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Luigi Salvatorelli e la politica internazionale*
di Giovanni Scirocco
1. Una duplice fedeltà: Salvatorelli storico e giornalista

Venticinque anni fa, ricordandone la figura sulle pagine dei Quaderni della Nuova Antologia, Giovanni Spadolini sottolineò con forza che la cultura italiana non aveva sempre onorato il debito contratto con Luigi Salvatorelli, “questo credente nella ragione”1. Le cause erano indicate con lucidità l’anno successivo da Fulvio Tessitore, nella Premessa del convegno napoletano dedicato allo storico umbro:
L’Italia civile […] è in debito con Luigi Salvatorelli. È in debito per aver troppo rapidamente accettato di rinserrare la sua figura e la sua esperienza di ricercatore tra storiografia e giornalismo, quasi premurosa di scambiare lo stile narrativo asciutto, scarno, talora brusco dello storico con la prosa del giornalista sempre meno duratura (quale ne sia l’eleganza) della narrazione documentata dello storico. Quasi che Salvatorelli non avesse dimostrato di saper essere storico esperto di filologia, ed anche perciò grande giornalista2.

In realtà ricerca e divulgazione; storia e polemica politica sono inscindibili nell’enorme opera storiografica di Salvatorelli, tanto più in quella parte consistente di essa dedicata alla politica internazionale. Una ricerca su questo argomento non può quindi prescindere da un percorso che si muova tra le monografie (più che tra le opere di grande sintesi), ma anche (e forse soprattutto) tra i numerosissimi articoli di giornale scritti, in un arco di tempo di quasi sessant’anni, su svariati temi di politica estera.
D’altra parte, è lo stesso Salvatorelli a indirizzarci in questo senso, rievocando, in un Profilo autobiografico scritto nel 1950, la nascita dei propri interessi culturali:
Mi sembra di poter dire che le mie due vocazioni, di studioso degli avvenimenti passati, e di interprete e critico di quelli in corso – e cioè, di storico e di articolista politico – siano germinate, contemporaneamente e in nesso fra loro, fra i 10 e i 15 anni all’incirca. Lessi allora tutta l’Histoire Romaine del Rollin, in traduzione italiana; seguii con passione, discorrendone e sentendone discorrere dai maggiori d’età la crisi orientale delle “stragi armene”, la guerra ispano-americana, la revisione del processo Dreyfus, la lotta contro Pelloux alla Camera italiana, la politica interna di Giolitti del 19013

Un interesse, quello verso la storia e la politica, rafforzato dall’esperienza della prima guerra mondiale e del dopoguerra e che doveva trovare riscontro, nello stesso scorcio di tempo, in quella che sarebbe diventata una “duplice fedeltà” professionale, di storico e di giornalista. Il punto di incontro sarà l’impegno civile che Salvatorelli indica, parlando di sé in terza persona, nella lettera del 9 aprile 1921 al Rettore dell’Università di Napoli, come principale motivazione dell’abbandono dell’insegnamento universitario per assumere l’incarico di condirettore della «Stampa»:
Fino a questi ultimi tempi la sua volontà era rimasta ferma di riprendere l’insegnamento dopo Pasqua. Senonché sopraggiunto nel frattempo lo scioglimento della Camera, nuove e più vive premure gli sono state fatte perché non abbandonasse il giornale in questo momento. A tale premura dopo molta riflessione e nonostante il suo desiderio di riprendere il corso, egli non ha creduto di potersi sottrarre considerando le responsabilità politiche che avrebbe assunto lasciando in questo momento uno dei principali organi liberali che devono concorrere a procurare all’Italia un rinnovamento della sua rappresentanza quale è richiesto dai più alti interessi nazionali4.

Una fedeltà non interrotta neppure negli anni difficili del fascismo5 e che gli consentì di sviluppare una particolare sensibilità per il fatto storico nella sua formazione tra storia e politica6, destinata a diventare la principale caratteristica della sua attività di storico e di giornalista, come ci conferma l’autorevole testimonianza (sia pure de relato, attraverso Franco Bolgiani) di Federico Chabod:
Interrogandolo una volta sui problemi di storia religiosa, come componente atta ad affinare la sensibilità di uno storico, il discorso cadde su Salvatorelli. Mi permettevo di osservare come il “caso Salvatorelli” fosse, a mio avviso, esemplare in quanto mi pareva che storici come Salvatorelli appunto, e Omodeo e altri come questi, storici cioè di problemi e di idee religiose, quando trattavano di “storia” in senso pieno e generale, manifestassero una sensibilità che sembrava mancare ad altri storici formatisi su ricerche esclusivamente archivistiche o altrimenti settoriali. Chabod mi disse di essere parzialmente d’accordo su una tale osservazione, ma la rettificava subito aggiungendo che, per quanto specificatamente riguardava Salvatorelli e in particolare quella sua capacità di centrare i problemi, di formulare i suoi giudizi in modo così netto e tagliente, essa gli derivava in primo luogo dalla forte esperienza politica – e giornalistica – che aveva alle spalle7.



2. Le categorie: “un realista che non si lascia schiacciare dalla realtà”

Questa sensibilità così spiccata andava poi organizzandosi nell’uso di alcune categorie di analisi della politica internazionale. Giuseppe Galasso, pur insistendo sulla mancanza, nella storiografia di Salvatorelli, di una filosofia sistematica (idealista o marxista che fosse) e di conseguenti “concrezioni concettuali”, ha riconosciuto che «le sue indicazioni di fondo non mancano di
concretarsi nella elaborazione di alcune grandi categorie interpretative, che sono destinate a restare nella storia del pensiero storico italiano», ad esempio l’indicazione del nazionalismo come l’elemento determinante della politica internazionale dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino a Hitler8.
Brunello Vigezzi ha invece individuato, a proposito del Salvatorelli che scopre la storia delle relazioni internazionali tra lo scoppio della prima guerra mondiale e l’avvento al potere del fascismo, nella ricerca delle ragioni e dei limiti del “realismo” (a confronto con il suo impegno civile, con i suoi ideali di
libertà e giustizia) uno degli elementi ispiratori dei suoi scritti9.
È, in fondo, anche l’opinione di Leo Valiani:
Salvatorelli di regola non veste i panni del moralista: è uno storico della Realpolitik, che non preferisce le utopie alla realtà e ritrae questa. La ritrae, ma non se ne lascia schiacciare. Dietro a quel che è accaduto, dietro alla storia dei vincitori, insomma, egli ricerca anche le alternative rimaste soccombenti e si domanda il perché della loro sconfitta. Sovente, la risposta all’interrogativo è che non trovarono chi si battesse energicamente, fino in fondo, per la realizzazione di quel tanto che avevano di realizzabile, oppure che furono sciupate per eccesso, da mancanza di senso della misura. La politica è l’arte del possibile, e Salvatorelli ne conviene, ma per dare frutti buoni, fecondi, non deve limitarsi a ciò, deve avere degli ideali e tenervi fede. Gli ideali di Salvatorelli sono gli ideali di libertà, di diritto, di giustizia, d’incivilimento, che, calpestati, risorgono continuamente e costituiscono una delle ragioni intime dell’ascesa dell’Europa e delle nazioni, l’italiana compresa, che la compongono10.

Allo stesso tempo, Salvatorelli pare avere piena coscienza dei limiti della storia diplomatica di cui pure, a prima vista, sembrerebbe un rappresentante. Prendiamo ad esempio la prefazione di una delle sue opere più note, in cui il riferimento alla storia diplomatica ricorre già nel titolo, La Triplice Alleanza.
Storia diplomatica 1877-1912
:
Il sottotitolo di questo libro ne indica i limiti: storia dell’attività diplomatica riguardante la Triplice Alleanza, e cioè delle trattative e degli accordi attinenti alla conclusione, ai rinnovamenti e all’applicazione dell’alleanza, e in generale delle relazioni diplomatiche delle tre potenze alleate fra loro, e con le altre potenze in quanto ne venisse una influenza sull’alleanza stessa. Una storia integrale della Triplice richiederebbe un esame delle correnti e dei movimenti dell’opinione pubblica rispetto ad essa Triplice nei tre paesi alleati (e anche nelle altre nazioni europee), delle discussioni parlamentari, delle agitazioni dei partiti, e un inquadramento nella storia generale dell’Europa continentale. Tuttavia questa storia diplomatica offre gli elementi fondamentali per quella storia politica, poiché mostra ciò che i Governi fecero o si proposero di fare con lo strumento diplomatico dell’alleanza, e quali effetti questa avesse sulle loro relazioni con gli altri Stati e sul corso politico europeo11.

I riferimenti ai rapporti tra storia diplomatica e storia politica, tra storia particolare e storia generale, e persino alla necessità di «un esame delle correnti e dei movimenti dell’opinione pubblica», sono espliciti. Ed è questa la linea interpretativa che ci guiderà, cercando di analizzare lo svolgimento del
pensiero di Salvatorelli non attraverso il consueto percorso cronologico della sua opera, ma preferendo invece un cammino tematico, dalla Rivoluzione francese alla guerra fredda.


3. Realtà della Rivoluzione, leggenda di Napoleone

Il razionalista, il laico, il “girondino” Salvatorelli mantiene la convinzione che la Rivoluzione francese abbia rappresentato un punto di svolta decisivo nella storia mondiale, ponendo le fondamenta politiche, sociali e morali su cui si è sviluppato il mondo moderno12. Ciò non gli impedisce di criticare, anche aspramente, le interpretazioni “giacobine” della Rivoluzione, alla Mathiez, soprattutto per ciò che concerne l’uso della violenza durante il Terrore:
Che il Terrore sia stato giustificato dai suoi autori come mezzo di vittoria, nella guerra esterna e in quella civile, lo sappiamo tutti. Ma che esso sia stato veramente una condizione necessaria, o anche solo di grande utilità per la vittoria medesima, deve essere dimostrato ancora […]. Una rivoluzione sociale non si compie massacrando un certo numero di persone e trasferendo i loro possessi ad altre persone: questa è opera da beccaio, non da rivoluzionario. La rivoluzione sociale vera l’avevano fatta l’abolizione dei diritti feudali, la nazionalizzazione e la messa in vendita dei beni ecclesiastici e di quelli degli emigrati13.

L’ambiguità della Rivoluzione si presenta anche nella sua politica europea, tra proclami di fratellanza tra i popoli in base agli ideali rivoluzionari e più concreti propositi di espansione e di conquista. Sono due elementi strettamente intrecciati tra loro anche perché, secondo Salvatorelli, rinviano entrambi al concetto di nazione suscettibile di uno svolgimento liberale come di uno “totalitario”, in uno stretto rapporto tra politica interna e politica estera (un altro tema centrale in Salvatorelli, come vedremo):
Intesa la nazione come associazione di individui liberi, essa portava in politica interna al liberalismo democratico, in politica estera all’uguaglianza e alla fratellanza dei popoli; intesa la nazione come valore supremo, trascendente non solo i singoli cittadini, ma la loro stessa totalità associata, essa produceva all’interno l’assolutismo statalnazionale, all’estero la conquista imperialistica14

La nazione non è certamente una creazione moderna. Ma, per Salvatorelli, è, in un certo senso, un portato della rivoluzione francese, soprattutto, ma non solo, in quanto reazione alla politica espansionistica della rivoluzione stessa. In ogni caso, è in questo periodo che si vanno formando, in Europa, le varie coscienze nazionali, che da valore spirituale, limitato, ma persino tutelato all’interno di entità imperiali o comunque sovrannazionali, assumono gradualmente forme di autogoverno, significato politico-statale, fino a diventare carattere per eccellenza e valore supremo di ogni organismo politico e sociale. Un principio esclusivo, che tende ad espandersi e trasformarsi direttamente da nazionalismo aggressivo in imperialismo moderno e totalitario15.
Sono elementi che appariranno tutti, nella loro evidenza, con Napoleone, nel suo rifiutare, sul piano europeo, sia una politica rivoluzionaria e di rinnovamento, fondata sulla libertà dei popoli, sia una politica di conservazione, che superasse il vecchio principio di equilibrio, ma fosse comunque in grado di dare pace e stabilità al continente europeo. Quella di Napoleone fu invece una politica “anfibia” che, umiliando le vecchie monarchie, ma senza creare le nuove nazioni, si consumò, romanticamente, in un attivismo sfrenato, in un’instabilità perpetua, nella guerra senza rinnovamento16.
La polemica con la “leggenda” di Napoleone è tale, nello storico umbro, da indurlo a scorgere la presenza, all’epoca del corso, di tutti i problemi nazionali che avrebbero agitato il XIX secolo fino allo scoppio della prima guerra mondiale ed oltre. E, per converso, di valutare come “equilibrata e saggia” la politica della coalizione antinapoleonica, per i suoi scopi di guerra moderati, delimitati e dichiarati, per l’uso degli strumenti della diplomazia accanto a quelli della guerra, per non ingerirsi negli affari interni degli stati nemici17. Anche se l’errore storico dei vincitori di Waterloo e dei protagonisti di Vienna consistette proprio nel «disconoscimento del valore storico del nemico […]. E qui è pure l’importanza della lezione storica ch’essi ci danno, lezione più d’attualità che mai. Qualunque ricostruzione politica guidata solo dal desiderio di distruggere l’opera dell’avversario, senza penetrare il significato storico di questa, è dannosa, fallace e destinata a perire»18.


4. Un Risorgimento europeo

Per ciò che concerne l’Italia, il nesso rivoluzione-nazione si presenta in modo particolare, «dal cosmopolitismo al nazionalismo»19. La Rivoluzione francese (e, prima di essa, i fermenti riformatori settecenteschi), le sue idee, ma anche le sue campagne militari, produssero la ripresa della discussione e della lotta politica che vi mancava dal medioevo, con la rinascita delle assemblee rappresentative: «il popolo italiano ritornò sulla scena, ridivenne soggetto di storia»20.
È, d’altra parte, un’affermazione coerente, nel suo svolgimento, con l’altra nota tesi salvatorelliana della continuità della storia d’Italia, inserita nel nuovo contesto europeo aperto dagli eventi rivoluzionari:
Sarebbe assurdo considerare il Risorgimento come pura e semplice continuazione della precedente storia italiana, come processo puramente di evoluzione interna, privo di rivoluzione, come un fatto puramente autoctono, indipendente nella sua trama essenziale dalla storia generale europea. V’è il ricominciamento, v’è il riattacco al passato; ma v’è, altrettanto e più, l’elemento nuovo e sovvertitore, l’inquadramento nella nuova realtà europea, formatasi dopo il rinascimento in massima parte indipendentemente dall’Italia. Nova et vetera: l’Italia del Risorgimento, mentre fa appello alle tradizioni paesane, mentre aspira a tornar degna della grandezza passata, ha perfetta coscienza che appelli e aspirazioni debbono avere per ultimo scopo di ricongiungerla e di riportarla alla pari con l’Europa, andata avanti per conto suo21.

Così pure, l’“europeismo” e il carattere riformatore ed universalistico del Settecento italiano22 consentono a Salvatorelli, fin da questo momento, di far chiarezza, con un esplicito giudizio di valore, sui fenomeni delle “insorgenze” e dei “viva Maria”:
Poiché i Francesi erano stranieri invasori e spogliatori, coloro che insorsero contro di essi nel 1799, e lottarono per la restaurazione della vecchia Italia, hanno assunto presso certi pubblicisti odierni figura di patrioti. Ma la figurazione non regge. Non basta pronunciar certi nomi perché la cosa ci sia […]. Non tutti i movimenti antistranieri (forse sarebbe meglio dire “antiforestieri”) sono senz’altro movimenti nazionali […] parlare di indipendenza non basta, di avversione allo straniero neppure: bisogna vedere per chi e per che cosa si domanda l’indipendenza, per chi e per che cosa si lotta contro lo straniero. L’indipendenza non è un fatto materiale-territoriale, ma un atto politico-spirituale. Occorre che dietro ci sia un popolo cosciente e padrone di sé, in marcia verso l’avvenire […] rimaneva la differenza etico-politico fra il vecchio mondo e il nuovo23.

Allo stesso tempo, “continuità” della storia d’Italia ed “europeismo” del Risorgimento gli permettono di battere in breccia la tesi “sabaudista” sul Risorgimento italiano come fenomeno autoctono:
Se collochiamo (e non è concepibile fare altrimenti) la storia d’Italia nel quadro della storia generale europea, vediamo subito che è impossibile assorbire tutta la nostra storia nel periodo del Risorgimento, considerando questo come la sintesi di tutta la storia italiana precedente, o anche soltanto il periodo più importante. È evidente che l’Italia dei Comuni e quella del Rinascimento contano per la storia e la civiltà europea assai di più che non il Regno d’Italia del 186124.

Il punto fondamentale, per Salvatorelli, è che la monarchia sabauda non identificò mai completamente il proprio destino con quello del paese, subordinando lo sviluppo interno del Regno e la sua politica estera ai propri interessi dinastici. Ciò si tradusse, sul piano interno, nella mancata formazione di un regime parlamentare-costituzionale, sul modello inglese25.
Uno dei motivi fondamentali del pensiero del Risorgimento è quindi il porsi del problema nazionale «come problema di ricongiungimento dell’Italia all’Europa civile». In tale modo si presentò infatti a Mazzini prima del 183026, ai liberali moderati come Balbo e Cavour27 (con l’eccezione di Gioberti28), ai liberali radicali come Ferrari e Cattaneo29.
Il punto d’incontro tra rivoluzione nazionale e rivoluzione europea si verifica, pur nel suo fallimento, nel 1848 quando (e qui forse le speranze, sia pure retrospettive, fanno velo al giudizio storico) gli Stati uniti dell’Europa democratica ebbero una qualche concreta possibilità di attuazione30.


5. Politica estera post-unitaria

Il fallimento dei moti nazionali e democratici del ’48 segna una netta cesura nella storia d’Europa. Il pallino passa nelle mani dei governi, con fini che da popolari e solidali diventano politico-statali, prefigurando la nascita di nuove potenze e di un nuovo “concerto europeo”31. È una situazione ben presente a Cavour (e ai suoi successori, nel primo decennio post-unitario):
Formazione e compimento dello Stato nazionale italiano rispondevano a un interesse essenziale dell’ordine europeo: erano, cioè, un fatto, non meno che di progresso, di conservazione […]. Il criterio conservativo veniva a far corpo con l’esistenza nazionale. Ambedue le preoccupazioni, la progressiva e la conservatrice, si unificavano nella coscienza di un ordine europeo, di una civiltà europea, da promuovere e preservare32.

In questo quadro, il giudizio sulla politica estera post-unitaria, basata essenzialmente (e inevitabilmente) sul mantenimento di una politica di equilibrio tra le grandi potenze (rispetto alle quali l’Italia era l’ultima arrivata, e la più piccola) e sulla posizione da essa raggiunta in campo internazionale, resta sostanzialmente positivo33.
La Triplice fu l’asse portante di questa politica, per il desiderio dei Savoia di appoggiarsi alle altre monarchie europee, considerate come baluardo contro la temuta influenza della Francia repubblicana, aiutata in ciò dalla reazione dell’opinione pubblica dopo l’occupazione francese di Tunisi. Veniva inoltre neutralizzata la contesa con l’Austria a proposito delle terre irredente, anzi, secondo Salvatorelli, proprio qui, oltre che per questioni di natura geopolitica abbastanza scontati (il non trovarsi chiusi su due fronti) vanno cercati i principali motivi che portarono alla firma dell’alleanza. Proseguendo nelle sue argomentazioni (non esenti, a questo proposito, da alcune contraddizioni) Salvatorelli afferma, riguardo alle relazioni fra la Triplice e la politica interna italiana, che
nel corso dell’alleanza esse si ridussero a poco o nulla […]. Anche il cambiamento della politica interna all’inizio del regno di Vittorio Emanuele III non appare in una connessione di piano con quello della politica estera, già in parte avviato, e che trova le sue spiegazioni in criteri strettamente attinenti alla politica estera stessa. Rimane un parallelismo cronologico innegabile fra triplicismo puro e conservatorismo del periodo umbertino, triplicismo fortemente corretto dalle intese occidentali e dal risveglio dell’opposizione all’Austria34.

Un parallelismo che in ogni caso non deve far pensare ad una maggiore influenza, in politica estera, dell’opinione pubblica sul governo e sulla monarchia, che valutarono, nel complesso a ragione, che i vantaggi della Triplice fossero maggiori degli svantaggi: in fondo, la sua natura difensiva non compromise la pace europea, garantendo allo stesso tempo l’autonomia della politica italiana35.
Le contraddizioni cui abbiamo accennato, sul rapporto politica interna-politica estera, risultano ancora più evidenti se confrontiamo le righe che abbiamo appena citato con quelle che Salvatorelli dedica, solo cinque anni dopo, nel 1944, allo stesso argomento, all’interno del suo saggio polemico su Casa Savoia nella storia d’Italia:
La prima Triplice, del 1882, fu in politica estera quello che il trasformismo fu in politica interna, o per dir meglio, fu essa stessa piuttosto un fatto di politica interna che di politica estera. Sfruttando la naturale irritazione prodotta in Italia dall’occupazione francese di Tunisi, i reali Umberto e Margherita vollero erigere una diga contro una presunta influenza francese in senso repubblicano, che si sarebbe combinata con l’irredentismo, anch’esso strettamente associato al repubblicanesimo36 […]. La Triplice Alleanza ebbe per corollario – un corollario imposto più che mai dalla volontà regia – il mantenimento di un apparato militare che gravò pesantemente sul bilancio, e quindi sulla vita economica del paese, senza il vantaggio di una reale efficienza corrispondente37.

Le motivazioni di politica interna sono, al fondo, prevalenti anche nel gioco diplomatico del grande tessitore delle vicende europee fino al 1890, un Bismarck ritratto con riferimento alle categorie etico-politiche cui Salvatorelli tiene particolarmente, la cui mancanza di ideali si tradusse nel principale motivo di debolezza della sua trama:
Mai Bismarck, nella sua politica di pace, fece appello a motivi superiori: mai mise in moto quelle correnti di pensiero e di sentimento che pure hanno tanta influenza sulle risoluzioni e sui destini dei popoli. Bismarck tessé la pace giorno per giorno; ma la sua fu, in sostanza, una tela di Penelope. Tutto il suo pensiero riflesso, tutto il suo sentimento intimo ripudiavano (o ignoravano) gli elementi positivi, essenziali della convivenza umana38.



6. La prima guerra mondiale

Con la prima guerra mondiale riflessione storiografica, esperienza autobiografica e battaglia politica si intrecciano inevitabilmente negli scritti di Salvatorelli, come peraltro in moltissimi altri storici della sua generazione39. È lui stesso, ancora una volta, a darcene testimonianza nel Profilo ragionato:
L’influenza del razionalismo storicistico crociano non fu estranea a un mio accostamento ideale (senza legami di fatto) col nazionalismo italiano nei suoi primordi. L’esperienza della prima guerra mondiale e delle “giornate di maggio” (1915) me ne staccarono completamente; e alla fine della guerra mi trovai fermo in una posizione di democrazia liberale e sociale che non ho più abbandonato40.

La posizione di Salvatorelli, sulle colonne di quel piccolo, ma vivace giornale che fu «Italia nostra» è, difatti, decisamente contro l’intervento, non per ideali pacifisti o neutralisti in senso stretto41, ma anzi ritenendolo basato su una «concezione teologica della guerra internazionale» che, presentando la guerra come una lotta fra il principio di libertà e di nazionalità e quello di tirannia e di imperialismo, si fondava su un immotivato atteggiamento germanofobo e filofrancese, tralasciando una considerazione realista degli interessi adriatico-balcanici dell’Italia e delle sue rivendicazioni nazionali42.
Un atteggiamento fondato su considerazioni realistiche della posizione dell’Italia e, soprattutto, di carattere tattico, sulla natura della trattativa e del gioco diplomatico, che lo avvicinano notevolmente alla ricerca giolittiana del “parecchio” 43, come mostra la polemica con l’“intesismo” del «Corriere della Sera», scaturita dalla pubblicazione, sul quotidiano milanese, il 9 aprile 1915, dell’articolo Perché è impossibile un accordo italo-austriaco. Le ragioni internazionali:
Chiunque, per un apprezzamento completamente errato della situazione internazionale taglia tutti i ponti fra noi e le potenze centrali, per ciò stesso pone l’Italia in balìa dell’Intesa. Chi adotta, nel giudicar della guerra europea, il punto di vista dell’Intesa toglie all’Italia qualunque autonomia di fronte a questa. Chi ha considerato e considera la neutralità italiana come qualche cosa che non potrebbe mai cangiarsi ai danni dell’Intesa toglie all’Italia la condizione fondamentale per tutelare efficacemente i suoi interessi nel mondo […]. Chi, avendo delle difficili questioni da risolvere con qualcheduno, incomincia a trattar con lui facendogli sapere che in nessun caso gli si farà contro, ma o lo aiuterà o almeno lo lascerà fare, trattenendo magari per un braccio un altro che gli sbarra il cammino, commette la suprema delle insensatezze. In una tale insensatezza si compendia tutta la politica del «Corriere della Sera», dell’ «Idea nazionale», e in genere degli intesisti italiani44.

Trent’anni dopo, la polemica si estenderà anche alla politica di neutralità e alla sua conclusione con il Patto di Londra, giudicato ancora attraverso i criteri del realismo o, meglio, del «mancato coordinamento con la futura realtà europea», non essendo ispirato né dal principio di equilibrio, né da quello di nazionalità, ma semplicemente al consueto (e miope) territorialismo sabaudo. Inoltre (e soprattutto) la diplomazia segreta che caratterizzò lo svolgimento delle trattative alimentò il dissidio tra interventisti e neutralisti, aprendo la strada allo «scardinamento di tutta la politica interna italiana»45.


7. Il dopoguerra

Le riflessioni di Salvatorelli, articolista principe e poi condirettore de «La Stampa» fino al 1925, sono inizialmente incentrate sulla nuova realtà europea del dopoguerra, un’Europa di cui la guerra ha distrutto l’economia, la forza, la civiltà, la supremazia politica nel mondo. È il tema della «malattia spirituale dell’Europa», così caratteristico nel dopoguerra, che qui però viene declinato essenzialmente in chiave anti-nazionalistica:
Oggi nessuna nazione europea è in grado di salvarsi da sola, e pertanto di poter agire secondo la sua visuale; ma tutte insieme si salveranno o periranno tutte quante insieme. O l’Europa, cioè, supererà la mentalità nazionalista – ma ogni giorno sembra sprofondarvi di più – per agire secondo una mentalità europea prima che sia troppo tardi; o della civiltà europea non rimarrà più che il ricordo46.

È un’Europa indifesa di fronte al peso di nuove potenze egemoniche e, soprattutto, davanti alla «forza oscura e minacciosa del bolscevismo russo» che, spostandosi ad occidente invece che a oriente, potrebbe schiacciarne i resti47.
Ma la rivoluzione russa testimonia l’accresciuto ruolo delle masse nella politica internazionale48, caratteristico anch’esso, peraltro, di un dopoguerra nel quale governi deboli ed irresoluti sono incapaci di reagire alle pressioni popolari, «di ricondurre i loro sudditi ad una più esatta nozione della realtà, ad una più equilibrata concezione della politica internazionale»49. È forse questo uno dei motivi per cui Salvatorelli va gradualmente convincendosi, alla fine del 1921, che, dopo la guerra civile e quella russo-polacca, la minaccia di una espansione della rivoluzione bolscevica a occidente sia decisamente esagerata50, mentre il vero pericolo va individuato nella persistenza del nazionalismo e nella diffusione della violenza reazionaria51, che produce scosse molto più “intense e vaste” di quelle prodotte dal liberalismo dopo l’avventura napoleonica52.
È anche questo un tema particolarmente caro a Salvatorelli, che forse sottovaluta l’impatto soggettivo della paura del bolscevismo in parte dell’opinione pubblica europea (o forse, date le conseguenze, tenta di scongiurarlo), ma che, in alcuni passaggi, sembra quasi una risposta, con settant’anni di anticipo, ad alcune tesi di Ernst Nolte:
È nostra ferma convinzione, manifestata da un pezzo su queste colonne ed altrove, che, nello sconvolgimento del dopoguerra, la violenza reazionaria non soltanto sia più efficiente, e dunque materialmente più pericolosa della rivoluzione, ma rappresenti, altresì, una forza di sovvertimento morale assai maggiore. La violenza, infatti, del rivoluzionario, che per definizione è contro l’ordine e la legalità, non può svolgere sull’animo del cittadino medio, del man in the street, il quarto della forza suggestiva proveniente dalla violenza compiuta in nome dell’ordine, dello Stato e della Nazione. L’anarchia dall’alto è infinitamente peggiore dell’anarchia dal basso […]. Il bolscevismo non attecchirà mai oltre i confini della Russia, a meno che l’anarchia e la violenza reazionaria non rendano proni ad esso gli animi, per rivolta morale e per quasi fisica disperazione. L’anarchia dall’alto impedisce il risorgimento dell’Europa e ne aggrava la crisi economica; l’anarchia dall’alto minaccia il patrimonio morale della sua civiltà millenaria53.

Nelle ultime righe di questo stesso articolo, Salvatorelli avanza un argomento che svilupperà, fin quando potrà, in questi mesi convulsi del dopoguerra: la salvezza della civiltà europea potrà venire solo dall’opera concorde della borghesia più illuminata e del proletariato più evoluto ed organico, all’alleanza
liberale-laburista. È l’evocazione della “concordia discors”, della grande alleanza antinazionalista (e poi, antifascista) che si fonda su un’analisi che sembra riecheggiare, almeno in parte, quella di Schumpeter in Sociologia dell’imperialismo:
La reazione nazionalista è sostanzialmente anticapitalistica. Il capitalismo europeo attraversa, in seguito alla guerra, una crisi profonda; o piuttosto la guerra stessa è stata, in parte, effetto di questa crisi. Le necessità, cioè, della crescente espansione capitalistica si urtarono, ad un certo punto, con la mentalità arretrata della piccola borghesia nazionalista diffusa e preponderante in Europa: e ne vennero, prima la guerra jusqu’au bout, poi la continuazione di questa – secondo la frase di Clemenceau – attraverso i trattati di pace e la loro applicazione. Di questo nazionalismo anticapitalista – e, s’intende, antiproletario – Poincarè è oggi il più cospicuo esponente. Egli incarna veramente lo spirito piccolo-borghese, anti-industriale, anti-europeo, antistorico che è al fondo del nazionalismo reazionario. Perciò la lotta, e i raggruppamenti contrapposti, sono internazionali; ma tuttavia all’esito di quella è legato il destino di ogni nazione europea capace di avvenire. Trattasi di sapere se la civiltà industriale deve, in Europa, ricostruirsi e svilupparsi, o perire. In questo dilemma capitalismo e proletariato, pur nella inevitabile lotta di classe, sono solidali. Concordia discors. Non si può pensare a sopprimere l’aggettivo; ma non si deve neppure dimenticare il sostantivo54.

Clemenceau, Poincarè: le responsabilità maggiori, almeno per ciò che riguarda il nazionalismo (e in sostanziale coerenza con quanto affermato nel 1915), vengono quindi attribuite alla politica francese che riproduce, in questo modo, sia pure da una diversa posizione di forza, la situazione posteriore alla guerra del 1870-71, anche se allora il ristabilimento di rapporti normali si verificò con una certa rapidità e, soprattutto, il contrasto franco-tedesco aveva minore incidenza sul quadro europeo55.
L’atteggiamento inglese si mostra invece più equilibrato di quello francese, grazie ad una visione generale della situazione europea che non è limitata al pagamento delle riparazioni di guerra da parte della Germania56, mentre scarsa fiducia è concessa da Salvatorelli alla politica di Wilson, il cui «tono profetico» da «filosofo cosmopoliteggiante, desideroso di redigere ed applicare una nuova carta dei diritti umani» lo indispettisce a tal punto da preferirgli di gran lunga Harding57: la concezione etica della politica non impedisce a Salvatorelli di diffidare dell’idealismo.
È la Germania, dunque, ad essere lo “specchio d’Europa”, perché in essa si vedono meglio che altrove gli elementi costitutivi della vita politica europea (e della sua crisi) nel dopoguerra: la lotta tra democrazia e reazione, tra ricostruzione e distruzione, fra una vecchia classe dirigente ed una nuova che aspira a soppiantarla58.


8. Una politica estera concreta

Il nesso politica interna-politica estera è presente anche per ciò che riguarda l’Italia, i cui obiettivi principali, in ambo i campi, dovrebbero essere quelli della ricostruzione e dell’assestamento economico: una “politica estera concreta” che avrebbe avuto bisogno, per essere realizzata, non di passioni ideologiche, ma di una “impalcatura internazionale” basata su un nuovo equilibrio europeo59.
Tutti questi elementi, e innanzi tutto la complessità del legame politica interna-politica estera, così come si è venuto delineando a partire dal Risorgimento, compaiono in un articolo, fondamentale per il tema da noi trattato, scritto da Salvatorelli per la «Rivoluzione liberale» di Gobetti. Siamo nel maggio 1923, il fascismo è ormai al potere, sia pure da pochi mesi, ma appare già evidente la svolta reazionaria che si sta instaurando nel paese, con l’istituzione del Gran Consiglio, la creazione della Milizia, il progetto di una legge maggioritaria. Salvatorelli inizia il suo saggio affermando con nettezza, in risposta ai sostenitori della preminenza della politica estera su quella interna, a costo anche delle libertà costituzionali, che «nazionalità e libertà, nazionalità e democrazia sono, in tutto lo sviluppo dell’Europa moderna, strettamente congiunti», come dimostrato dalla stessa politica di Cavour durante il Risorgimento. Anzi,
Tutto lo svolgimento politico moderno consiste nel riempire sempre più la forma statale di contenuto popolare: prima del contenuto-nazione, poi nel contenuto-classe; e perciò il socialismo classista è l’erede autentico e diretto del liberalismo nazionale. Nel periodo 1900-1910 la lotta di classe ed i movimenti operai costituirono il più vero contenuto della storia nazionale italiana, e ad essi in prima linea è dovuta la resistenza materiale e morale dell’Italia durante la guerra mondiale. (Non si pretende, naturalmente dai nazionalfascisti, e neppure da certi liberali “puri” che capiscano queste verità elementari; e sì permette loro di continuare a dire che quello è stato il periodo più obbrobrioso della storia italiana).

La vera forza dello Stato consiste dunque nel consenso e uno Stato che risolve i problemi sociali al proprio interno è forte anche all’estero, come mostrano con evidenza le vicende europee. Sull’orientamento della politica estera influisce quindi profondamente la politica interna: non soltanto i fini della politica estera variano a seconda delle ideologie (il che, secondo Salvatorelli, spiega perché i conservatori di tutta Europa stiano, nei primi anni del dopoguerra, dalla parte della Francia, mentre i democratici sostengano lo sforzo tedesco per liberarsi dalla strette di Versailles) ma anche lo stesso calcolo delle forze a disposizione, base di qualunque politica estera. Così, pur ammettendo l’esistenza di «postulati fondamentali nella politica estera di ogni Stato» (ad esempio, per l’Italia, impedire che ai suoi due confini terrestri, occidentale ed orientale, si formi una coalizione pericolosa ed ostile di due o più potenze), essi vanno declinati ed interpretati secondo il criterio di una visione storica e politica generale che tenga conto, dunque, della situazione politica interna.
Se non vi può essere alcun dubbio sul fatto che il problema tedesco sia fondamentale per la politica estera francese, esso però non ha una soluzione unica: a quella nazionalista (che, fondata sul presupposto della perpetua aggressività germanica, in realtà sulle pretese egemoniche francesi, invoca l’occupazione della Renania e l’alleanza con la Polonia ed i paesi della Piccola Intesa) va contrapposta una soluzione “democratica” che, risolto il contenzioso sulle riparazioni e dato per scontato il ritorno dell’Alsazia-Lorena alla Francia, vede molte ragioni di collaborazione economica e politica tra Francia e Germania, magari garantite dall’Inghilterra e dalla stessa Italia.
Il rapporto tra politica interna e politica estera è, in conclusione, dialettico, vicendevole, cangiante «e la loro coordinazione, da cui deriva la unità e l’efficacia della politica generale di uno Stato, non può fare a meno di principi generali, universali, e cioè trascendenti la concezione formale dello Stato propria del nazionalismo»60.


9. Durante il ventennio

L’attività di Salvatorelli durante il fascismo (e l’analisi della politica estera fascista) non sarà oggetto di questa relazione, sia perché necessiterebbe ulteriori (e non facili) ricerche (che comunque mi riprometto di svolgere in futuro), sia perché tema, parzialmente, della relazione di Gabriele Turi.
In ogni caso, mi pare un utile suggerimento quello di Brunello Vigezzi, quando ha indicato, in Nazionalfascismo e in Irrealtà nazionalista, «le basi per una considerazione critica della politica estera fascista», tra storia sociale e ideologia, tra iniziativa politica e opinione pubblica61, sviluppata (forse non a pieno) nel dopoguerra in varie opere, da Il fascismo nella politica internazionale, alla Storia d’Italia nel periodo fascista, ai Vent’anni tra le due guerre.
È comunque, quello di cui parla Vigezzi, un Salvatorelli ancora fortemente impegnato nella sua battaglia civile e politica, nella condirezione de «La Stampa» e poi attraverso la sottoscrizione del Manifesto degli intellettuali antifascisti e la partecipazione all’Unione nazionale di Amendola.
Gli anni più duri saranno i successivi, quelli del fascismo-regime, con l’allontanamento da «La Stampa» e la necessità, non più giovanissimo, di trovare delle fonti di sostentamento, attraverso la stesura di grandi opere di sintesi (la Storia d’Italia e la Storia d’Europa, che ottengono un notevole successo di pubblico62), gli articoli per «Il Lavoro» dell’ex deputato riformista Canepa63, la collaborazione con l’ISPI. Sono anni di lavoro assiduo e faticoso64, che tuttavia non gli impedirono di svolgere un ruolo, prudente, ma continuo, di riferimento, perlomeno morale, nell’ambito dell’antifascismo liberaldemocratico torinese65 e all’interno della stessa neonata casa Einaudi66, il che gli varrà, nel luglio 1935, un’“ammonizione”.
Durante la guerra, la partecipazione politica di Salvatorelli si fa ancora più impegnata67, all’interno del Partito d’azione di cui è uno dei fondatori e sarà tra gli esponenti di maggior spicco, fino allo scioglimento. Il senso della battaglia politica di Salvatorelli (e del suo impegno culturale) lo troviamo tutto in una lettera del 31 luglio 1943 al sen. Frassati, che segna anche, per certi versi, la contrapposizione rispetto all’interpretazione crociana del fascismo e della recente storia d’Italia:
Non c’è più in Italia neppure un istituto costituzionale che sia rimasto in piedi, e a cui si possa far capo per la ricostruzione. Occorre rifare tutto di sana pianta. E tocca al popolo italiano, ad esso soltanto, adempiere a questo compito con la sua libera volontà, senza alcuna limitazione o pregiudiziale di princìpi o di istituti. Il patto fra monarchia e popolo su cui era basato lo Stato costituzionale italiano è stato infranto, ed è crollata con esso la base su cui la monarchia riposava […] non si tratta oggi in Italia di restaurare, ma di instaurare. Instaurare la libera, totale autodecisione del popolo italiano, unico principio di legittimità su cui possa essere basato l’ordine nuovo68.



10. “Non si bara al gioco della giustizia e della libertà”: la guerra fredda

Tornando alla politica internazionale, il panorama del secondo dopoguerra è, almeno apparentemente, simile a quello del primo. Al centro dell’attenzione di Salvatorelli, nell’editoriale di apertura della «Nuova Europa», la rivista fondata e diretta con Guido de Ruggiero, vi sono ancora una volta le sorti dell’Europa, in una dimensione che, in questa prima fase, è difficile non definire eurocentrica:
Vero è che se l’Europa per la sua ricostruzione immediata politico-economica dipende dall’opera di grandi potenze in parte o in tutto extraeuropee, per il suo risanamento morale essa non può e non deve contare che su se stessa. Tocca all’Europa, oggi, realizzare il detto di Eschilo: «a chi ha sofferto spetta in sorte il comprendere»; tocca a lei, salvando se stessa, traendo dalla propria esperienza e sofferenza il succo vitale, preservare gli altri. In ciò è il valore, la condizione e la necessità della sopravvivenza europea. Ancora oggi l’Europa ha nella civiltà umana una funzione che altri non può adempiere; deve tenere un posto per cui è pronto il successore. La civiltà delle altre parti del globo, o è figlia dell’Europa, o almeno è stata fecondata e trasformata dall’incrocio con essa; né la figliolanza è così adulta, o la trasformazione così avanzata, da poter dare il congedo al genitore o fecondatore. Questa vecchia Europa, sconquassata, dilaniata, ridotta a un cumulo di macerie, è ancora oggi necessaria all’umanità69.

La vecchia Europa potrà ricostruirsi e svolgere ancora un ruolo mondiale se abbandonerà il principio dell’assoluta sovranità nazionale, che ha avuto una funzione positiva nel XIX secolo, ma che si è rivelato un “virus mortifero” nel XX: «questo si tratta di capire: questo è il “porro unum necessarium” per il secondo dopoguerra»70. Ma Salvatorelli è cosciente fin da questo momento, a guerra non ancora conclusa, che l’Europa non potrà provvedere da sola ai propri destini ed anzi sarà più facile (o meno difficile…) il passaggio da un’organizzazione mondiale, sotto la condirezione delle tre potenze mondiali (USA, URSS e GB), agli Stati uniti d’Europa, che non viceversa.
È, in fondo, anche un tentativo per evitare la formazione delle sfere di influenza71 o, peggio, della divisione del mondo in blocchi, che Salvatorelli vede, in questo periodo, come il pericolo maggiore, portando alla separazione (e alla contrapposizione) tra Oriente e Occidente, all’interno di una civiltà europea che egli invece descrive senza limiti geografici72. La critica all’“impostazione anticomunista” del discorso di Fulton dell’“incorreggibile Churchill” non potrebbe essere più netta, perché la visione della realtà internazionale dello statista britannico «rischierebbe da una parte di portare alla fascistizzazione della politica anglo-americana, e dall’altra di respingere a fianco di una Russia eventualmente aggressiva elementi necessari per la salvezza della democrazia occidentale e della pace universale»73.
Ciò spiega anche la posizione moderata presa nei confronti del comunismo cinese, che Salvatorelli tiene a distinguere da quello sovietico74, prevedendo i contrasti che effettivamente si verificheranno da lì a un decennio75.
La prima guerra mondiale rappresenta, anche per Salvatorelli, l’inizio dell’età contemporanea. Ma è solo la seconda guerra mondiale a potersi definire veramente tale, sia per l’aspetto di distruzione totale preso dal fenomeno guerra76, sia per l’unificazione effettiva del mondo che si è verificata, con il coinvolgimento degli interessi (e, talora, dell’esistenza) dei popoli delle cinque parti del globo.
Sono frequenti le riflessioni di Salvatorelli, nell’immediato dopoguerra, sulla nuova natura assunta dalla guerra. Soprattutto la seconda guerra mondiale ha condotto ad nuova concezione “totalitaria” della guerra, per la quale è naturale l’idea che due popoli nemici combattano tra loro fino alla totale distruzione di uno dei due e che quindi non esista la distinzione tra combattenti e non combattenti, una distinzione rimasta anche nel passaggio, con la rivoluzione francese e il nazionalismo democratico, dagli eserciti di mestiere al servizio militare universale. È la “guerra ai civili”, tremendamente esemplificata dai bombardamenti sulle città, dalle rappresaglie, dai genocidi, dall’uso dell’atomica77.
Da qui l’inevitabilità dei tentativi di formare un governo mondiale, intensificati, ma anche complicati, dal processo di decolonizzazione, un fenomeno che ha colpito meno la fantasia dell’opinione pubblica, ma che ha avuto effetti più duraturi della “guerra fredda”, almeno nella sua riduzione ad antitesi tra comunismo e anticomunismo. Infatti
dall’unificazione della Germania all’assetto dell’Asia sudorientale; dai rapporti fra Israele e gli Stati arabi a quelli fra Cina e Giappone; dal regime di libertà o chiusura degli Stretti internazionali a quello degli scambi economici: non c’è grande questione odierna i cui termini essenziali non rimangano, anche se quella antitesi fosse eliminata. E neppure c’è grande questione che non possa esser risolta, o almeno transatta (sic), composta, pur rimanendo la coesistenza di Stati comunisti e Stati non comunisti78.

La Carta atlantica, il manifesto della Conferenza di Teheran, le conclusioni di quella di Jalta, la fondazione e lo statuto dell’ONU79, furono appunto una serie di tentativi di organizzazione unitaria del mondo basata, indipendentemente dalle forme specifiche dei regimi politici ed economici, sul fondamento comune dei principì di umanità, che non si limitarono a pure affermazioni teoriche, come dimostrò il “condominio” delle tre maggiori potenze, almeno fino al 1947. Un periodo breve, ma sostanzialmente positivo, consentendo l’avvio della ricostruzione dell’Europa e dell’Asia ed evitando il pericolo di nuove guerre mondiali.
Salvatorelli sembra cercare di ridurre al minimo la portata ideologica del contrasto tra USA e URSS, esaltando il periodo di collaborazione tra i Grandi ed esaminandone altri aspetti, come ad esempio quello geopolitico, a partire dalla scomparsa dell’impero austro-ungarico:
Si è formato, in quella zona europea, un vuoto, da trent’anni: in quel vuoto, a un certo punto, si è precipitata la Russia, favorita dall’altro vuoto fiancheggiante il primo, quello della Germania80. La Russia di oggi è comunista; ma fosse stata zarista, o democratica, in quel vuoto essa si sarebbe precipitata ugualmente. Dio mi guardi dal fare il panegirico della defunta monarchia asburgica. Essa andò in pezzi per i suoi vizi interni, combinati con l’urto della prima guerra mondiale […]. Questo, però non toglie che l’impero asburgico, con tutti i suoi guai, era qualcosa, e che, da allora, al suo posto non c’è niente. Il “qualcosa” consisteva, fra l’altro, in un potente intermediario fra l’Occidente e lo slavismo; in un antemurale ad una minacciata espansione russa verso il Danubio e l’Elba, nel centro d’Europa […]. L’Intesa vittoriosa nel 1918 distrusse, e non edificò81.

Così, il contrasto assume le parvenze del conflitto terra-mare caro (e talora anche connotato ideologicamente) ad autori molto diversi da Salvatorelli, come Dehio e Schmitt.
Il punto essenziale, allo storico politico, appare questo: l’attuale competizione russoamericana non è se una nuova fase del contrasto secolare fra la più forte potenza militare del continente europeo e la più forte potenza marittima (oggi dovremmo dire: marittima e aerea) esterna al continente medesimo. Fino a ieri, questa seconda potenza è stata l’Inghilterra; la prima ha variato: è stata successivamente la Francia, la Russia, la Germania. Ma […] il dato fondamentale geopolitico è sempre il medesimo. C’è da un lato una grande potenza continentale, che ha esteso o minaccia di estendere il suo potere su tutta l’Europa; dall’altro una grande potenza marittima, che teme, per i suoi interessi vitali, questa egemonia e quindi si oppone alla prima cercando di fronte ad essa alleanze e punti d’appoggio sullo stesso continente europeo, ed esercitando, per ciò stesso, una preponderanza […]. L’indipendenza dei popoli europeo-continentali, da assioma della politica inglese, lo è divenuto della politica americana. E la connessione esistita per secoli fra gli interessi inglesi e l’equilibrio europeo, la libertà europea, è ora divenuta connessione fra gli interessi americani e la medesima libertà. Tutti i “quantunque” e i “però” che si possono aggiungere, non cambiano questi dati fondamentali. Così come non possono cancellare il dato ideologico essenziale: il contrasto, cioè, non semplicemente e non tanto fra capitalismo e comunismo, quanto fra una concezione liberal-democratica del mondo e una collettivistico-autoritaria […]. Ricondotto ai suoi dati obbiettivi secolari, esso farà apparire meglio le possibilità di equilibrio e di compromessi, che, non sopprimendo le diversità rivali, rendano possibile la loro convivenza e pacifica gara; così come pure è avvenuto nelle fasi passate fra cattolicesimo e protestantesimo, assolutismo e liberalismo, rivoluzione e restaurazione82.

Nella politica internazionale del dopoguerra intervengono poi altri fattori non meno importanti, come la paura reciproca, che alimenta il sospetto e la tentazione di scatenare una guerra preventiva83. Un circolo da cui si può uscire solo attraverso l’esercizio della diplomazia, dell’equilibrio, del compromesso84. Un ruolo che, anche nell’epoca più dura della guerra fredda e dopo il fallimento di ogni ipotesi di governo mondiale, può essere ricoperto dall’Europa, purché superi le proprie divisioni interne e giunga ad un coordinamento con gli USA, costruendo uno “stile atlantico”85. Rapporti non sempre facilissimi, quelli tra Europa e Stati Uniti, ma che trovano nel Patto atlantico (e nell’Unione europea) il proprio ubi consistam:
Il nesso è duplice. Per una parte l’Unione europea aumenta la solidità del Patto, mentre il Patto fornisce all’Unione lo scudo necessario al cui riparo essa potrà sussistere e svilupparsi. Per un’altra, l’Unione assicura – secondo i desideri e le vedute della stessa America – l’indipendenza degli Stati europei, che, associati fra loro, costituiranno una entità capace di autonomia di fronte agli Stati Uniti. E questa autonomia, questa indipendenza, costituiranno una valida garanzia di pace, contro ogni possibile, anche se nient’affatto probabile, tentazione di abuso dell’istrumento atlantico da parte della potenza maggiore86.

Una questione esemplificata dal problema della Germania (e dal suo riarmo) e che può essere risolta, ancora una volta, attraverso la creazione di una federazione europea, anche se non più in un’ottica di terza forza:
Nelle dispute pro e contro il federalismo, non si è ancora preso piena coscienza che la questione degli Stati uniti d’Europa ha cambiato completamente d’aspetto. Da questione per sé stante, e concernente tutta l’Europa, essa si è trasformata in questione interna della Comunità atlantica. La quale è una realtà, anzi una realtà capitale: e lo sarebbe anche se non ci fossero il Piano Marshall e il Patto Atlantico, e valica in fatto di assai i loro limiti. La Comunità atlantica consta – e anche questo è un fatto, non un programma disputabile – di tre sistemi minori: nordamericano; britannico-imperiale; europeo-continentale. Quest’ultimo, per funzionare a dovere, o più semplicemente per non esistere soltanto sulla carta, ha bisogno di una connessione particolarmente forte fra i suoi diversi elementi: e ciò, per ragione sia della loro debolezza singola, sia delle loro tendenze centrifughe. Questa connessione speciale è oggi, in concreto, l’esigenza federalistica europea. Solo attraverso il suo soddisfacimento sarà possibile l’apparato di controllo e garanzia per il riarmo tedesco di cui tutti – anche i democratici tedeschi – sentono il bisogno87.

In questo senso, di ristabilimento di un equilibrio fra gli elementi che compongono la Comunità atlantica, andrebbero interpretati non solo la Ceca, ma la stessa Ced, considerata «con attenzione spregiudicata, con perfetta libertà di spirito» e non secondo l’ottica della propaganda sovietica, “supinamente accettata” dai partiti comunisti francese ed italiano, che la fanno diventare «la più potente alleata dell’atlanticismo che noi chiamiamo crispino, delle tendenze alla guerra preventiva; mentre all’interno favorisce i fronti unici anti-comunisti, anziché i blocchi popolari»88.
Sono i primi esperimenti di abbandono parziale della sovranità da parte di alcuni stati europei a favore di un’autorità supernazionale dotata di poteri sovrani, che vanno incoraggiati per il loro significato politico, di tentativi di superamento del “caso per caso” nella costruzione dell’Unione europea, per il
cui successo «il ragionamento da solo è inerte, il calcolo è sterile. Ci vuole la volontà, ci vuole la fede. Volontà degli uomini di governo, fede dei popoli»89.
È un aspetto in larga parte coincidente con l’insistenza sulla natura “morale” della guerra fredda, per cui la democrazia e la libertà devono sempre essere accompagnate, anche in Occidente, dalla considerazione dell’esistenza di istanze di giustizia sociale:
Hanno diritto di condannare il processo Mindszenty e tutti gli altri simili, e ogni atto di oppressione e di ingiustizia al di là della cortina di ferro, quelli, e soltanto quelli, che al di qua onorano nei fatti, confessano nella parola e rispettano nelle intenzioni i principi di libertà, di democrazia e giustizia sociale, anche quando, per avventura, non concordino con i loro interessi immediati. Sarebbe assurdo, per esempio, che personalità o gruppi compromessi col fascismo pretendessero capitanare una agitazione a favore del card. Mindszenty: o che si protestasse contro le mancanti libertà in Ungheria da chi non le reclama in Spagna. Occorre che l’appello ai princìpi risulti fatto in tutta sincerità, in assoluto disinteresse, senza reticenze ed opportunismi, e si trovi in perfetta coerenza con tutta l’azione svolta in altri campi e in altre occasioni. Non si bara al gioco della giustizia e della libertà90.

Se, quindi, anche durante la guerra di Corea, l’esigenza principale è quella di raggiungere nuovamente una stabilità a livello internazionale, anche attraverso la politica del containment, è necessario partire dal dato di fatto che il comunismo, a differenza del nazismo, non è un fenomeno passeggero, che può essere estirpato con la guerra. Lo scopo finale deve essere quello della coesistenza pacifica tra i due blocchi, nella consapevolezza che «quale dei due abbia più forza morale, più vitalità, e quindi sia destinato a prevalere, lo dirà il futuro. Per noi la previsione non è dubbia: sarà il mondo occidentale. Proprio per questo, il tempo è a suo favore»91.
Se i piani di roll-back vengono quindi giudicati alla stregua di «avventure guerresche […], orazioni di predicatori o chiacchiere di dilettanti», l’auspicata distensione internazionale92 non può non basarsi sull’equilibrio delle forze e quindi sullo stesso riarmo, da parte dei paesi dell’Europa occidentale, sia pure condotto «con misura, ma anche con continuità»93.


11. “Emancipazione dei minorenni”: la decolonizzazione

Il riconoscimento del tramonto definitivo dell’era coloniale non significa, di per sé, che i popoli extraeuropei siano maturi per l’autogoverno, se non nei rari casi, come quello dell’India, dove si sia verificato un lento passaggio “educativo”, con una continuità di strutture e di personale. Anche se convinto del fatto che “indietro non si torna”, Salvatorelli teme l’instabilità dei paesi ex-coloniali ed è quindi favorevole ad un accordo fra le antiche potenze coloniali per una politica comune94.
Una convinzione ribadita anche durante la guerra d’Indocina, a proposito della quale invoca «una Locarno asiatico-meridionale, o più ampiamente del Pacifico. S’intende che un simile lavoro politico-diplomatico non può non partire da posizioni di forza e non approdare a posizioni di forza: tale è la legge del mondo internazionale ancora oggi, e nulla sarebbe più ipocrita di un
pacifismo mirante a disarmare una parte sola». Il richiamo al realismo si associa però alla considerazione che «“l’Asia agli asiatici” non equivale affatto a l’“Asia al Cominform”»95.
L’esito della conferenza di Ginevra rappresenta quindi l’occasione per ribadire l’inconsistenza di ogni paragone storico fondato sull’anacronismo e il rifiuto di qualsiasi ipotesi di guerra preventiva:
A Ginevra si è concluso un accordo per porre fine a una guerra civile combinata con una insurrezione anticoloniale. Aggressione vera e propria da parte di uno Stato comunista non c’è stata, ma semplicemente aiuti forniti a una delle parti in lotta, controbilanciati in una certa misura da quelli americani all’altra parte […]. Dietro il grido della “Monaco asiatica” c’è il fascio di sentimenti e risentimenti di quanti vorrebbero – non diciamo: vogliono – lo sradicamento del comunismo, con la violenza, dal mondo. Anche senza essere discepoli di Gandhi, si può ben dire che costoro sono fuori della realtà umana. Bisogna decidersi: o guerra preventiva, o coesistenza. E se coesistenza dev’essere, anche un barlume di ragione basta a far vedere che è meglio renderla meno precaria, meno disagevole possibile. E non lasciarsi frastornare dal timore che una simile condizione di cose accrescerebbe la forza dei singoli partiti comunisti all’interno; che anzi essi ne rimarrebbero fortemente indeboliti96.

Anzi, la conferenza di Ginevra (e l’azione del movimento dei non allineati97) rappresentano un segno di quel «ritorno alla diplomazia», fatta di equilibrio, mediazione, compromesso, che fondamentalmente Salvatorelli preferisce rispetto alla diplomazia «della presentazione di note lanciate in pasto al gran pubblico quasi prima ancora che arrivassero nelle mani dei destinatari, e inframmezzate e accompagnate da dichiarazioni alla stampa e da orazioni di assemblea e di comizio più importante delle note stesse, e di tono ultimativo e comminatorio»98.
La decolonizzazione e la nascita di altri Stati indipendenti aprono quindi una nuova fase della guerra fredda, giocata in Asia e in Africa, dove le potenze del blocco atlantico dovranno tentare di esercitare la propria influenza «non con vane proteste e assurde esclusive, ma con fatti materiali e morali. E occorre incominciare là dove esse potenze hanno presa maggiore e più immediata. Occorre guardarsi dal coltivare la pianta dei piccoli e medi dittatori nazionalisti, anche se possa esser necessario sopportarli», a partire da quelli dei paesi arabi99.



NOTE


* Questo saggio è lo sviluppo della relazione presentata al convegno internazionali di studi “Luigi Salvatorelli a trent’anni dalla morte”, tenutosi a Marsciano dal 3 al 6 novembre 2004, i cui atti sono di imminente pubblicazione. Ringrazio il curatore Angelo d’Orsi per averne autorizzato la pubblicazione. Si tratta di un primo contributo in previsione di una ricerca più ampia sull’argomento, che dovrà necessariamente basarsi, oltre che su una più precisa indagine filologica sui testi, su un esame possibilmente completo dell’enorme mole di lavoro giornalistico [e della corrispondenza] di Salvatorelli, a partire dagli articoli sul «Lavoro» durante il periodo fascista e di quelli sulla «Stampa» successivi al 1955. I risultati di questo saggio vanno quindi intesi essenzialmente come primi spunti di approfondimento, per i quali si è preferito seguire un percorso cronologico-tematico rispetto ad un altro, probabilmente più corretto, di carattere cronologicofilologico, basato cioè sulle prime edizioni dei testi. Per l’attribuzione a Salvatorelli degli articoli non firmati, rinviamo a I. Beretta, C. Colella, D. Ippolito (a cura di), Per una bibliografia di Luigi Salvatorelli, Marsciano, Fondazione Luigi Salvatorelli, 2004. ^
1 G. Spadolini, Il mondo di Luigi Salvatorelli, in Quaderni della Nuova Antologia, Firenze, Le Monnier, 1980, p. 1. ^
2 F. Tessitore, Premessa, in Id. (a cura di), Salvatorelli storico, Napoli, ESI, 1981, p. 10. ^
3 L. Salvatorelli, Profilo ragionato della mia attività e della mia personalità (1950), nel sito della Fondazione Salvatorelli. ^
4 Archivio centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione generale dell’Istruzione superiore, Divisione personale, III serie, b. 416, fasc. 23. ^
5 «L’espulsione fascista dal giornalismo mi riportò in pieno all’attività di studioso, senza intaccare il rapporto fecondo ormai stabilitosi fra lo storico e il politico, per cui il primo orientava il secondo, e questi aiutava il primo a comprendere, dal presente, il passato» (L. Salvatorelli, Profilo ragionato della mia attività e della mia personalità, cit.). ^
6 Tra le numerose citazioni che si potrebbero fare a questo proposito, una delle più interessanti risale proprio al primo dopoguerra, quando il giovane storico del Cristianesimo esamina, guardando all’assetto uscito dal congresso di Vienna, il nuovo ordine di Versailles: «Giustissimamente è stato detto che ogni storia è storia contemporanea, nel senso che ogni studio storico il quale meriti veramente questo nome, e non sia invece cronaca o pamphlet, non può che essere fatto dal punto di vista dei problemi politici dell’età in cui vive lo storico stesso. Dimodoché possiamo, invertendo la vecchia sentenza ciceroniana, affermare a buon diritto che la vita è maestra della storia. Se la storia serve di alimento al pensiero politico, è la politica, alla sua volta, che genera la storia» (L. Salvatorelli, La crisi europea di cento anni fa. I. La caduta dell’impero napoleonico II. I trattati di Parigi e il Congresso di Vienna, in «Rassegna nazionale», fasc. I, novembre 1919, p. 26). ^
7 F. Bolgiani, Intervento, in B. Vigezzi (a cura di), Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), Milano, Jaca Book, 1983, pp. 361-2. Brunello Vigezzi ha invece suggerito, sempre nell’ambito del rapporto tra storia, politica e giornalismo, un confronto tra Salvatorelli e Salvemini (B. Vigezzi, Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai giorni nostri. Orientamenti degli studi e prospettive della ricerca, Milano, Jaca Book, 1991, p. 38). ^
8 G. Galasso, Forze storiche e vita morale nell’opera di Luigi Salvatorelli, in F. Tessitore (a cura di), Salvatorelli storico, cit., pp. 51-3. ^
9 B. Vigezzi, La “nuova storiografia” e la storia delle relazioni internazionali, in Id. (a cura di), Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), cit., pp. 470-1. ^
10 L. Valiani, Lo storico dell’età moderna, in G. Spadolini (a cura di), Il mondo di Luigi Salvatorelli, cit., p. 73. ^
11 L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, Milano, ISPI, 1939, p. 9. Cfr., su questo punto, anche L. Valiani, Lo storico dell’età moderna, cit., p. 77. ^
12 L. Salvatorelli, Mitologia e storia di due rivoluzioni, in Id., Miti e storia, Torino, Einaudi, 1964, p. 297. ^
13 Ivi, pp. 302-305. ^
14 L. Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone, Napoli, Da Silva, 1944, pp. 95-6. ^
15 Ivi, pp. 98-9. ^
16 Ivi, pp. 99-101. ^
17 Ivi, p. 41. ^
18 Ivi, p. 100. L’eco dell’approssimarsi della fine della guerra, dei problemi della ricostruzione, della ricerca di un nuovo ruolo internazionale per l’Italia sconfitta e “belligerante” si sente con forza in queste righe, come il richiamo alle lezioni della storia, pure presenti in altre pagine (cfr. pp. 133-4). ^
19 L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1977, p. 49. ^
20 Ivi, p. 63. ^
21 Ivi, p. 13. ^
22 Cfr. ivi, p. 40. ^
23 Ivi, p. 66. ^
24 L. Salvatorelli, Casa Savoia nella storia d’Italia, in Miti e storia, cit., p. 154. ^
25 Cfr. ivi, p. 198. ^
26 Salvatorelli nutrì sempre un particolare interesse per la figura di Mazzini, per la sua concezione di nazione non solo come mera entità politico-territoriale, ma come manifestazione ideale e morale dell’unità della coscienza di un popolo. Una concezione che lo distingue da ogni deriva nazionalistica o, peggio, etnicistica e che lega tra di loro le singole cause nazionali. In questo senso, per Salvatorelli, si può parlare di un “europeismo” di Mazzini, pur riconoscendo, nel suo pensiero, la presenza di un “residuo dogmatico, trascendente”, portato dal suo idealismo radicale, che si fece sentire con maggior forza dopo il 1830 (cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 1975, pp. 112-9). Un’interpretazione, quella data da Salvatorelli al moto risorgimentale (e alla visione che ne ebbe Mazzini, contrapposta a quella sabauda) criticata, sia pure forzandola in alcuni passaggi, da Maturi: «[Salvatorelli], conducendo alle estreme conseguenze la critica della concezione territorialistica sabauda, è giunto ad interpretare il Risorgimento quasi come un movimento puramente etico-religioso. Ora, il Risorgimento è stato sì, nella sua essenza, profondo moto etico-politico-religioso, è stato, sì, Verbo, ma un Verbo che voleva farsi carne e nella carne era compreso tra molte cose il territorio nazionale» (W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in C.A.R. Mattioli (a cura di), Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, II ed., Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1966, p. 280). ^
27 Cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, cit., pp. 301-3. ^
28 Per la presenza, parimenti, di elementi utopistici e reazionari che si traducevano in una visione negativa della civiltà moderna, coerente, d’altra parte, con l’idea giobertiana di porre il futuro dell’Italia sotto l’egida del Papa (cfr., per il giudizio su Gioberti, ivi, p. 124). ^
29 Salvatorelli colloca entrambi nel filone razionalistico-illuministico, di un cosmopolitismo che non ignora la realtà della nazione, ma la pone nel più ampio sviluppo della civiltà europea. Peraltro, Salvatorelli sottolinea anche le differenze tra i due, tra un Ferrari più “storicista”, attento allo svolgimento della storia italiana (e al suo collegamento con quella europea) attraverso i Comuni e il Rinascimento, e un Cattaneo indotto a ragionare, dalle sue istanze federalistiche, direttamente su uno scenario europeo o addirittura mondiale, per l’attenzione alle vicende dell’Impero britannico e delle sue colonie americane (cfr. ivi, pp. 127-131 e in particolare, su Cattaneo, pp. 346-349). ^
30 Cfr. ivi, p. 165 e Storia del ’900, vol. I, L’Europa di fine secolo, Milano, Mondatori, 1971, Introduzione, p. 9. ^
31 Cfr. ivi, pp. 12-3. ^
32 L. Salvatorelli, La politica estera italiana dal 1861 al 1870, relazione presentata al X convegno storico toscano i cui atti sono pubblicati nella «Rassegna storica toscana», 3(1957), fasc. III-IV, poi in Spiriti e figure del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1961, pp. 435-6. ^
33 Cfr. L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, cit., p. 220. ^
34 L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, cit., pp. 11-2. Un lettore d’eccezione come Vittorio Foa sviluppò, dal carcere, il punto del rapporto tra politica interna ed estera: «I giorni scorsi ho letto una bella storia diplomatica della Triplice Alleanza del prof. Salvatorelli, la quale ha avuto in questi mesi una critica molto favorevole. Pur mancando ancora completamente la documentazione ufficiale italiana, la ricostruzione del Salvatorelli, operata mercé l’analisi ed il confronto delle documentazioni ufficiali delle altre potenze e della letteratura, non molto vasta ma assai importante, sulle relazioni diplomatiche del sistema europeo fra il 1870 e il 1914, può dirsi definitiva […]. Vale senz’altro ad escludere che il nostro nuovo atteggiamento nella politica internazionale dipendesse dalla politica interna francamente democratica del nuovo regno e fosse perciò il frutto di influenze settarie o di una maggior ingerenza parlamentare. D’altra parte come negare il parallelismo delle diverse fasi della politica interna ed estera […] Bisogna convincersi che la politica estera e la politica interna non sono categorie autonome che possano comunque stare fra loro in una relazione qualsiasi di dipendenza o indipendenza: esse hanno una vita solo nella coscienza degli uomini politici che sono uomini interi e non hanno il cervello fatto a scacchi: un atto di politica estera (come uno di politica interna) è inintelligibile se lo si astrae dalla concreta e totale situazione storica da cui è sorto […]. Era il tempo che lo Stato nazionale si stava “facendo le ossa” non meno spiritualmente che economicamente: lo stesso processo che trasformò il socialismo da rivoluzionario in parlamentare, che portò tutti i partiti politici a collaborare alla politica “nazionale”, che suscitò infine il nazionalismo, si esprimeva nell’esigenza di una maggiore autonomia e di un maggior realismo in politica estera. Dall’incontro di questo atteggiamento con le mutate disposizioni francesi ebbero origine le intese occidentali» (V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, Torino, Einaudi, 1998, lettera ai genitori dell’11 febbraio 1940, pp. 770-2. I corsivi sono nel testo). ^
35 Cfr. L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza, cit., p. 18. ^
36 Ripubblicando il saggio nel 1964 aggiunge e sfuma: «Accanto a questa ricerca della diga contro l’influenza franco-repubblicana ci fu anche una preoccupazione autenticamente nazionale di evitare ulteriori umiliazioni da parte della “sorella latina”: così come una concezione e una utilità nazionale ci fu nel trasformismo» (Casa Savoia nella storia d’Italia, cit., p. 199). ^
37 Ivi, pp. 199-200. ^
38 L. Salvatorelli, Problematicità di Bismarck, in Miti e storia, cit., p. 377. ^
39 Cfr. L. Casali, Storici italiani fra le due guerre. La “Nuova Rivista Storica” (1917-1943), Napoli, Guida, 1980, p. XV. ^
40 L. Salvatorelli, Profilo ragionato della mia attività e della mia personalità, cit. ^
41 Che, peraltro, neppure le varie chiese cristiane riuscirono a mantenere, di fronte allo scatenamento delle passioni nazionali. Viceversa, la nuova situazione determinata dai trattati di pace contribuì a riportare in auge il ruolo internazionale della Santa Sede: cfr. L. Salvatorelli, Chiesa e Stato dalla Rivoluzione francese ad oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1955, pp. 120-3. ^
42 Cfr. Italicus, Italia e Portogallo, in «Italia nostra», 14 febbraio 1915 e soprattutto, non firmato ma attribuibile a Salvatorelli, Il significato delle trattative, ivi, 21 marzo 1915. ^
43 Anche se Salvatorelli parlerà di un suo neutralismo «condizionato e non assoluto, come quello de «La Stampa» e di Giolitti» (L. Salvatorelli, Rimpianto dell’Austria-Ungheria, in «La Stampa», 22 ottobre 1947). ^
44 Il neutralismo degli intesisti, in «Italia nostra», 18 aprile 1915. L’articolo, attribuibile a Salvatorelli, attirò l’attenzione del direttore de «La Stampa», Alfredo Frassati, che gli propose di collaborare al quotidiano torinese (cfr. L. Frassati, Un uomo, un giornale. Alfredo Frassati, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1978-9, vol. I, parte seconda, p. 300), proposta che si concretizzò solo alla fine della guerra, cui lo stesso Salvatorelli partecipò. ^
45 L. Salvatorelli, Casa Savoia nella storia d’Italia, cit., p. 202. ^
46 (Non firmato), Circolo chiuso, in «La Stampa», 6 gennaio 1923. «Le rivalità e gli odii tra i popoli impedirono la nascita di un’organizzazione federale o soprannazionale, unica possibilità di risoluzione per gli enormi problemi del dopoguerra e per tentare di evitare lo scoppio di un nuovo conflitto» (cfr. L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, cit., p. 222). ^
47 L. Salvatorelli, Per uso interno, in «La Stampa», 29 maggio 1920. ^
48 Cfr. L. Salvatorelli, Rinnovare le basi, ivi, 25 aprile 1920. ^
49 L. Salvatorelli, Fuori di strada, ivi, 10 marzo 1921. ^
50 Cfr. (non firmato), La Russia e l’Europa, ivi, 3 novembre 1921. ^
51 Cfr. L. Salvatorelli,L’Europa senza pace, ivi, 20 dicembre 1921. Si comprende quindi perché, nella prefazione alla riedizione del 1977 di Nazionalfascismo, Giorgio Amendola potesse notare con una certa soddisfazione che «sorprende l’assenza nei suoi articoli di una partecipazione a quella campagna contro la minaccia bolscevica in cui erano invece vivacemente impegnati altri liberali e democratici che erano stati interventisti, e che pure diverranno poi antifascisti» (G. Amendola, Prefazione a L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, Torino, Einaudi, 1977, p. XIII). Il giudizio di Salvatorelli sugli esiti della rivoluzione sovietica sarà comunque sempre molto chiaro, partendo dal rifiuto esplicito del materialismo storico, sottolineando l’incapacità da parte della rivoluzione russa non solo di superare, ma neppure di realizzare i postulati indipendenza nazionale, sovranità popolare, libertà individuale) di quella francese, sostenendo la continuità tra l’opera di Lenin e quella di Stalin e, infine, osservando l’instabilità organica del regime sovietico, dovuta essenzialmente alla sua involuzione burocratica (cfr. L. Salvatorelli, Mitologia e storia di due rivoluzioni, cit., pp. 317-8). ^
52 L. Salvatorelli, Considerazioni inattuali. (Alla soglia del 1923), in «La Stampa», 2 gennaio 1923. ^
53 L. Salvatorelli, Anarchia dall’alto, ivi, 13 maggio 1923. ^
54 L. Salvatorelli, Concordia discors, ivi, 24 agosto 1923. ^
55 Cfr. (non firmato), Pace bellicosa, ivi, 23 novembre 1921. È l’opinione drammaticamente espressa anche da Frassati, ambasciatore a Berlino, in una lettera del 14 maggio 1921 al ministro degli Esteri Sforza: «Non v’è chi non veda la pericolosità del disegno aggressivo cui s’intona tutta la politica francese, auspice la terribile suggestione di Clemenceau. Combattendo questa guerra di distruzione senza sangue, che forse le darà un’effimera anche se pericolosa egemonia, indubbiamente semina sin d’ora un terribile seme di guerra futura. Fra dieci anni, vent’anni non so, ma certo guerra inevitabile, suscitata da tutta questa violenza, da tutto quest’odio, da tutto questo rancore che avrà, al di là di tanti milioni di morti, fatto germogliare altre stragi nei solchi ancora rossi e umidi del sangue di ieri» (in L. Frassati, Un uomo, un giornale, cit., II, 2, p. 340). ^
56 Cfr. (non firmato), Le due politiche, in «La Stampa», 27 dicembre 1921. ^
57(Non firmato), Il messaggio di Harding, ivi, 6 marzo 1921. ^
58(Non firmato), Specchio d’Europa, ivi, 26 ottobre 1923. ^
59 (Non firmato), Equilibrio europeo, ivi, 20 maggio 1921, in risposta ad un’intervista con il ministro degli esteri Sforza, pubblicata su «La Stampa» il giorno precedente. ^
60 L. Salvatorelli, Politica estera e politica interna, in «La Rivoluzione liberale», 2 (1923), n. 16, p. 65. Due anni più tardi, le conclusioni di Salvatorelli su questo tema sembrano più nette: «Oggi più che mai, noi pensiamo che l’interno è strettamente legato, ed anzi subordinato, all’estero […]. Ogni sforzo di ricostruzione interna – anche il più felicemente ispirato e il più tenacemente condotto che si voglia immaginare – è destinato a rimaner vano, ove esso non sia accompagnato da certe condizioni». (Non firmato, Realismo politico, in «La Stampa», 12 settembre 1925). ^
61 B. Vigezzi, Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai giorni nostri. Orientamenti degli studi e prospettive della ricerca, Milano, Jaca Book, 1991, p. 92. ^
62 Anche in lettori politicamente avvertiti come Vittorio Foa: «Ho letto i giorni scorsi un’opera che se non sbaglio mi avete consigliato pure voi: la Storia d’Europa del Salvatorelli: il primo volume uscito comprende in circa 1000 pagine solo otto anni di storia, dal 1870 al 1878. Il criterio prevalente è quello della politica ecclesiastica e di quella diplomatica, criterio che non solo corrisponde al particolare ingegno dell’autore ma esprime effettivamente il carattere predominante del periodo storico trattato […]. Sotto il suo aspetto originale il lavoro del Salvatorelli è eccellente e vorrei poterne scrivere a lungo per indicare le numerose suggestioni teoretiche che ha provocato in me. Un esempio solo. Sulla appassionante questione d’Oriente e sul congresso di Berlino, il Salvatorelli fa un certo uso dei “se” e dei “ma” che sono così rigorosamente banditi dai canoni della storiografia contemporanea: eppure si sente che essi sono giustificati non solo da un punto di vista pratico e sentimentale, ma propriamente teoretico. Donde ciò? L’ideale non è qui contrapposto al reale come una totalità astratta ad un’altra totalità (utopismo) e nemmeno identificato con esso in una unità indiscriminata (storicismo puro), ma connesso come aspirazione concreta di umanità. Ma mi manca lo spazio per finire la spiegazione» (V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, cit., lettera ai genitori del 26 maggio 1941, p. 936). ^
63 Sugli spazi concessi al «Lavoro», nell’ambito della politica di fascistizzazione della stampa, cfr. N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, vol. III della Storia d’Italia dall’Unità alla Prima Repubblica, Milano, TEA, 1996, pp. 589-90. ^
64 A proposito del quale abbiamo varie testimonianze: cfr. ad esempio B. Allason, Memorie di un’antifascista, Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1945, p. 52. ^
65 Come dimostrano i riferimenti presenti in N. Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1963, pp. 103, 127-128. ^
66 Cfr. N. Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), Torino, Cassa di Risparmio di Torino, 1977, p. 71 e L. Ginzburg, Lettere dal confino: 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 2004, passim. ^
67 Cfr. le testimonianze di P. Alatri, in Le occasioni della storia, Roma, Bulzoni, 1990, p. 16 e del dirigente comunista U. Massola, Gli scioperi del marzo 1943, in Trent’anni di storia italiana (1915-1945), Torino, Einaudi, 1975, pp. 316-317. ^
68 L. Frassati, Un uomo, un giornale. Alfredo Frassati, cit., vol. III, parte seconda. ^
69 L. Salvatorelli, Presente e avvenire d’Europa, in «La Nuova Europa», 10 dicembre 1944. ^
70 L. Salvatorelli, Le tre potenze e il riordinamento mondiale, ivi, 17 dicembre 1944. ^
71 Cfr. L. Salvatorelli, Sfere d’influenza, ivi, 7 gennaio 1945. ^
72 Cfr. L. Salvatorelli, La Russia e i suoi alleati, ivi, 21 ottobre 1945. ^
73 L. Salvatorelli, Russi e Anglosassoni, ivi, 17 marzo 1946. ^
74 «Non ci facciamo trascinare dalle facili analogie care alla pigrizia intellettuale dei più; e non mettiamo una Cina governata dai comunisti cinesi sullo stesso piano di una Cecoslovacchia, di una Ungheria» (Comunismo cinese, in «La Stampa», 24 dicembre 1948). ^
75 «Basta la pressione russa sulla Manciuria per creare tra i due presenti fratelli di fede un motivo permanente di stanziamento e di irritazione. Se Tito nella piccola Jugoslavia si è arrischiato a fare del “comunismo nazionale” affrontando la scomunica di Stalin, tanto più è ragionevole prevedere che ciò avvenga nella Cina comunista» (ibidem). Salvatorelli è anche favorevole all’ammissione del governo della Cina popolare all’ONU: «L’ostracismo dato a questo dal Consiglio di sicurezza, il mantenimento in detto Consiglio del rappresentante d’un governo che non governa nulla – salvo,per infelice concessione degli Stati Uniti, l’isola di Formosa – sono assurdità che non dovrebbero durare più a lungo, nell’interesse della pace mondiale e per rispetto alla equità internazionale. È chiaro che tanto più Mao Tse-Tung sarà tentato di agire in Corea, o anche contro Formosa, quanto più a lungo gli si chiuderanno in faccia le porte là dove egli potrebbe difendere pacificamente i suoi interessi» (L’ora dei politici, ivi, 5 ottobre 1950). ^
76 «La guerra ha cambiato così completamente carattere da essere divenuta l’opposto di quella che era un secolo fa. Alla guerra professionale impegnante unicamente ristretti eserciti combattenti, mentre la grande maggioranza dei popoli continuava la sua vita e la sua attività ordinaria, sono successe le guerre che mettono in gioco i popoli interi, i non combattenti altrettanto e più dei combattenti: e ciò non tanto per effetto della coscrizione universale, quanto per la natura dei nuovi mezzi di offesa bellica […]. Siamo insomma passati – in pochi decenni e si può dire in questi ultimi anni – dalla guerra duello alla guerra massacro» (L. Salvatorelli, La via del suicidio, ivi, 8 febbraio 1950). ^
77 L. Salvatorelli, Cominciamo col ridurre la guerra, in «Milano Sera», 16 novembre 1946. ^
78 L. Salvatorelli, Sistema atlantico e organizzazione mondiale, in «La Stampa», 26 aprile 1953. ^
79 Salvatorelli rimase, fino al termine della sua lunga vita, un fautore convinto del possibile ruolo dell’ONU, pur rendendosi conto dei suoi limiti (primo tra tutti, il diritto di veto: cfr. L’oggi e il domani di San Francisco, in «La Nuova Europa», 1 luglio 1945) come mostra la lettera scritta a Pietro Nenni il 21 agosto 1969: «Sono perfettamente d’accordo con te nell’auspicare una azione sempre più intensa dell’UEO e mi permetto di aggiungere che uno degli scopi principali di essa azione dovrebbe essere di compiere un tentativo organico per dare finalmente alle NU una attività energica, concentrata sui punti fondamentali: azione che dovrebbe essere preceduta da una riforma del Consiglio di sicurezza e dell’istituto del veto, ma soprattutto dall’adozione di continuità energica d’azione – accompagnata da sanzioni internazionali – che finora è mancata» (Fondazione Nenni, Carte Nenni, serie Carteggi, b. 38, fasc. 1834). ^
80 Cfr., su questo tema, L. Salvatorelli, Germania in Occidente, in «La Stampa», 24 settembre 1952. ^
81 L. Salvatorelli, Rimpianto dell’Austria-Ungheria, ivi, 22 ottobre 1947. Salvatorelli ricorda, a questo proposito, di esser stato sfavorevole «alla politica delle nazionalità adottata dall’Italia quasi ufficialmente (cioè da Orlando sì, da Sonnino no) nel corso del 1918». ^
82 L. Salvatorelli, Dualismo secolare, ivi, 18 gennaio 1948. ^
83 L. Salvatorelli, Spezzare il circolo, in «Risorgimento», 12 luglio 1947. ^
84 Cfr. L. Salvatorelli, Sangue freddo, in «La Stampa», 20 agosto 1948. ^
85 Cfr. L. Salvatorelli, Accordo a tre, ivi, 13 settembre 1950. ^
86 L. Salvatorelli, Patto atlantico ed Unione europea, ivi, 6 marzo 1949. ^
87 L. Salvatorelli, Riarmo tedesco e federazione europea, ivi, 25 agosto 1950. ^
88 L. Salvatorelli, Manovre anti pacifiste, ivi, 19 giugno 1952. ^
89 L. Salvatorelli, Unione europea, ivi, 19 agosto 1952. La posizione europeista di Salvatorelli era ritenuta invece troppo timida da Ernesto Rossi, che lo prendeva ad esempio, insieme a Ugo La Malfa dei «possibilisti […] per i quali il movimento europeo churchilliano, il Patto Atlantico, l’unione economica italo-francese, le rivendicazioni coloniali, sono “passi verso la federazione europea”: vorrebbero che non si facesse altro che applaudire Sforza e il Governo prendendo come nostro motto “tutto fa brodo”» (lettera a Gaetano Salvemini del 17 aprile 1949, in E. Rossi-G. Salvemini, Dall’esilio alla repubblica. Lettere 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 448. Rossi e Salvatorelli romperanno i loro quarantennali rapporti nel 1961 per la differente posizione a proposito del tentativo americano di invasione di Cuba: cfr. l’ Introduzione di M. Franzinelli, ivi, p. L. ^
90 L. Salvatorelli, Occidente e libertà, in «La Stampa», 12 febbraio 1949. ^
91 L. Salvatorelli, Coesistenza inevitabile, ivi, 14 settembre 1952. Cfr. anche, sul comunismo come “questione morale” Ritornare ai principi, ivi, 25 giugno 1954. ^
92 Il 6 giugno 1952 Salvatorelli scriveva a Nenni: «Capisco benissimo le difficoltà della situazione, e non dubito della Sua sincera buona volontà. Per mio conto, seguiterò a fare quel che posso per agevolare una “distensione”» (Fondazione Nenni, Carte Nenni, serie Carteggi, b. 38, fasc. 1834). ^
93 L. Salvatorelli, Possibilità distensive, in «La Stampa», 12 aprile 1953. Cfr. anche Breve storia di un’alleanza, ivi, 11 luglio 1954. ^
94 L. Salvatorelli, Emancipazione dei minorenni, ivi, 12 maggio 1951. ^
95 L. Salvatorelli, Cambiare metodo, ivi, 9 maggio 1954. ^
96 L. Salvatorelli, Politica nuova, ivi, 21 luglio 1954. ^
97 In particolar modo di Nehru, consentendogli, nello stesso tempo, un elogio del colonialismo inglese e una critica ad un certo tipo di “storia delle civiltà” che vedeva in Toynbee e Sorokin i propri principali esponenti e che proprio negli anni ’50 cominciava a produrre i primi lavori di una certa ampiezza: «Dall’azione di Nehru e di altri asiatici che a lui si associano – perché non nominare il presidente birmano U-Nu? – indagata nelle sue intime origini, scaturisce una grande verità storica: e cioè, che se il colonialismo ha avuto gravi torti di sfruttamento e di violenza verso i popoli di colore, dietro esso e attraverso esso c’è pure stata una grande opera di civiltà, la quale ha reso possibile ai popoli di colore la loro odierna elevazione e realizzazione. E oggi noi vediamo come davvero la civiltà sia una: e possiamo sorridere dei lunghi elenchi di civiltà diverse e successive, isolate l’una dall’altra o divoratesi fra loro, imbanditeci da taluni eruditi sociologhi. La civiltà è una: essa circola da un continente all’altro, in uno scambio e in una fusione perenne, mirando a stabilire sulla terra, su tutta la terra, il regno dell’uomo» (Nehru protagonista, ivi, 8 luglio 1955). ^
98 L. Salvatorelli, Ritorno alla diplomazia, ivi, 8 maggio 1955. Cfr. anche Lo spirito di Ginevra, ivi, 24 luglio 1955. ^
99 L. Salvatorelli, La nuova fase, ivi, 22 gennaio 1956. ^
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