura di A. Viarengo, ivi, 2003. Ampie e articolate considerazioni su questo carteggio
ha recentemente offerto il saggio di M. Thom, “Neither Fish nor Fowl”? The Correspondence
of Lorenzo Valerio, 1825-1849, in «Modern Italy», 11 (2006), n. 3, pp. 305-326.
455
3. Mazzini, ormai in Inghilterra dal principio del 1837, volse un più attento sguardo
a quanto avveniva a Torino, come s’è detto, sul finire degli anni Trenta, quando riprese
a tessere nuovamente le fila della ricostituzione della Giovine Italia. Ma alcune
informazioni gli giunsero evidentemente anche prima. Così, già il 3 marzo 1837 aveva
avuto dai familiari il programma del «Subalpino»19 e se ne era interessato subito.
«Ho letto il prospetto del Subalpino – e sarei curioso assai di vederne il primo fascicolo
», scriveva alla madre il 14 marzo20, pensando erroneamente che la rivista avesse
cominciato allora ad uscire, mentre in realtà il primo numero aveva visto la luce nell’aprile
dell’anno precedente. Non fu facile procurarglielo, però. Il 27 luglio l’amico
Filippo Bettini gli doveva confessare di non averne ancora avuto copia, «sebben richiest[
a] e promessami da più mesi»21. Prima ancora di ricevere la rivista, nel giugno
1838, Mazzini venne informato che un numero del 1837 conteneva un articolo intitolato
Sull’amor patrio di Dante che tutta la sua famiglia aveva letto con grande ammirazione22.
Ne fu incuriosito23. E quando finalmente, nell’agosto, ebbe non già il fascicolo,
ma la trascrizione dell’articolo, riconobbe subito il suo scritto e se ne meravigliò24,
e insistette ancora per ricevere la rivista, suggerendo di inviargliela via Parigi,
attraverso il fido Lamberti25. Ma solamente nel gennaio 1839 poté annunciare: «Ho
ricevuto tutta la raccolta del Subalpino, gentilezza di que’ signori, e cercherò di compensarli,
appena potrò, con qualche lavoro»26. Lesse tutti i fascicoli e ne diede un giudizio
prudente: «per vero dire non sono gran cosa; ma gli scuso quasi; che può mai
farsi in Italia? Alcune cose inserite contengono peraltro espressioni ardite più che non
avrei creduto tollerarsi in Piemonte», e suggeriva di incitare l’amico Benza a collaborarvi27,
cosa che fece poi direttamente28.
Da Torino, poco dopo, gli giunse, probabilmente dallo stesso Montezemolo, l’invito
a curare una edizione delle opere di Foscolo che egli non si sentì di accettare per
mancanza di tempo29. Insomma, tra gli uomini del «Subalpino» e Mazzini, per il tramite
del Benza, ma certo con pieno consenso del Montezemolo e del Valerio, che cominciava
a prendervi sempre più attiva parte, si vennero stabilendo legami progressivamente
più stretti. Mazzini inviò e vide pubblicati due suoi scritti: l’introduzione a
due drammi di Victor Hugo e il frammento Due adunanze degli Accademici Pitagori-
19 Cfr. Lettere a Mazzini di familiari ed amici 1834-1839, a cura di S. Gallo ed E. Melossi, II,
Imola, Galeati, 1986, p. 347.
20 G. Mazzini, SEI, volume XII, Epistolario, volume V, Imola, Galeati,1912, p. 349.
21 Lettere a Mazzini, cit., p. 410. Mazzini se ne meravigliava a sua volta scrivendo alla madre
il 23 marzo (SEI, volume XII, Epistolario, volume V, cit., p. 359). Ancora il 16 dicembre, tuttavia,
non ne aveva ricevuta alcuna copia (cfr. ivi, volume XIV, Epistolario, volume VI, Imola, Galeati,
1912, p. 196, lettera alla madre, da Londra, del 16 dicembre 1837).
22 Lettere a Mazzini, I, cit. pp. 524-525, lettera della madre del 9 giugno 1838.
23 G. Mazzini, SEI, volume XV, Epistolario, volume VII, Imola, Galeati, 1913, pp. 35-36; lettera
alla madre, da Londra, del 22 giugno 1838, e, ivi, p. 53, ancora alla madre, da Londra, 29
giugno 1838, e alla stessa, da Londra, 4 luglio 1838, p. 66.
24 Ivi, p. 162, alla madre, da Londra, 28 agosto 1838.
25 Ivi, p. 220, alla madre, da Londra, 9 ottobre 1838.
26 Ivi, p. 360, alla madre, da Londra, 31 gennaio 1839.
27 Ivi, p. 371, alla madre, da Londra, 6 febbraio 1839.
28 Ivi, p. 416, a Giuseppe Elia Bensa [recte: Benza], da Londra, 7 marzo 1839. Nella lettera
giudicava il suo scritto dantesco «vera gridata da collegio», rammaricandosi che fosse stato pubblicato
(ivi, p. 418), chiedeva comunque come riuscire a far giungere ai redattori qualche suo
contributo (ivi, p. 419).
29 Ivi, p. 441, a Eleonora Curlo Ruffini, da Londra, 26 marzo 1839.
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ci. Si accinse inoltre a scrivere per la rivista torinese un articolo, Byron e Goethe, rimasto
poi inedito per la soppressione del periodico, alla quale non fu estranea proprio la
pubblicazione, risaputa, che esso faceva di scritti dell’ esule. Il quale, per parte sua,
era sempre assai stupito che il «Subalpino» continuasse a vivere: «dubito assai, del resto,
della vita di quel Giornale», scriveva il 2 ottobre alla madre30. Ma nel dicembre la
sua meraviglia crebbe ancora: «vi sono – osservava – in quel giornale pagine arditissime;
e non capisco come mai si governi il paese ove siete tra le protezioni crescenti a’
gesuiti e certi atti quasi inesplicabili di tolleranza»31. E in varie lettere successive troviamo
traccia del suo impegnarsi a redigere contributi per la rivista.
Quando finalmente ne apprese la soppressione, pur non sapendo che il periodico
era passato ormai nelle mani di Valerio e Cornero, era proprio il momento nel quale
aveva appena ricevuto o stava per ricevere la lettera del Benza che abbiamo citato all’inizio.
La sua reazione fu quindi tanto più sarcastica:
Dunque il «Subalpino» ha subito la sorte degli «Indicatori», dell’ «Antologia», etc. Così va
bene e così doveva essere. Mi fa piacere che in mezzo a tanto preteso mecenatismo venga
qualche atto che mostri il vero stato delle cose,
scriveva alla madre il 2 aprile 1840. In realtà rimpianse a lungo il «Subalpino».
Dai contatti avuti con i redattori della rivista, poi, egli dovette anche maturare l’idea
che vi fosse una certa sintonia tra la sua visione politica e la loro. Il che ci aiuta a
meglio capire la sua aspra reazione alla lettera del Benza che gli annunciava una svolta
nel pensiero e nell’azione che quel gruppo si proponeva.
4. C’è, nella storia del Regno sabaudo della prima metà dell’Ottocento, un turning
point che è stato finora molto sottovalutato. Si tratta degli anni 1840-1841. Come si
ricorderà, nel 1840 la tensione tra Francia ed Inghilterra per le vicende medio-orientali
divenne altissima, tanto da far ritenere imminente un conflitto che sarebbe degenerato,
si pensava, in una guerra europea la quale avrebbe visto la Francia riprendere
la strada dell’espansione. Per Carlo Alberto la minaccia era molto seria ed egli reagì
subito, cercando di compattare il fronte interno del suo regno con una stretta repressiva.
Nell’arco di pochi mesi, tra il 1840 ed il 1841, tanto il «Subalpino», del quale Valerio
e Cornero avevano in pratica assunto la direzione, essendo Montezemolo rimasto
in Toscana, quanto le «Letture popolari» vennero soppressi. Furono mesi nei quali
gli ambienti reazionari di corte sembrarono vicini a risospingere Carlo Alberto verso
le potenze conservatrici e ad indurlo a retrocedere decisamente sul piano della politica
interna. Com’è noto, però, Luigi Filippo non condusse fino in fondo la sua sfida
e sacrificò alla pace il suo bellicoso ministro Thiers. Ben presto lo svanire del pericolo
di una guerra generale ebbe i suoi riflessi anche all’interno del Regno sabaudo.
La prospettiva che il reazionario conte Luigi Provana di Collegno assumesse la Segreteria
dell’Interno in luogo del dimissionario conte di Pralormo, formando così col
conte Solaro della Margarita, che reggeva la Segreteria degli Esteri, un potente fronte
conservatore nel governo, venne rapidamente meno, con grande sollievo anche dei
liberali moderati come Cavour e Balbo.
Sarà Stefano Gallina, un borghese successivamente nobilitato, «nato di popolo»,
come scriverà Valerio, ad unire sotto la sua reggenza la Segreteria dell’Interno e quel-
30 Ivi, volume XVIII, Epistolario, volume VIII, p. 223, alla madre, da Londra, 2 ottobre
1839.
31 Ivi, p. 321, alla madre, da Londra, 26 dicembre 1839.
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la, che già deteneva, delle Finanze. In quel momento, crediamo, si può veramente dire
che finì l’età della Restaurazione nel Regno di Sardegna.
Anche per Valerio ed i suoi amici si aprì un’epoca nuova. Nel 1842, auspice il ministro
Stefano Gallina, le «Letture» poterono riprendere le pubblicazioni, col titolo
appena mutato in un più tranquillizzante «Letture di famiglia», la cui stampa venne
assunta dal Pomba.
Carlo Alberto, inoltre, spinto probabilmente dai consigli del ministro Gallina e del
fido marchese Cesare Alfieri, si decise a «faire quelque chose pur la bourgeoisie», permettendo
la costituzione della Associazione agraria subalpina, un sodalizio che ebbe
immediatamente un larghissimo successo e in seno al quale, ben presto, le discussioni
agrarie assunsero un carattere spiccatamente politico32. Ad essa, infatti, aderirono
esponenti del movimento liberale di ogni parte del Piemonte, che vi trovarono una palestra,
sia pur attentamente vigilata, di dibattito sul futuro, non solo economico, del
Regno sabaudo.
Ben presto vennero delineandosi due schieramenti, sia pure assai fluidi. Il primo,
quello del liberalismo moderato aristocratico, finì per essere identificato nelle posizioni
del giovane figlio del vicario di Polizia di Torino, Camillo Benso di Cavour. Esso
tendeva a fare dell’Associazione un sodalizio di discussione più tecnica ed economica,
nel quale predominassero i soci torinesi, in genere appartenenti all’aristocrazia. La
politica era meno evidente, si tendeva soprattutto a spingere verso una maggiore libertà
economica di fatto. Il secondo schieramento, che finì per essere maggioritario,
era decisamente più politicizzato. Lo capeggiava, appunto, Lorenzo Valerio, al quale
si erano venuti affiancando un avvocato molto rinomato in Torino, quel Riccardo Sineo
che abbiamo già visto giovanissimo possibile partecipante al moto del ’21, e Giovanni
Lanza, futuro presidente del consiglio dell’Italia unita. Tra i suoi componenti
non mancavano il Montezemolo e, naturalmente, il Cornero. Secondo costoro l’Associazione
agraria doveva essere anche la sede di un, sia pur prudente, dibattito politico,
velato dietro i problemi agricoli, al quale dovevano essere chiamati a contribuire
soprattutto i soci delle province, esponenti di quella borghesia non solo agricola ma
delle professioni che aveva cominciato ad emergere e a rafforzarsi sin dall’età napoleonica.
Essa, inoltre, doveva divenire un attivo motore del progresso economico del
regno sabaudo. Il disegno verrà varie volte illustrato ed approfondito, proprio nelle
«Letture di famiglia», tanto dal Valerio quanto dal Cornero. L’associazione avrebbe
dovuto avere una propria autonomia economica che la mettesse in condizione di dar
vita ad una serie di iniziative in grado di costituire un modello di riferimento per gli
operatori economici subalpini. Ecco allora la proposta non solo di dar vita a poderi
modello (che suscitò l’opposizione fermissima di Cavour) ma anche di setifici-modello
e persino di asili-modello.
Due programmi agli antipodi, che si riverberavano, naturalmente, anche sull’intensità
del sentimento “patriottico” che ogni gruppo palesava, sentimento sul quale
anche troppo si è soffermata la storiografia tardo ottocentesca. Dietro a quello di Va-
32 Sui primi anni della Associazione agraria subalpina il quadro complessivo più aggiornato
rimane quello tracciato, utilizzando a pieno i verbali delle riunioni, da R. Romeo in Cavour e il
suo tempo, II, 1842-1854, Bari, Laterza, 1977, t. 1, cap. I, pp. 3-115. Anche questo straordinario
e fondamentale lavoro, tuttavia, trascura di collegare in un quadro complessivo l’azione di
Valerio e dei suoi amici nei vari campi della stampa, della cultura e dell’assistenza con le idee
che essi cercarono di far prevalere nell’Associazione. In tal modo il loro agire in seno al sodalizio
risulta in qualche misura sfocato ed anche il contrasto con esso del Cavour non acquista tutto
il suo pieno significato.
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lerio, inoltre, c’era qualcosa di più. Valerio ed i suoi amici erano ormai una sorta di
embrionale partito politico che raccoglieva sempre più larghe adesioni, soprattutto tra
gli associati borghesi e delle province. Come osserverà lo stesso Lanza, sarà infatti proprio
in seno all’Agraria che i partiti vennero per la prima volta chiarendosi pubblicamente33.
Attorno alle «Letture» ed al loro direttore, quell’area di opinione che abbiamo
visto venire sviluppandosi negli anni a cavallo tra il terzo ed il quarto decennio del
secolo si era infatti consolidata in un gruppo che i liberali moderati, come Ilarione Petitti
di Roreto, cominciavano con sempre maggior frequenza a definire col termine di
“radicali”. Di più, in costoro veniva maturando sempre più il convincimento, sia pur
ancora oscillante, di poter portare sulle loro posizioni lo stesso Carlo Alberto, inducendolo
a progressive riforme alle quali avrebbe dovuto accompagnarsi un crescente
impegno contro la politica austriaca di egemonia nella penisola italiana. Si era così venuto
delineando, sin dai primi anni Quaranta, il nucleo centrale di quella che sarà la
futura Sinistra parlamentare subalpina. Univa i suoi componenti il desiderio di giungere
alla conquista di una costituzione; una costituzione, però, che lasciasse ampio
spazio al mondo delle professioni, alla borghesia, a scapito della ancor dominante aristocrazia,
dove pure essi potevano contare, come vedremo, su appoggi significativi.
Lo scontro che contrappose allora Cavour e Valerio nelle sale dell’Agraria, quindi,
fu tutt’altro che un puro scontro di personalità: erano due orientamenti politici che
venivano per la prima volta a confronto. E fu il secondo, allora, ad avere la meglio.
Intanto l’avvicinamento tra gli esponenti del liberalismo radicale: i Valerio, i Sineo,
i Lanza, i Cornero, i Depretis, per fare qualche nome (ai quali andrebbe aggiunto un
Rattazzi molto defilato, però, fino alla vigilia del ’48), e certi ambienti di corte o comunque
influenti nella vita politica subalpina, proseguì e, tra alti e bassi, si consolidò. Si intravedono
infatti in modo abbastanza nitido tutta una serie di legami con esponenti della
classe dirigente aristocratica più aperta. Lo prova un fatto, ben noto ma sempre eclatante,
del 1846. Carlo Alberto venne avvertito, probabilmente dal marchese di Cavour
padre, che l’Associazione agraria si stava trasformando in una sorta di club rivoluzionario
in seguito alle tensioni tra i due schieramenti originatesi non solo e non tanto in
merito al rinnovo della carica presidenziale, quanto sui rapporti centro-periferia e sul
ruolo delle commissioni, decisive per il controllo dell’assemblea dei soci. La prima decisione
del re fu di colpire il male alla radice: arrestare Valerio e alcuni dei suoi amici
più accesi. Ma qualcuno intervenne: erano i protettori di Valerio nelle alte sfere, tutti
aristocratici, ovviamente: il marchese Cesare Alfieri di Sostegno, amico fidato del sovrano,
il conte Filiberto Avogadro di Collobiano, scudiero della regina madre, forse lo
stesso ministro Stefano Gallina che, quattro anni prima, aveva convinto Carlo Alberto
a far riprendere le pubblicazioni delle «Letture» del Valerio, soppresse dal sovrano nel
1841. Un bel gruppo di aristocratici alla difesa di un tipo che, per le frequenti citazioni
dei Gracchi nelle sue concioni antinobiliari, veniva chiamato “Caio Gracchia”. Un
gruppo, per giunta, tutt’altro che omogeneo. Vi troviamo infatti l’esponente di punta
del grande clan Alfieri-Azeglio, solidamente legato a Carlo Alberto, e un importante
rappresentante di quello degli Avogadro di Collobiano, legatissimo a Carlo Felice, tanto
da essere emarginato nei primi tempi del regno carloalbertino.
Il sovrano convocò Valerio, che venne opportunamente consigliato ad accogliere
l’invito dal marchese Alfieri, e gli parlò piuttosto chiaramente (a quanto racconterà
33 Cfr. Le carte di Giovanni Lanza, a cura di C.M. De Vecchi di Val Cismon, I, (1829-1857),
Torino, Regia Deputazione subalpina di Storia patria, 1935, p. 45. Si tratta di un appunto tratto
dal Diario 1845 del Lanza. In realtà Lanza intendeva per “partiti” le due ali (moderata e radicale)
del liberalismo subalpino.
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34 L. Valerio, Carteggio, II, cit., p. 380, lettera da Torino del 10 aprile 1846. Per l’incontro
tra Valerio e Carlo Alberto cfr., ivi, pp. XLII- XLIV.
35 G. Mazzini, SEI, Epistolario, IX, cit., p. 123.
poi Valerio stesso): «era più amico delle riforme di quanto non lo si credesse», gli disse,
ma le riforme le voleva fare lui, non farsele imporre. Insomma, per chi gli avesse
messo fretta, c’era la prospettiva di finire in una fresca cella a Fenestrelle. Valerio comprese
e i due non dovettero essersi dispiaciuti. Il risultato dell’incontro fu infatti a dir
poco stupefacente: il re mise sì un commissario a capo dell’associazione agraria, ma
questi non era altri che il Collobiano e Valerio restò segretario dell’associazione «dietro
personale suo invito», come riferirà in quei giorni a Giacomo Ciani, un ricco esule
italiano in Svizzera che, guarda caso, aveva preso parte alla fallita spedizione mazziniana
in Savoia nel 183434.
L’incontro tra Valerio e Carlo Alberto, visto oggi, ci sembra fare quasi da pendant
a quello, ben più noto, avvenuto tra il re e Massimo d’Azeglio pochi mesi prima, quasi
che il sovrano volesse sondare nello stesso tempo le punte più avanzate, in senso
riformatore e patriottico, tanto dell’aristocrazia quanto della borghesia.
5. A questo punto occorre tornare ancora per un momento alla lettera di Mazzini
a Giuseppe Elia Benza dalla quale siamo partiti ed esaminarne un ulteriore, interessante
passaggio.
Avete – scriveva Mazzini – da fondare la vostra insurrezione sul non intervento, a replicare
il 1831; o avete da sostenere una guerra accanita coll’Austria, e da prepararvisi. E per prepararvisi
mi parlate dell’alta classe? E tu mi dici che senza un movimento generale, non vedi
possibilità di moto repubblicano in Italia? Credi che l’alta classe ordini, aiuti o fomenti
una rivoluzione costituzionale italiana prima di questo movimento generale europeo? Lo
credi davvero? Hai, in questo caso, più illusioni di me. La classe alta, le sommità dell’esercito,
tutti quei che ciarlano di rivoluzioni costituzionali, non intendono che rivoluzioni locali;
e di più non vogliono aiutare a tentarle se non dopo un moto francese; stolidi che non
s’avveggono che il primo moto francese non sarà che repubblicano. Se calcolate su questi
elementi per l’impresa, in nome di Dio lasciate stare; non vi sacrificate per ciò che non merita
il sacrificio. I vostri elementi stanno nel popolo, nella gioventù, nella massa dell’esercito;
e a sommuoverli, il grido repubblicano sarà venti volte più potente che non qualunque
altro. Con quello, potrete, volendo, volcanizzare l’Italia; con un altro, no. Perdio! La storia
del 1820-21 è già così vecchia che l’abbiate dimenticata35?
Dunque il Benza, nella sua lettera, aveva fatto riferimento a qualche possibilità di
intesa, sul piano di una prospettiva costituzionale, con esponenti della classe “alta”,
con “sommità” dell’esercito. Non si trattava certo di un discorso unilaterale, dunque
c’erano personaggi, nel 1840, si badi, appartenenti alle sfere del potere o vicine ad esso
che a quella prospettiva guardavano ed erano disponibili a fiancheggiare in qualche
modo l’ala liberale più radicale. È un terreno a tutt’oggi quasi inesplorato e certo
la protezione reiterata di un Cesare Alfieri o del ministro Gallina nei confronti di Lorenzo
Valerio dà parecchio da pensare, tanto più se teniamo presente che, nel 1848,
sarà proprio un connubio tra aristocrazia liberale moderata, con a capo Roberto d’Azeglio,
e borghesia più radicale, nella quale si conteranno Valerio ed i suoi amici, a dominare
ed a controllare la piazza torinese e, sia pur in parte, anche quella genovese.
Per Cavour quella dell’Agraria fu una sconfitta cocente. Ma chi aveva avuto un
ruolo decisivo nella vicenda? Quale parte vi aveva giocato un Riccardo Sineo, avvocato
con larghi legami nel mondo dell’aristocrazia e parte, da anni, dell’amministra460
zione civica di Torino? A chi era diretto quello scritto conservatoci tra le sue carte, intitolato
significativamente Associazione agraria. Intrighi di casa Cavour e nel quale sono
riassunti gli scontri, nell’agraria, col vivace conte? È troppo pensare che fosse un
memoriale da presentare al re?
Resta comunque un fatto: Carlo Alberto manifesta una decisa apertura, sia pure
condizionata, verso l’ala più radicale del liberalismo subalpino. Un’apertura che si accompagna
ad un sempre più netto atteggiamento antiaustriaco che trovava naturalmente
ampio appoggio tra i radicali. Un bell’esempio di cooperazione tra loro ed il sovrano
è costituito, in quello stesso 1846, dalla nascita di una Società per l’esportazione
dei vini piemontesi, nata per controbattere il forte aumento dei dazi imposto dal governo
di Vienna sui vini piemontesi che prendevano la via del Lombardo-Veneto a seguito
della querelle scoppiata tra Vienna e Torino sulla questione del diritto di transito
nel regno sardo del sale diretto verso la Svizzera. La gestazione della società non fu breve,
nonostante che Carlo Alberto, informato dell’iniziativa da Massimo d’Azeglio, fosse
«saltato sulla sedia e non l’a[avessero] mai veduto tanto animato e allegro»36. Ma,
quando fu costituita, la sua composizione appare quantomeno curiosa. C’era sì Cesare
Balbo, ma affiancato da un uomo di fiducia di Carlo Alberto, il marchese Carlo Ferrero
della Marmora, e, soprattutto, circondato da “radicali”, come Valerio, Giovan Battista
Michelini, Giuseppe Cornero e Riccardo Sineo, quest’ultimo in veste di segretario.
Da lettere conservate tra le carte Valerio sappiamo che l’iniziativa era stata decisamente
appoggiata dal ministro di Guerra e Marina, Pes di Villamarina, che l’aveva presentata
al re che, come scriveva Valerio a Balbo, ne «fu fanatizzato»37.
Invano cercheremmo nella pur copiosa letteratura su Carlo Alberto una analisi di
questa stranissima alleanza tra un sovrano così chiuso, altero, tutto compreso nella sua
missione, e personaggi, come Valerio o Sineo, che rappresentavano l’ala più radicale
del liberalismo subalpino. Eppure è un passaggio importante per capire le strategie di
fondo del sovrano che, come per ogni buon Savoia, erano volte all’espansione del regno
e, in quest’ottica, alla da secoli agognata conquista della Lombardia.
Nelle segrete e spesso contraddittorie viste del re, dove si mescolano la paura della
rivoluzione, l’odio per l’Austria e l’ambizione della conquista, c’era, però, anche una
preoccupazione diversa. Nella sua mente di sovrano ultraconscio di una sua missione,
c’era il timore verso una certa frazione della aristocrazia subalpina, il cui più significativo
esempio è Cavour. Carlo Alberto ben sapeva che anche costoro puntavano ad
una costituzione. Non erano però i borghesucci di Torino e delle province: erano uomini
potenti, orgogliosi, con legami internazionali. Con loro – e sarà così – costituzione
avrebbe significato dire anzitutto predominio del Parlamento sulla corona e sempre
meno spazio di manovra per il sovrano. Essi non amavano l’Austria ma ritenevano
utopiche guerre di liberazione dallo straniero delle terre italiane.
Carlo Alberto guardava invece alla Lombardia, coglieva la convergenza che c’era
tra il patriottismo, per quanto in fondo in fondo unitario e di matrice mazziniana, di
gente come Valerio e i suoi disegni di espansione. L’Austria era nemico comune. Di
fronte alla prospettiva di riforme e di una politica estera antiaustriaca i radicali erano
disposti – come vedremo – anche a posticipare le loro richieste costituzionali.
Era poi importante, per il re, formarsi un partito in Lombardia. Qui molta parte della
aristocrazia e della grande borghesia era già in qualche modo legata al Piemonte per
via delle terre che vi possedeva. Attratta dal ruolo importante che l’aristocrazia ricopri-
36 M. d’Azeglio, Epistolario (1819-1866), III, (1846-1847), a cura di Georges Virlogeux, Torino,
Centro Studi piemontesi, 1992, p. 83; lettera da Torino del 2 maggio 1846 alla moglie.
37 L. Valerio, Carteggio, III, cit. pp. 449-450.
461
va nella vita politica del Regno Sardo, tanto più se paragonato a quello pressoché nullo
che Vienna riservava alla nobiltà lombarda, quest’ultima guardava con interesse a Torino.
Del resto il dominio austriaco piaceva poco, in generale, ai lombardi, basterà pensare
al famoso Marzo 1821 del Manzoni per ricordarcene. Certo, c’era chi, come Carlo
Cattaneo, non la pensava così, soprattutto nei confronti del regno subalpino, ma, appunto
per questo, occorreva un partito filosabaudo. Esigenza alla quale potevano contribuire
proprio i radicali subalpini, assai più politicamente credibili del loro sovrano.
A questo compito si dedicarono proprio personaggi in vario modo legati a Carlo
Alberto. Moderati come Giacomo Giovanetti di Novara o uomini legati al Valerio, come
il canavesano Maurizio Farina che, grazie alla moglie lombarda, poteva muoversi
in Lombardia a suo piacimento. Regista delle operazioni, punto fermo nei contatti con
il mondo del liberalismo radicale, divenne il conte di Castagnetto, già segretario di
Carlo Alberto e ora ministro della Real casa. Le lettere che egli allora dirigeva a Valerio
sono prove evidenti di una stretta collaborazione.
Ma questi sono anche gli anni degli entusiasmi neoguelfi. Il Primato morale e civile
degli italiani di Vincenzo Gioberti, con la sua idea di una confederazione fra gli stati
italiani (ma del Lombardo-Veneto austriaco che ne sarebbe stato?) presieduta dal
pontefice aveva suscitato grandissimi entusiasmi. Non contava che papa Gregorio fosse
un durissimo conservatore; invano Mazzini strillava che costoro pensavano ad un
impossibile «Risorgimento d’Italia in Arcadia». Tanto più che, nel 1846, avvenne l’imprevedibile:
un papa riformatore. Era poco più di un buon prete di campagna, il cardinale
Mastai Ferretti che assunse il nome di Pio IX, ma era anche conscio che la situazione
dello Stato della Chiesa non poteva essere mantenuta ferma indefinitamente.
Concesse un’amnistia, preannunciò qualche timida riforma. Com’è noto si scatenò
un processo a catena apparentemente inarrestabile. Manifestazioni su manifestazioni,
inni e omaggi al papa riformatore. Ben presto il fenomeno si allargò a tutta Italia.
Nel Regno di Sardegna fu quella l’ora di Gioberti, il profeta di Pio IX. Anche Gioberti,
come Carlo Alberto, aveva bisogno di una base politica. La trovò nei radicali
che, dapprima diffidenti del suo Primato, giudicato assai negativamente, si avvicinano
a lui quando, nel Gesuita moderno, si diede ad attaccare a fondo quest’ordine religioso,
ritenuto cardine del reazionarismo politico. I radicali subalpini non erano ciechi:
capivano bene che la strada da fare era lunga, ma il popolarissimo Gioberti era
un buon compagno di strada. Sineo si incaricò di tenere i contatti con Gioberti, di fare
da tramite, inizialmente, tra lui e Valerio.
Ormai l’ala radicale del liberalismo subalpino si faceva più audace: le «Letture di famiglia
» di Valerio si erano trasformate in una sorta di organo politico. Le opere che non
si potevano pubblicare in Piemonte venivano stampate presso la tipografia svizzera del
Bonamici, sostenuta finanziariamente da due amici del Valerio: Maurizio Farina ed il
valtellinese Luigi Torelli che, nell’anonimo libretto, Pensieri sull’Italia di un anonimo
Lombardo, pubblicato per i tipi del Bonamici proprio nel 1846, indicava chiaramente
un obiettivo: la costituzione di un vasto regno dell’Italia settentrionale sotto casa Savoia,
con l’espulsione dell’Austria dalla penisola. Ma dalla tipografia Bonamici di Losanna
usciva anche un periodico, il «Così la penso», redatto da Filippo De Boni, un esule di
tendenze repubblicane in contatto con Mazzini: questa rivistina Valerio ed i suoi amici
la introducevano clandestinamente in Piemonte. Questo andava oltre quanto Carlo Alberto
poteva permettere. Le lettere di Bonamici a Valerio ed a Farina vennero intercettate,
i librai che vendevano sottobanco il «Così la penso» e opere provenienti dalla stamperia
del Bonamici furono arrestati, le «Letture di famiglia» soppresse.
Come spesso avvenne, un momento di rigore, che suscitò lo stupore di Gioberti e,
come vedremo, l’ironia di Mazzini, precedette, in Carlo Alberto, un momento di rifor462
ma. Il re, come aveva detto a Valerio, voleva mostrarsi padrone della situazione. E infatti
importanti riforme vennero avviate alla fine di ottobre 1847. Anche per lui, allora,
manifestazioni, evviva, canti, inni, poesie e, soprattutto, banchetti. Banchetti in cui
parlavano i futuri uomini politici del paese. L’avvocato Sineo, ad esempio, non ne
mancò uno. Gratitudine al sovrano, ordine, fiducia, concordia tra le varie classi sociali,
questo predicavano i Sineo, i Valerio e un aristocratico come il marchese Roberto
d’Azeglio, che assume un ruolo centrale nella organizzazione della piazza. In questa
fase Valerio non sembra avere un rilievo comparabile con quello che fino allora gli abbiamo
visto giocare. Forse giocava la sua limitata capacità oratoria, forse la sua sempre
scarsa propensione per i momenti rumorosi, ma questi erano, tutto sommato,
aspetti secondari. In realtà ciò che gli nocque fu il troppo stretto legame con la reggia,
attraverso il conte di Castagnetto, che Brofferio gli rimproverò apertamente. Insomma
il “radicale” Valerio peccò di troppa prudenza, nello sforzo di mantenere insieme
legati la reggia e la piazza, i moderati e i radicali, quello che gli appariva ormai
un unico grande fronte liberale e patriottico38.
6. Il 1847 si chiuse in un clima di euforia. Il 1848 si aprì con la rivolta della Sicilia
e, poco dopo, con l’improvvisa decisione del re di Napoli di concedere una costituzione.
Le agitazioni si diffusero ovunque, in Lombardia vennero duramente represse.
Intanto, però, le segrete relazioni tra le due sponde del Ticino – delle quali, però, ben
poco si sa – si erano venute consolidando. Nei suoi appunti autobiografici, già ricordati,
Valerio parla addirittura di un comitato piemontese-lombardo da lui presieduto.
Anche nel Regno sabaudo la situazione si complicò. Per quanto le manifestazioni
torinesi fossero disciplinate, per quanto Carlo Alberto avesse allontanato dal governo
il ministro reazionario Solaro della Margarita (ma, contemporaneamente, aveva indotto
alle dimissioni anche il più progressista Emanuele Pes di Villamarina), si avvertiva
lo scricchiolio di tutto un sistema politico.
Ma era Genova a destare le maggiori preoccupazioni, la città di Mazzini, la città
che mai aveva pienamente accettato l’incorporazione nel regno subalpino. Qui le manifestazioni
si susseguivano, le richieste di cambiamenti erano più determinate, i gesuiti,
indicati dal Gioberti come sostegno della reazione austriacante, venivano apertamente
minacciati. Nuove e vecchie nostalgie repubblicane e municipaliste potevano
farsi largo.
Quando arrivò a Torino una delegazione genovese, venuta per chiedere al re la cacciata
dei gesuiti e la costituzione di una guardia civica, si poté vedere chiaramente quanto
fosse rilevante il ruolo del gruppo di Valerio e Sineo, che tanto aveva contribuito a collegare
l’agitazione torinese a quella genovese e, in una certa misura, a tenerle sotto controllo
entrambe. Del resto il giovane leader degli studenti liguri, Goffredo Mameli, non
aveva forse inviato proprio alla direzione della «Concordia», il giornale diretto da Valerio,
la bandiera studentesca genovese in segno di fratellanza? E proprio allora emerse tutta
la “prudenza” double face di quel gruppo. Certo: non bisognava spaventare o irritare
Carlo Alberto. Sineo aveva già fatto parte di una delegazione torinese recatasi a Genova
per ribadire la fratellanza tra le due città, il superamento di ogni frattura municipalistica.
Perciò è naturale che lui e Valerio, che avevano dato vita a un quotidiano politico dal ti-
38 Ancora vari anni dopo, Valerio avrebbe ricordato il suo atteggiamento prudente nelle manifestazioni
a cavallo tra il 1847 ed il 1848, accusando invece a Roberto d’Azeglio di aver tenuto
allora comportamenti demagogici, in una lettera, comparsa nella «Croce di Savoia» del 2
marzo 1852, in cui replicava alle accuse di estremismo che, in un suo intervento al Senato, l’Azeglio
aveva rivolto all’ormai cessato giornale del Valerio, la «Concordia».
463
tolo veramente quarantottesco, «La Concordia», diventino il punto di riferimento della
delegazione genovese che, in quanto non ufficiale, il re rifiutò di ricevere.
Proprio negli incontri tra i delegati genovesi ed i giornalisti subalpini, cioè la nascente
nuova classe politica, si arrivò a discutere delle richieste da avanzare al sovrano
per sviluppare e consolidare le riforme di fine ottobre. Le divisioni in materia si
delinearono vivissime, non tra genovesi e subalpini, ma proprio tra le due ali del liberalismo
piemontese. Cavour, di fronte al rischio che la situazione si deteriorasse, propose
di chiedere senz’altro al re la concessione di una costituzione. Riferirà Valerio al
Gioberti: «Mentre Genova era in uno stato di massima agitazione, mentre Milano era
insanguinata, colle sponde del Ticino coperte di soldati tedeschi, commettere un atto
così violento contro il Re parve a me, a Sineo, una vera esorbitanza, e vi ci opponemmo
con tutte le nostre forze»39. La proposta non passò. Sineo e Valerio avevano certo,
attraverso il loro assiduo contatto col conte di Castagnetto, ben presente la ripugnanza
di Carlo Alberto a concedere una costituzione, ma le ragioni del loro atteggiamento
erano anche altre. In primo luogo, con le riforme della fine di ottobre, si profilava
una radicale riforma in senso elettivo del sistema provinciale e comunale, per
giunta in un senso elettivo piuttosto ampio, nel quale si faceva spazio non solo alla ricchezza
fondiaria ma alle cosiddette “capacità”, cioè ai liberi professionisti, alle persone
colte. In secondo luogo, per Valerio e Sineo, era urgente battere in breccia l’aristocrazia
e quindi costituire la guardia civica borghese, visto che l’esercito continuava ad
essere saldamente in mano alla nobiltà che ne occupava tutti i vertici. Solo così si sarebbe
potuto, come coglieva un attento osservatore di parte moderata come lo Sclopis,
«evitare un ordinamento costituzionale che poscia avrebbe impedito un più largo
sfogo d’istituzioni democratiche a cui anelavano», appunto, scriveva, «Lorenzo Valerio
e l’avvocato Sineo, uomini avidissimi di novità»40.
Certo non dovette essere sacrificio da poco per entrambi: «Giammai mi sono trovato
in circostanze più dolorose, dovendo combattere quello per cui ho sacrificato tutta
la mia esistenza», confesserà Valerio al Gioberti, nella lettera sopra ricordata.
Ma gli avvenimenti precipitarono con la concessione della costituzione a Napoli.
Se Carlo Alberto non voleva perdere la testa del movimento nazionale italiano doveva
affrettarsi ad imitare il Borbone. Valerio e Sineo dovettero adattarsi. È solo allora,
siamo ai primi di febbraio del 1848, che Sineo scriverà sulla «Concordia» che la concessione
della costituzione era ormai inevitabile, che, nel consiglio decurionale di Torino,
si pronuncerà a favore di chi – non a caso un amico di Cavour come Pietro di
Santa Rosa – proponeva di avanzare a nome dell’amministrazione civica la richiesta di
una costituzione al re, sempre però insistendo, il Sineo, perché si chiedesse anche la
guardia civica e, ancora sulla «Concordia», avanzando l’idea di un Parlamento monocamerale
(l’antico modello spagnolo del ’21). Ad aprile sarà chiarissimo col Castagnetto:
«il solo modo – gli scriverà – di mantener saldi i troni costituzionali l’è di far loro
una larga base per mezzo d’una schietta e compiuta democrazia»41. È, quasi alla lette-
39 L. Valerio, Carteggio, IV, cit., p. 13, lettera da Torino, 16 gennaio 1848; cfr. anche, ivi, pp.
XIII-XVIII.
40 Cfr. F. Sclopis, Della introduzione del Governo rappresentativo in Piemonte. Memorie storiche,
in Dalle riforme allo Statuto di Carlo Alberto. Documenti editi ed inediti, a cura di A. Colombo, Casale,
Tipografia Cooperativa, 1924, p. 181. Cavour non nascose, nella sua corrispondenza, la funzione
anti-radicale della sua proposta [cfr. la lettera, posteriore all’8 febbraio, da lui diretta al Giovanetti,
C. Cavour, Epistolario, V, (1848), a cura di C. Pischedda, Firenze, Olschki, 1980, p. 55].
41 Torino, Archivio di Stato, Archivio Savoia, Mazzo 44 (Archivio Castagnetto. Lettere di particolari
antecedenti al 1849. p. V), lettera senza data ma attribuibile all’aprile 1848.
464
ra, l’idea del Lafayette: circondare la monarchia di istituzioni repubblicane: l’idea di
base del gruppo Valerio-Sineo e della futura Sinistra subalpina. Per questo, appena
annunciata la concessione dello Statuto, Sineo avanzerà sulla «Concordia» non soltanto
l’idea di un sistema monocamerale, ma chiederà di definire un sistema elettorale
che avesse l’ampiezza di quella prevista dalla legge provinciale.
Dovendo procedere rapidamente, ci limitiamo qui a dire che tali idee non ebbero
successo. Anche sotto la spinta di Cavour, anch’egli membro della commissione, il suffragio
uscì ristretto, sul modello francese, e ben presto si perse ogni ipotesi di uno sviluppo
in senso democratico della appena ottenuta carta costituzionale. È appena il caso
di accennare che le conseguenze per lo sviluppo della democrazia nel futuro Regno
d’Italia saranno rilevantissime. La reazione di fine secolo e lo stesso fascismo non
avrebbero forse avuto luogo se le cose fossero andate diversamente.
Ma quelli quarantotteschi furono momenti di straordinario fervore, che Valerio e Sineo
ricorderanno per tutta la vita. Dalla Lombardia erano giunti a Torino molti profughi
politici, la gioventù subalpina anelava a correre alle armi contro l’Austria, per liberare
i “fratelli” lombardi, frenetici contatti si intrecciano tra le due sponde del Ticino.
Giunse infine il temporale: a Parigi è rivoluzione. Dilaga attraverso la Germania e
giunge sino a Vienna. Metternich, il potente ministro austriaco simbolo della restaurazione
è cacciato. Anche Milano insorse e cacciò le truppe di Radetzky. Valerio e i
suoi amici minacciavano Ricci e Pareto, i ministri loro più vicini nel nuovo gabinetto
costituzionale del liberale moderato Cesare Balbo, di scatenare la piazza se Carlo Alberto
non avesse rotto gli indugi. La «Concordia» incitava con veemenza il re, persino
Cavour riteneva che l’“ora suprema” per la dinastia fosse giunta.
Guerra all’Austria, dunque. Valerio e Sineo raggiunsero ben presto Milano, videro
la confusione ma anche l’entusiasmo, l’orgoglio ma anche il caos. Anche i fratelli
minori di Valerio erano partiti volontari alla volta della Lombardia. Il progetto politico
che Benza aveva tratteggiato a Mazzini otto anni prima sembrava essere sul punto
di attuarsi. Il futuro avrebbe dimostrato che la strada sarebbe stata ancora lunga e gli
esiti tutt’altro che quelli di una «monarchia circondata da istituzioni repubblicane».
7. Ritornando ancora a Mazzini per coglierne l’atteggiamento verso i radicali subalpini
negli anni Quaranta, possiamo vedere che egli reagì alla soppressione delle
«Letture popolari» allo stesso modo con cui aveva reagito a quella del «Subalpino».
«Ho piacere che abbiano soppresso le Letture popolari – scriveva alla madre nel maggio
1841 –: vorrei sopprimessero non che quello di stampare, il diritto di passeggiare.
Così le cose si porrebbero più sempre in chiaro»42. Era il tono di chi credeva di veder
confermata in quella soppressione la propria valutazione negativa della linea politica
intrapresa dal Benza, dal Valerio e dai loro amici.
Nessun conto tenne Mazzini di un altro fatto interessante verificatosi in Piemonte
nell’anno successivo: l’amnistia che consentì il rientro in Piemonte degli ultimi esuli
del 1821, atto di rilevante significato politico da parte del sovrano sabaudo, né, pur
informato, sembra aver dato peso al fatto che vari cospiratori del 1833, detenuti nel
forte di Finestrelle, fossero liberati l’anno successivo. Mostrò invece un sincero stupore
quando seppe che le «Letture» erano risorte con mutato nome43.
42 G. Mazzini, SEI, volume XX, Epistolario, volume X, Imola, Galeati, 1914, p. 199, alla madre,
da Londra, 20 maggio 1841.
43 Ivi, volume XXIII, Epistolario, volume XI, Imola, Galeati, 1915, p. 129:«L’incidente delle
Lettere [sic] popolari cangiate in Letture di famiglia è bellissimo e ho piacere di saperlo», alla
madre, Londra, 6 aprile 1842.
465
Tuttavia il suo più serio punto di riferimento nel gruppo rimase Giuseppe Cornero
che, nel 1843, fu dapprima a Parigi, presso il fidato Lamberti, e poi andò a vedere
lo stesso Mazzini a Londra. «È qui – scrive il Lamberti a Mazzini il 2 ottobre – Avv.to
Cor[nero], diretto da Lor[enzo]: è buono e disposto bene, ma dice immobile il Piemonte
»44. Ben difficilmente chi lo mandava era però Lorenzo Valerio, si trattava piuttosto
di Lorenzo Ranco, chiamato col nome di battesimo in quanto vecchio affiliato.
Accompagnava il Cornero un vecchio cospiratore mazziniano piemontese, Cristoforo
Moja, che trovò subito modo, a Parigi, di scontrarsi con un giobertiano a tutta prova
come l’esule meridionale Giuseppe Massari. Lamberti non disperava di riuscire ad
orientare Cornero ed il suo compagno nel modo dovuto illustrandogli i progetti mazziniani:
anch’egli trasse ottima impressione del giovane piemontese e ne scrisse a Mazzini
convinto che l’incontro fra i due sarebbe stato proficuo. Visto Mazzini a Londra,
Cornero tornò a Parigi nel novembre. Mazzini ne scrisse al Lamberti. L’incontro londinese
non aveva forse appianato tutte le divergenze di opinione, però. Mazzini, infatti,
come sappiamo, scriveva il 23 ottobre 1843 al Lamberti di ricordare al Cornero
che era pur stato in passato membro della Giovine Italia. In realtà Cornero doveva
aver ribadito la linea che abbiamo già visto ricordata negli appunti autobiografici del
Valerio: non preconcetta ostilità a Mazzini, ma disponibilità ad assecondarne le viste
solo se convinti appieno delle possibilità di successo e a questo fine, nei mesi tra il
1843 ed la metà del 1845, fu parecchio attivo, tanto da indurre Mazzini a scrivere al
Lamberti, nel gennaio 1844, che non v’era da «arrischiarsi […] a compromettere
C[ornero] e M[ayer] ottimi e preziosi per un caso urgente»45. In entrambi i casi Mazzini
forse esagerava: proprio il riferimento al Mayer, allora sostanzialmente già lontano
dalle idee mazziniane, è la spia che entrambi non erano del tutto in linea col patriota
ligure. Mazzini, tuttavia, insistette, inviò, sempre attraverso Lamberti vari documenti
al Cornero il quale dovette certamente parlarne con i suoi più fidati amici.
Ma nessuna azione concreta, ovviamente, ne seguì in Piemonte. Mazzini fu forse incoraggiato
dall’aver comunque avuto cinquecento lire di finanziamento e dal fatto che
Cornero si era reso disponibile a recapitare materiale rientrando a Torino, nel marzo
1844, attraverso Genova e altre città della riviera. Doveva anche vedere il Benza e cercare
di scuoterlo46. In ogni caso l’anno successivo, nell’estate 1845, Cornero fu nuovamente
a Londra. Franco Della Peruta, nel suo fondamentale lavoro sull’azione mazziniana
dal 1830 al 1845, afferma che Cornero sarebbe passato nel corso del 1845 su
posizioni moderate47. Ed in effetti, per quanto Cornero, ancora al principio del 1846,
rassicurasse l’amico Moja sulle sue intenzioni politiche che, affermava, il suo imminente
matrimonio non avrebbe mutate48, il grosso del suo impegno si esaurì in quel
torno di tempo, nel cercare sostegno ad iniziative nell’Italia centrale, dove però i moti,
sconsigliati e giudicati immaturi da Mazzini, fallirono nel 1845, mentre tragicamente
si era conclusa, pochi mesi prima, l’avventura dei fratelli Bandiera. E nell’opinione
pubblica la responsabilità del fallimento venne attribuita, per quanto ingiustamente,
a Mazzini.
44 Cfr. Protocollo della Giovine Italia (Congrega centrale di Francia), II, (1843), Imola, Galeati,
1916, pp. 89 e 91.
45 Ivi, III, (1844-45), Imola, Galeati, 1918, p. 7, 12 gennaio 1844.
46 Ivi, p. 53, 17 marzo 1844.
47 F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il “partito d’azione” 1830-1845, Milano,
Feltrinelli, 1974, p. 393, nota 130.
48 Protocollo della Giovine Italia (Congrega centrale di Francia), IV, (1846), Imola, Galeati,
1919, p. 6, 13 gennaio 1846.
Quando anche le «Letture di famiglia» vennero soppresse, l’esule reagì ancora una
volta con ironia: «Come si concilia col grande progetto e col liberalismo del vostro Re
la soppressione delle “Letture di famiglia”. Avvenuta a quanto odo pur ora? […] Possibile
che gli uomini di buon senso non aprano gli occhi, e non vedano che tutti i loro
ideali sull’emancipazione Italiana per mezzo di Papi e Re sono sogni?»49.
Ad oltre sette anni di distanza Mazzini continuava a ritenere degli illusi Valerio e
i suoi amici. Il 1848 e le vicende successive del Risorgimento dimostreranno che era
un giudizio ingiusto.
Dal canto suo Valerio, nel 1848, cercò, sul suo giornale «La Concordia» di lavorare
perché a Mazzini venisse concessa l’amnistia, ne accolse e pubblicò documenti, ma
fu anche fermo sostenitore della guerra regia e fece ben presto dell’aula parlamentare
il suo terreno di battaglia. Cornero, pochi mesi dopo aver rassicurato l’amico Moja
sulla continuità del suo impegno, sarebbe divenuto un messaggero del moderato d’Azeglio
nelle Romagne.
Non che questo significasse la fine dei rapporti tra i maggiori rappresentanti di
quella che era ormai la Sinistra parlamentare con Mazzini, né la cessazione del rispetto
che sempre costoro gli tributarono. Ma le loro vie si erano ormai definitivamente
divise, solo Depretis indugerà più a lungo, sino al nuovo fallimento del febbraio 1853,
a Milano.
Per un attimo Valerio e Mazzini si incontrarono di persona, a Roma, nel 1849. Era
forse la prima volta, poiché il brevissimo soggiorno milanese di Valerio nel 1848 si era
concluso prima dell’arrivo nella città lombarda dell’esule. Ma ora Valerio era un emissario
del regio governo di Torino e Mazzini il capo rivoluzionario della città del papa,
al quale il torinese veniva a chiedere armi ed armati per la guerra regia che stava per
ricominciare. Dopo la sconfitta delle armi subalpine a Novara e la caduta della Repubblica
romana, per l’uno come per l’altro, la storia avrebbe definitivamente voltato pagina.
Adriano Viarengo
466
49 G. Mazzini, SEI, volume XXXII, Epistolario, volume XVII, Imola, Galeati, 1921, pp. 194-
195, alla madre, Londra 22 giugno 1847.
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