Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VIII - n. 3 > Rendiconti > Pag. 368
 
 
IL PROBLEMA DEL VITALE. INTORNO ALLA BILDUNG EBRAICO-TEDESCA DEL NOVECENTO
di Vincenzo Pinto
L’obiettivo della silloge di scritti intitolata La Bildung ebraico-tedesca del Novecento (Milano, Bompiani, 2006) è – secondo la curatrice Anna Kaiser – quello di porre in luce «l’intreccio teorico e critico che unisce i filosofi ebrei tedeschi, i quali, negli anni più oscuri e tragici per la loro stessa vita, hanno saputo attaccare e rifiutare le forme del nichilismo per accogliere – con lucida chiarezza e determinazione – la prospettiva di una ponderazione dell’umano che prenda le mosse dalla Bildung» (p. 2). La Bildung, concetto non privo di analogie con la cultura animi ciceroniana, indaga le condizioni di possibilità proprie dell’uomo di «andare oltre le circostanze temporali-spaziali per scendere nell’essere profondo del soggetto, salire verso il sacro, apprezzare il mistero della vita». Questa pare essere la sfida lanciata dalla Kaiser: comprendere le strutture che hanno sorretto oltre due secoli di dialogo fra il mondo ebraico e quello tedesco attraverso una «ponderazione dell’umano». Il dialogo ebraico-tedesco parte dall’immersione nel proprio sé più profondo e riemerge nella forma della vita esteriore: la Sittlichkeit (rispettabilità, decoro, identificazione con le forme). È un cammino ciclico e circolare quello che denota la visione del mondo borghese qui disegnata. Ma, ripetiamolo ancora una volta, è il problema stesso del vitale a prendere decisamente il sopravvento su tutti gli altri: «Una Bildung che non viva le dinamiche della Kultur non raggiunge la consistenza più profonda confacente al coinvolgimento dell’anima e dello spirito dell’uomo» (p. 83).
Dopo una ricca introduzione di carattere spiccatamente storico-pedagogico, dove la curatrice ripropone insistentemente il tema dell’educazione alla vita con un taglio umanistico, il volume propone una selezione di scritti delle principali personalità del cosiddetto dialogo ebraico-tedesco: Georg Simmel, Max Scheler, Edith Stein, Max Horkheimer, Walter Benjamin, Ernst Cassirer, Karl Löwith, Theodor W. Adorno, Siegfried Kracauer, Martin Buber, Hannah Arendt, Franz Rosenzweig, e George L. Mosse. La Kaiser fa propria una prospettiva di carattere fenomenologico: «l’unica possibilità per gli ebrei tedeschi di sfuggire alle azioni repressive del regime è riconoscersi in quanto ebrei» (p. 26). Ecco riproposto l’annullamento completo della distinzione fra essenza ed esistenza poi praticata dal nazismo hitleriano: a ogni forma può corrispondere una e una sola sostanza. Ci sarebbe molto da dire su questo nesso, non solo sulla sua costruzione teorica e sulla sua pratica politica, ma anche – nel caso specifico – sull’utilizzo più o meno cosciente effettuato dalle vittime di turno, vittime non solo fisicamente, ma anche spiritualmente dei propri carnefici. È qui infatti che il lavoro sulla Bildung come categoria- relazionale dello spirito si rivela in tutta la sua problematicità. Le riflessioni degli intellettuali ebrei tedeschi non possono prescindere – in nessun caso – da una ricerca di senso del tutto disadorna da fronzoli nei confronti della bestia nazista. Ma la storia ci insegna che si è trattato di una riflessione sull’Erlebnis (esperienza interiore, in termini agostiniani) incapace di assumersi responsabilmente il peso delle proprie idee. I limiti della Bildung si infrangono proprio sullo scoglio del vitale (Lebendige), onnipresente, spesso sommerso dalla marea di turno, difficilmente ineludibile. Se la formazione umana non si trasforma in un processo permanente, che mette continuamente a rischio la Kultur stessa (creando, quindi, un rapporto idiosincratico e sinergetico con la propria tradizione, perennemente in Krisis), allora l’avvento dell’Anti-Cristo è sempre incombente.
Nello scritto Der Begriff und die Tragödie der Kultur (Il concetto e la tragedia della cultura, 1911), il poliedrico Simmel ci introduce nel nucleo del problema: «la grande impresa dello spirito – superare l’oggetto come tale facendosi esso stesso oggetto per ritornare a sé arricchito da questa creazione – si realizza infinite volte; ma lo spirito deve pagare questo compimento con la tragica probabilità di veder prodursi, nell’autonoma legalità che regge il mondo da lui creato, una logica e una dinamica che allontana con crescente rapidità e con un divario più ampio i contenuti della cultura dal fine della cultura» (p. 175).
In Die Formen des Wissens und die Bildung (Le forme del sapere e la formazione, 1925), Scheler ripropone in termini più diretti la drammatica scissione fra Erlebnis ed Erfahrung: «colto non è chi sa e conosce l’essenza contingente delle cose o chi può prevedere e dominare i processi secondo le leggi – il primo è l’erudito, il secondo è il ricercatore – ma è colto chi acquisisce una struttura personale, una massima di schemi mobili e ideali, tra di loro connessi fino all’unità di uno stile: questi schemi sono schemi dell’intuizione, del pensiero, della comprensione, della valutazione e del trattamento del mondo e di alcune cose accidentali in esso; questi schemi sono presenti già in tutte le esperienze accidentali, le elaborano unitariamente e le inseriscono nella totalità del mondo personale. Sapere salvifico può essere, però, solo un sapere a proposito dell’esistenza, dell’essenza e del valore assoluto reale in tutte le cose, ossia un sapere metafisico» (p. 214). Dal sapere metafisico all’idea di Dio il passo è assai breve: «anche l’idea umanistica dell’essenza della formazione – incarnata sul suolo tedesco nel modo più elevato da Goethe – deve sottoporsi ulteriormente alla scienza salvifica ed essere al servizio di essa, in ultima analisi. Infatti ogni sapere è, in fondo, della divinità e per la divinità» (p. 216).
La ricerca di un sapere archetipico è ulteriormente radicalizzata dalla Stein nel suo scritto sull’idea di formazione: «Dio creò l’uomo a sua immagine. Ma è poi nuovamente lui solo a penetrare in pienezza tale immagine. Noi la contempliamo in molte immagini, ognuna delle quali ce ne rende una visione imperfetta, unilaterale: nelle creature. Nel modo più compiuto nella più compiuta tra le creature tutte: nel Figlio di Dio e nel Verbo della rivelazione, che ci manifesta il Signore. Dobbiamo assumere in noi quanto più possiamo di quest’immagine, così che si faccia forma intima a noi, e ci plasmi dell’intimo. Dobbiamo anche, nella misura in cui le nostre forze ci sovvengono, cercare di comprendere noi stessi e il progetto che ci sottende, e anche gli altri, coloro la cui educazione ci è affidata. Ma non approderemo mai al possesso di una conoscenza piena, né per quanto concerne noi stessi, né per quanto riguarda gli altri, e quindi non saremo mai in grado di poter porre mano alla nostra o all’altrui educazione con sicurezza infallibile. Sicuri lo siamo soltanto se ci rimettiamo incondizionatamente alla mano di Colui che, solo, sa ciò che di noi dovrà essere e, solo, ha la potestà di condurci a tale meta – a condizione che abbiamo buona volontà» (p. 232).
Presentandosi alle matricole nell’anno accademico 1952-53, Horkheimer definisce in questi termini la Bildung: «la cultura è formazione della totalità esterna e proprio per questo, di pari passo, formazione di se stessi. Non ha cultura chi, dedicandosi alla propria attività, non riconosce il nesso che essa ha con il tutto, e non manifesta attivamente, in contrasto con lo spirito dei tempi, anche nelle cose pubbliche, la medesima libertà dagli slogan, dai clichés e dai pregiudizi che si deve acquisire nella propria scienza nell’esercizio della professione accademica» (p. 239).
Tanto Benjamin quanto Cassirer dedicano pagine intense alla figura di Goethe e al suo ruolo nella Bildung tedesca. Il primo è autore di una voce per la Grande Enciclopedia Sovietica alla fine degli anni Venti, dove rimarca l’imponente ricezione dell’opera del letterato francofortese nella Gründerzeit (primi decenni post-unitari), soprattutto nei circoli neo-romantici. Il secondo, in una relazione tenuta in occasione del centenario della morte, affronta il problema della forma individuale: «tutta l’educazione vuole e deve collocare il singolo individuo in ordini della vita stabili e sicuri, oggettivamente determinati e regolati. Però questi ordini non devono essere dati semplicemente dall’esterno, ma devono essere richiesti dall’interno. La forma assunta dall’essenza individuale non deve racchiuderla come un recipiente rigido; essa deve essere una forma in sé plasmabile e deve utilizzare le forze dell’individuo proprio su questa caratteristica plasmabilità. Tutte le forme si basano sul dominio della legge, ma soltanto quella legge che è colta spontaneamente dall’io e che viene formata da esso stesso, gli può dare la vera libertà» (p. 280).
Scrivendo del concetto hegeliano di Bildung, Löwith riunisce l’educazione e la formazione in un unico processo: «l’educazione - formazione è il duro lavoro dello spirito contro l’immediatezza dell’appetito naturale come pure contro la vanità soggettiva del comportamento e il capriccio del piacere. L’educazione-formazione forma elevando all’universale dello spirito, il cui elemento è il mondo comune a tutti» (p. 314).
Lo scritto che Adorno dedica all’educazione dopo Auschwitz è un tentativo di attualizzare e di vivificare le intuizioni freudiane in termini sociologici. È già alle spalle il classico volume The Authoritarian Personality (La personalità autoritaria), co-edito a New York nel 1950. Adorno insiste sull’importanza della formazione del carattere manipolativo (p. 326), avulso dal senso di colpa, che determina la «coscienza reificata», sospingendosi in seguito sul processo di feticizzazione della tecnica. La peculiare freddezza dei colpevoli non può certo essere combattuta con la predicazione dell’amore nei termini della charitas cristiana, che presuppone una struttura sociale differente. «Si dovrebbe trattare criticamente, tanto per fare un esempio, un concetto così rispettabile come quello della ragion di stato: allorché si pone il diritto dello Stato al di sopra di quello dei suoi membri, è potenzialmente già messo in atto l’orrore» (p. 333).
Il tema della Bildung viene ripercorso attraverso il prisma dell’amicizia da Kracauer. Buber ritiene invece che l’obiettivo della formazione sia quello di formare l’immagine di Dio (p. 373). La Arendt è l’unico personaggio di questa silloge ad avvertire in termini esiziali la crisi epocale dell’educazione medesima. «L’educazione deve essere conservatrice proprio per amore di quanto c’è di nuovo e rivoluzionario in ogni bambino: deve custodire la novità e introdurla come cosa nuova in un mondo vecchio, che, per quanto possa comportarsi da rivoluzionario, di fronte alla generazione che sopraggiunge è sempre sorpassato e prossimo alla distruzione» (p. 413). «Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti» (p. 416).
Gli scritti conclusivi sono di Rosenzweig e di Mosse. L’autore de Die Stern der Erlösung (La stella della redenzione, 1920) pone una grossa enfasi sul concetto di Vertrauen (fiducia): «Fiducia è il termine della disponibilità, della disponibilità che non chiede ricette, che non ha tra i denti un “Che cosa debbo fare adesso” e “Come lo faccio, poi”. La fiducia non ha orrore del dopodomani. Essa vive nell’oggi, va con piede leggero oltre la soglia che conduce dall’oggi al domani. La fiducia conosce solo il prossimo. E proprio per questo le appartiene l’intero. La fiducia va solamente diritta. Ma, inosservate, si curvano per essa le strade, che si perdono per il timoroso nell’infinito, in un cerchio completamente percorribile e tuttavia infinito» (p. 427). Il secondo, uno degli storici più noti della seconda metà del secolo scorso, non usa mezzi termini: la Bildung è la storia di un fallimento, quello ebraico, di integrarsi nella società tedesca (p. 455), quello di essere considerati uomini (virili) tedeschi a tutti gli effetti (p. 484).
Echi misticheggianti, parole rincuoranti intorno al valore dell’amicizia e all’importanza della responsabilità: questi e altri temi emergono continuamente nelle pagine di questi intellettuali tedeschi divenuti – chi prima o chi dopo – ebreo per necessità. Un merito indiscusso di questa silloge di Anna Kaiser è quello di aver riproposto il tema della responsabilità personale di fronte alla barbarie. Riemerge carsicamente lungo i discorsi intorno alla formazione, all’educazione, ai modelli da trasmettere, al conflitto inevitabile fra tradizione e innovazione, autorità e libertà, il problema del vitale. La posizione di Adorno è, da questo punto di vista, quella teoricamente più solida, allorquando imputa alla ragion di stato la produzione di Auschwitz (dopo alcune digressioni freudiane peraltro poco rilevanti nell’economia del suo discorso). Hannah Arendt sostiene, da parte sua, che la scuola ha la funzione d’insegnare ai giovani com’è fatto il mondo, non di iniziarli all’arte di vivere. Il mondo com’è fatto, in base all’archetipo cristiano di Edith Stein? Oppure in base al dialogo agli inferi dell’io buberiano con il tu alieno in direzione dell’immagine di Dio? Talvolta la cultura può aiutare a vivere, se è in grado non tanto di fornire rassicuranti immagini-archetipi, quanto di spronare la persona a uscire allo scoperto di fronte ai crimini più inenarrabili commessi quotidianamente intorno a sé. A oltre sessant’anni dalla fine della guerra e dalla tracimazione di pubblicazioni intorno all’educazione alla pace, alla fratellanza e alla convivenza, ciò che resta di vitale (ben poco, a dire il vero) è proprio la consapevolezza che, in tempi di crisi, ci sia soltanto bisogno di uomini.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft