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La difficile legittimazione dello Stato unitario: una chiave di lettura della storia d'Italia
di Maurizio Griffo
Una diversa sedimentazione storica

L’Italia, rispetto ai principali paesi europei, arriva tardi all’unificazione. Nel 1861, quando viene proclamato il regno d’Italia, le altre grandi nazioni del continente, paragonabili alla nostra per dimensioni, cultura, tradizioni di civiltà (Francia, Gran Bretagna, Spagna), hanno alle spalle alcuni secoli di vita unitaria. La storia dello Stato italiano, insomma, sconta in partenza una minore sedimentazione che si ripercuote anche nella qualità e nel tono della vita pubblica. Per intendere quanto questa carenza di retroterra statuale influenzi le vicende della storia nazionale, nelle pagine che seguono si proporrà una lettura della vicenda italiana da un punto di vista particolare.
Spesso è stato osservato che il nostro paese non ha mai conosciuto, fino ad anni recentissimi, l’alternanza di governo, ma si è retto sempre su di un equilibrio che possiamo definire, in prima approssimazione, “centrista”. Interpretata in questa prospettiva, la storia politica della penisola sarebbe caratterizzata da lunghi periodi di immobilismo interrotti da periodiche rotture. In sostanza, una storia che vede una successione di regimi destinati a rimanere al potere fino a quando non sopraggiunge una crisi epocale. Questa osservazione, se viene spogliata da ogni intenzione polemica, può essere il punto di partenza per una riflessione spassionata, che metta al centro dell’analisi il tema della legittimazione popolare dello Stato e dei regimi politici che si sono man mano avvicendati. In altri termini, ripercorrendo, sia pure in maniera sintetica, le grandi tappe della nostra vicenda nazionale appare chiaro che la necessità di legittimare e radicare il sistema politico-costituzionale sia una esigenza che si presenta in diverse stagioni. Un processo faticoso che si ripropone in maniera costante nella vita dello Stato unitario, trovando volta a volta differenti soluzioni. Insomma, la ricorrente necessità di estendere o rinnovare la legittimazione del regime politico può costituire una sorta di filo rosso che unisce momenti assai distanti fra loro, permettendo di far risaltare continuità e cesure della storia italiana.


Il Risorgimento e la destra storica

Al ritardo temporale con cui si arriva all’indipendenza nazionale italiana, vanno ad aggiungersi le difficoltà che sorgono dal modo e dalle circostanze del processo di unificazione. Il Risorgimento italiano è opera di una minoranza che coglie con sagacia e determinazione un’occasione storica. Numerosi erano i fattori che congiuravano nel favorire il processo unitario. Senza pretendere a un elenco esaustivo, basterà ricordare la illegittimità del dominio austriaco in una parte della penisola assai avanzata dal punto di vista economico e civile (il lombardo-veneto); l’arretratezza delle monarchie assolute (addirittura teocratica nello stato pontificio) che regnavano in altre regioni italiane; la presenza di una oasi di libertà in Piemonte dove si insedia per oltre un decennio un governo rappresentativo-costituzionale che diventa un polo di attrazione per l’insieme del movimento risorgimentale; le instabilità e le faglie che in quel periodo attraversano l’equilibrio europeo; la benevola disposizione verso la causa italiana dell’opinione liberale e illuminata europea; più in generale, poi, va considerato lo spirito dei tempi, che guardava con favore le nazionalità irredente, ritenendo necessario assicurare a ciascun popolo la piena indipendenza. Tuttavia, questo insieme di circostanze favorevoli non assicurava l’automatico conseguimento dell’unificazione politica. Tale risultato sarebbe stato impossibile senza l’opera di una élite nazionale, presente su tutto il territorio della penisola, consapevole delle difficoltà e concorde (al di là di divergenze di opinione anche notevoli che dividevano le componenti moderate e liberali da quelle democratiche) sulla meta da raggiungere. Una élite capace di prendere su di sé i rischi del suo perseguimento in condizioni avverse e spesso del tutto contrarie.
Il nuovo stato soffre ab origine di un difetto di legittimazione. Il suffragio è estremamente ristretto, gli aventi diritto al voto sono circa l’1,9% della popolazione. La Destra storica, che governa il paese nei primi quindici anni dopo il 1861, non è ignara di questa carenza, ma deve necessariamente posporre l’allargamento della base di consenso del nuovo organismo politico ad altre più urgenti priorità: l’unificazione legislativa e amministrativa; la doverosa repressione di un moto delinquenziale, al tempo stesso antinazionale e premoderno, nel sud del paese (il brigantaggio); il compimento dell’unità geografica (il Veneto sarà acquisito nel 1866, Roma e il Lazio nel 1870); il pareggio del bilancio. D’altronde, il fatto che l’unificazione del paese si fosse dovuta compiere riducendo e poi cancellando lo Stato pontificio crea, inevitabilmente, un conflitto con la Santa sede. Circostanza che rende difficile un rapido allargamento della partecipazione politica. Nonostante la moderazione della legge delle Guarentigie, voluta nel 1871 dal primo ministro Lanza e dal titolare degli esteri Visconti Venosta per chiudere la questione romana, la Chiesa cattolica promulga il cosiddetto non-expedit (non conviene) con cui si sconsiglia ai cattolici di intervenire attivamente nella vita politica del nuovo Stato. Tale circostanza non impedirà una partecipazione di fatto di molti cattolici alla vita politica e alle elezioni, tant’è vero che la percentuale dei votanti oscillerà sempre tra il 50 ed il 60% degli aventi diritto. Tuttavia tale partecipazione non è 18 mai dispiegata e piena, mentre il problema dell’inserimento dei cattolici nella compagine dello Stato rimane vivo per tutto il sessantennio liberale.
Va poi considerata un’altra variabile dell’equilibrio costituzionale, che condiziona fortemente la politica del nuovo Stato: la corona. La monarchia italiana non resta confinata nel compito di semplice garante dell’unità nazionale, ma continua a esercitare, con maggiore o minore intensità, una funzione direttamente politica. Una simile condizione dipende in primo luogo dal ruolo essenziale che la dinastia sabauda ha svolto nel processo di unificazione e che continua a svolgere anche nella fase di fondazione del nuovo Stato. Una fase nella quale la monarchia assolve una non trascurabile funzione di legittimazione della recente compagine nazionale. Certo, il sovrano assume un ruolo direttamente politico soprattutto nei periodi di crisi del sistema, ma anche quando trova interlocutori parlamentari forti continua ad esercitare una notevole influenza. In sintesi, la parlamentarizzazione del regime non è mai completa, ma convive con un forte esercizio della prerogativa regia che si fa sentire soprattutto in alcuni settori particolari (ministero della guerra, politica estera). Una situazione che nel suo funzionamento effettivo si avvicina più a quella della monarchia costituzionale francese di Luigi Filippo (1830-1848) che a quella britannica del XIX secolo.


Da Depretis a Crispi

La stagione politica che si apre con l’avvento al governo della sinistra riporta all’ordine del giorno la necessità di estendere e rafforzare la legittimazione del sistema. Questo avviene soprattutto attraverso l’operato di Depretis, l’uomo politico capace di orientare in modo consapevole l’azione politica e parlamentare della Sinistra. Il trasformismo, che indica riassuntivamente l’epoca depretisiana, non va visto come una degenerazione del parlamentarismo, bensì come un modo per allargare la classe di governo scongiurando, al tempo stesso, che la contesa politica degeneri nella somma confusa di tante rivalità personali. In altri termini, con Depretis viene razionalizzata e canonizzata, per così dire, la forma di governo che caratterizzerà l’Italia liberale. Il primo ministro, in genere una personalità politica già forte di un seguito personale, raggruppa, con alleanze e accordi stipulati con altri leader nazionali o regionali, una maggioranza in parlamento. Questa maggioranza può poi estendersi sulla base di convergenze momentanee o durature con altre personalità parlamentari, capaci a loro volta di assicurare un congruo apporto di voti. In questo modo, reclutando le compagini ministeriali al di fuori di una stretta affiliazione partitica, si ottengono due risultati. Anzitutto si offre spazio alle legittime ambizioni individuali, favorendo il ricambio e il consolidamento del personale di governo. In secondo luogo si garantisce una base più ampia alle maggioranze parlamentari. Grazie alla pratica trasformistica, Depretis riesce a condurre in porto anche la nuova normativa elettorale che era nei disegni della sinistra fin dal 1876. La legge del 22 gennaio 1882 fa scendere il limite d’età per l’elettorato attivo da 25 a 21 anni e abbassa della metà la quota d’imposta necessaria per avere diritto al voto. In questo modo gli elettori arrivano quasi al sette per cento della popolazione. Un incremento che la legge regolamenta anche per il futuro prevedendo che il diritto di voto possa essere concesso anche a chi, pur non avendo raggiunto la quota minima di imponibile, abbia frequentato con profitto le prime due classi delle elementari. Disposizione che, negli anni successivi, porta a una progressiva crescita percentuale degli aventi diritto al voto.
La scomparsa di Depretis (sopravvenuta nel 1887) e l’avvento di Crispi ci portano a una diverso momento della storia italiana. Questo non dipende solo dal mutamento di leadership, ma rimanda alla diversa atmosfera culturale e al differente clima politico. Da un lato abbiamo la suggestione del modello bismarckiano, che appare come una forma politica efficace e moderna, in grado di superare il parlamentarismo classico. Da un altro versante comincia a farsi sentire la questione sociale. Si organizzano le prime leghe operaie, nel 1882 c’è il primo eletto socialista alla camera (Andrea Costa) e nel 1892 nasce il partito socialista. Pertanto, il problema della legittimazione dello Stato e della sua base di consenso si ripropone secondo una diversa prospettiva. La linea scelta da Crispi non è quella del graduale allargamento dell’elettorato divisato dalla normativa elettorale del 1882. Una prospettiva che gli appare ingenua e irenisticamente pacificatrice. Il suffragio viene anzi limitato di fatto attraverso una legge sulla revisione periodica delle liste elettorali, che fissa criteri più rigidi di accertamento dei requisiti. In questo modo la percentuale degli elettori che era nel frattempo salita oltre il nove per cento, torna a scendere di oltre due punti. Al pacifico accrescimento dell’area della cittadinanza l’uomo politico siciliano oppone il mito della grande nazione, che sappia conglobare nel suo seno le aspirazioni di tutti i ceti. In altri termini, Crispi incarna le contraddittorie aspirazioni di una cultura divisa tra la coscienza del deficit di spirito pubblico dell’Italia e la speranza di un’iniziativa miracolosa in grado di colmare di slancio l’arretratezza. Da qui il ricorso ad uno stile politico che Salvemini avrebbe definito icasticamente come «paternalismo intriso di megalomania».
Quella crispina si rivela una politica non priva di contraddizioni. Sul piano interno il vecchio garibaldino cerca una via di uscita dal trasformismo nel rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio. Per realizzare il suo disegno l’uomo politico siciliano opera per svincolare la compagine ministeriale dal controllo del parlamento. Ostentatamente, in occasione della presentazione dei programmi ministeriali e delle crisi, fa in modo di rimarcare l’autonomia del ministero da una maggioranza parlamentare. Ma per perseguire questo obiettivo deve necessariamente rafforzare la prerogativa regia appoggiandosi alla corona. Da essa riceve l’autorità necessaria per una politica interna che è, soprattutto nella prima fase, apertamente riformista; nel campo della politica estera, dove il suo comportamento non è meno radicale ed aggressivo si fa, invece, portatore di una visione espansionistica. Se sul piano interno la politica crispina riesce a conquistare una effettiva autonomia, in politica estera l’autonomia si riduce, perché il suo operato rafforza i poteri regi enunciati dallo Statuto.
Com’è noto, il tentativo crispino fallisce proprio sul fronte dell’espansione coloniale. Nel 1896 la disastrosa sconfitta di Adua, non solo mette fine repentinamente alla sua carriera politica, ma chiude il tentativo di legittimare lo Stato italiano in termini di potenza e di espansionismo coloniale. Tuttavia le scelte operate da Crispi resteranno paradigmatiche di una possibile evoluzione della politica italiana.


L’età giolittiana e la Grande Guerra

Dopo l’uscita di scena di Crispi si apre una non breve fase di smarrimento e di difficoltà, la cosiddetta crisi di fine secolo, nella quale si manifestano pulsioni autoritarie. Un periodo che si chiude, il 29 luglio 1900, con l’assassinio del re Umberto I ad opera di un anarchico. La successiva età giolittiana si caratterizza come una fase nella quale il processo di allargamento delle basi dello Stato riprende in varie direzioni. Sotto questo profilo il giolittismo può essere visto come un tentativo continuamente rinnovato di trovare interlocutori alla classe dirigente dello Stato liberale in diversi settori della società e dell’opinione. Rispetto all’angolazione analitica qui prescelta non è decisivo valutare i limiti o la riuscita della politica giolittiana nelle sue varie fasi e rispetto ai diversi scacchieri su cui andò misurarsi. Quello che conviene notare è la continuità dello sforzo di allargamento e di integrazione sottesa all’intera azione di Giolitti.
A tal proposito si possono segnalare almeno quattro “tavoli” (per usare un termine ripreso dalle cronache odierne) sui quali l’uomo politico di Dronero impegna la sua iniziativa. In primo luogo la strategia di attenzione verso i radicali che frutta, dal 1910 in avanti, una convergenza governativa sempre più convinta. C’è poi l’apertura verso i socialisti che, se non produce un coinvolgimento nelle maggioranze di governo, ha una ricaduta più che positiva sul clima delle relazioni industriali, sulla legislazione sociale, sui diritti sindacali. In una fase successiva abbiamo il tentativo di conciliarsi l’opinione nazionalista, con l’impresa libica del 1911, che riapre la politica coloniale. Infine c’è l’accordo con i cattolici (favorito anche dall’attenuazione del non expedit voluta da papa Pio X nel 1905), con il patto Gentiloni che caratterizza le elezioni del 1913. L’anno prima si era avuta un decisivo allargamento del diritto di voto. Il cosiddetto suffragio quasi universale, che superava il precedente equilibrio censitario. Il diritto di voto, infatti, viene concesso a tutti i cittadini maschi, anche analfabeti, che avessero compiuto trenta anni o fossero maggiorenni e avessero adempiuto all’obbligo di leva. In questo modo la percentuale degli aventi diritto al voto arriva al 24% della popolazione. Con questa riforma l’Italia si pone sullo stesso piano dei paesi europei più avanzati.
La legge è voluta espressamente da Giolitti, che l’aveva inserita come uno dei punti qualificanti nel programma del suo quarto governo, e va quindi ascritta a suo merito personale. Da un altra prospettiva, però, quella riforma si può leggere anche come il suggello di uno sforzo comune. Sforzo che, di là delle differenze politiche particolari, accomuna la classe dirigente dell’Italia liberale nel processo di nation building. A significare che, a circa cinquant’anni dalla sua fondazione, lo Stato italiano, sorto per opera di una minoranza, non solo ha oramai rafforzato le sue strutture portanti, ma è capace di coinvolgere e rappresentare fasce man mano più estese di cittadini.
Rispetto a questo faticoso processo di crescita civile e di consolidamento politico, la prima guerra mondiale rappresenta al tempo stesso una portentosa accelerazione e una pericolosa ordalia.
A tal proposito occorre prendere in considerazione i tempi e i modi dell’entrata in guerra dell’Italia dopo un anno di neutralità. Senza scendere a un’analisi dettagliata sarà sufficiente svolgere alcune considerazioni di ordine generale. La neutralità non è priva di ragioni, considerata la breve storia che la nazione aveva alle spalle. Risparmiare al paese la partecipazione al conflitto avrebbe significato proseguire senza scosse nell’opera di legittimazione graduale, che aveva caratterizzato le fasi migliori della vita pubblica italiana dopo l’unità. Tuttavia, se una politica di neutralità aveva dalla sua le ragioni della prudenza, ad essa ostavano non trascurabili motivazioni geopolitiche, relative agli equilibri internazionali. La posizione dell’Italia, al centro del continente e, soprattutto, vicina ai teatri di guerra; le dimensioni del paese e il suo peso nell’equilibrio europeo; non ultima anche la presenza di province irredente rispetto alle quali non erano mai venute meno legittime aspirazioni nazionali, rendono il non intervento un ripiego temporaneo, che il protrarsi del conflitto fa diventare sempre più difficile da sostenere. Su di un altro versante, occorre però rilevare che la decisione di partecipare al conflitto viene presa in modo convulso e poco trasparente. Il parlamento è scavalcato dalla piazza, con la messa in mora della maggioranza parlamentare contraria all’entrata in guerra; va poi considerata la dura contrapposizione tra interventisti e neutralisti, che taglia trasversalmente gli schieramenti politici. Insomma, la maniera in cui viene a determinarsi l’intervento mette a nudo le gracilità e le contraddizioni del giovane Stato.
La guerra, che dura quattro anni, si rivela una prova durissima che il paese supera dando prova di spirito di sacrificio, tenacia, disperata iniziativa. Essa cementa, sia pure traumaticamente, anche la compagine nazionale, perché l’esperienza della trincea avvicina in uno sforzo comune settori della popolazione fino ad allora distanti tanto dal punto di vista sociale che geografico. Tuttavia, su di un altro piano, la guerra determina uno scompaginamento dei quadri entro cui si era svolta fino ad allora la vita nazionale che non è facilmente recuperabile.


Dopoguerra e fascismo

All’indomani della vittoria l’attitudine della classe dirigente italiana è quella di ricompensare con misure adeguate i sacrifici compiuti. Sono misure che investono anche la partecipazione politica, a conferma di un assioma della scienza politica empirica che lega l’impegno in guerra alla cittadinanza. A un mese dalla fine del conflitto il diritto di voto viene esteso a tutti i cittadini maschi maggiorenni e anche a coloro che, pur non avendo compiuto il ventunesimo anno, avessero prestato servizio militare durante la guerra. Meno di un anno dopo, nell’agosto del 1919, si ha una modifica del sistema elettorale che risulta anche più significativa. Abbandonato il collegio uninominale maggioritario con ballottaggio che (tranne una breve parentesi tra il 1882 ed il 1892) aveva caratterizzato tutta l’età liberale, si passa alla rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista. Si adotta cioè un sistema di voto che penalizza la politica notabilare e favorisce i partiti organizzati.
Per diverse ragioni però, questo spirito di apertura non riesce a ricreare un equilibrio nel sistema politico. Va anzitutto considerato un generale mutamento del clima di opinione. La fine della guerra, infatti, non porta un rasserenamento degli animi, ma lascia uno strascico di violenza che permea la vita pubblica. Il biennio rosso (1918-1920), l’occupazione di Fiume (1919-1920), l’offensiva fascista (1920-1922) sono i modi con cui essa si manifesta.
Sul piano politico-istituzionale, poi, s’inceppa il meccanismo a base personale e notabilare (che possiamo chiamare “trasformistico”) su cui si reggeva il gioco dei governi e delle maggioranze parlamentari. La sua sostituzione con un equilibrio a base partitica non riesce. I partiti più grandi (socialisti, popolari, la nebulosa liberale) non trovano i modi e le forme di una collaborazione per un insieme di motivi (scarsa cultura di governo dei primi due, diffidenza reciproca, pregiudizi incrociati, incomprensione dei mutamenti istituzionali operati). In sostanza negli anni tra il 1919 ed 1922 il sistema politico sperimenta una forma di partitocrazia imperfetta che, per quanto sul momento inefficace, offrirà un punto riferimento importante alla ripresa della vita libera, dopo la seconda guerra mondiale.
Il combinato disposto della militarizzazione della vita pubblica e dell’impasse istituzionale e governativo apre la strada al fascismo. Nel movimento e poi nel partito mussoliniano convergono diverse esperienze e tradizioni (sindacalismo rivoluzionario, nazionalismo, combattentismo). Quello che risulta decisivo nella conquista del potere è però lo stile politico di Mussolini che applica alla vicenda italiana la tecnica leninista del colpo di stato. In esso si combinano il pragmatismo privo di scrupoli, l’uso sistematico della violenza e dell’intimidazione, la volontà di potenza, l’ambizione personale, l’eclettismo pirotecnico che investe tanto l’uso delle formule politiche che delle alleanze. Quello che ne risulta è una supremazia politica che si muta ben presto in aperta dittatura e trova i mezzi e le risorse per durare per circa un ventennio.
Dal punto di vista che qui c’interessa, che è quello della legittimazione, il fascismo si presenta come una riproposta in versione totalitaria (per meglio dire, che aspira a un assetto totalitario senza riuscirci) della grande nazione di ascendenza crispina. Secondo questa lettura della vicenda italiane, lo Stato liberale, debole nelle sue strutture e non più adeguato alle mutate circostanze storiche, non era riuscito a fondare pienamente la nazione, inserendo le masse nello Stato. Il fascismo tenta di accreditarsi, appunto, come la tappa successiva dello sviluppo nazionale. Questa l’idea che i suoi più autorevoli teorici (Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe), pur con accenti diversi, veicolano. Strumento di questo processo è il partito che affianca lo Stato in un’opera, che si vuole capillare, di pedagogia nazionale.
In mancanza di libere elezioni è difficile misurare il grado e la profondità del consenso che la storiografia tende ad attribuire al fascismo nella seconda metà degli anni Trenta, sostanzialmente dopo le imprese coloniali. Tuttavia è indubbio che in quella stagione la lettura del nuovo regime come inveramento nazionalistico del Risorgimento godesse di una popolarità che non era solo frutto dell’indottrinamento ufficiale. Di lì a poco, però, il fascismo chiude in modo disastroso la sua parabola. Come tutti i sistemi autoritari, non aperti al vento vivificante della libera critica e del dissenso, il regime mussoliniano è ossificato ed incapace di correzioni di rotta. A partire dalle leggi razziali del 1938 si assiste a un progressivo e rapido degrado. La seconda guerra mondiale combattuta a fianco della Germania nazista, si conclude con una sconfitta rovinosa, che non solo segna la fine del regime, ma mina fortemente anche il prestigio della monarchia. L’eredità negativa che lascia è duplice: la crisi dell’idea di nazione, una concezione del partito-stato.


Dalla caduta del fascismo alla costituente: una transizione riuscita

La nascita dell’Italia repubblicana può essere letta come una nuova tappa nel percorso di legittimazione dello Stato. Per apprezzarne pienamente la portata occorre, però, preliminarmente, definire i problemi che si presentano alla caduta del fascismo. Dal punto di vista morale e materiale il paese è stremato, semidistrutto dalla guerra e provato nella sua fibra civile, come mostrano le disastrose vicende che seguono alla stipula dell’armistizio con gli alleati. Più in generale, poi, esiste un forte deficit democratico, perché dopo un ventennio di dittatura mancano le articolazioni necessarie a far funzionare la vita pubblica.
Il ritorno alla libertà avviene con la ricostituzione dei partiti. Si tratta di un processo che prende le mosse già all’indomani del 25 luglio e prosegue anche nella difficile fase successiva. Le organizzazioni politiche, che si organizzano rapidamente, si ricollegano, tanto sotto il profilo generazionale che sotto quello ideale, al sistema di partiti che aveva cominciato a delinearsi all’indomani della prima guerra mondiale. Data la situazione del paese, che vede l’Italia tagliata in due e sottoposta a un duplice regime (con il Sud già liberato dagli alleati, mentre al Nord la guerra continua ancora per un anno e mezzo) i partiti, riuniti in un Comitato di Liberazione Nazionale e in tanti comitati locali, non possono godere della legittimazione popolare. Questo deficit viene parzialmente colmato in base a una duplice circostanza. I dirigenti dei rinati partiti politici sono in gran parte oppositori storici del regime fascista, quando non esuli rientrati dopo la caduta di Mussolini. Questo prestigio personale consente di mitigare le condizioni di subalternità imposte dall’occupazione alleata. Grazie ai loro sforzi all’Italia viene riconosciuto lo status di nazione cobelligerante, fatto che marca una cesura con il precedente regime e pone le premesse per reinserire in tempi brevi il nostro paese nel consesso internazionale. Da un’altra prospettiva, per quanto manchi il riscontro del consenso elettorale, la presenza di diverse organizzazioni politiche, accompagnate da una stampa libera, crea una prima essenziale dialettica di posizioni e di proposte. In sostanza, prima di venire legittimato dal voto popolare, il nuovo assetto dell’Italia postfascista si legittima riprendendo la pratica della libertà.
La fine del conflitto, con il progressivo allentamento della supervisione alleata, consente una più rapida accelerazione di questo processo, che viene perseguito battendo in modo coerente la strada maestra del consenso popolare. La questione istituzionale, cioè la scelta tra monarchia e repubblica, viene affidata ad un referendum. A dimostrazione di una sostanziale maturità dell’opinione e del costume, il cambio della forma stato avviene in maniera ordinata e senza gravi traumi, anche se i suffragi a favore della monarchia sono numerosi e la maggioranza a favore della repubblica è netta ma non schiacciante. Una larga apertura in senso democratico, che allinea l’Italia agli altri paesi europei, si riscontra anche su altri versanti, come nella decisione di concedere il diritto di voto alle donne.
Soprattutto, poi, a caratterizzare questa stagione di ripresa democratica c’è la scelta di eleggere un’assemblea costituente per assicurare la tutela dei diritti e decidere l’organizzazione dei poteri. Si tratta di una decisione che riprende un’antica aspirazione del repubblicanesimo di ascendenza mazziniana. E anche questo, pur nella indubbia diversità politica e sociale, è un segno di continuità ideale nella storia nazionale.
Alla costituente l’impegno e la collaborazione tra i diversi partiti politici è innegabile. Il frutto di questa convergenza è una costituzione che si inserisce degnamente nel ciclo costituente che riguarda gli altri paesi europei usciti dalla guerra, Francia, Germania, presentando caratteristiche in parte simili (costituzionalismo rigido, apertura ai cosiddetti diritti sociali).
Tuttavia, rispetto al passato esiste una cesura importante. Il risultato delle urne mostra che le forze politiche dominanti sono estranee alla tradizione risorgimentale. A fare la parte del leone, infatti, sono la Democrazia cristiana e le forze della sinistra socialcomunista. Se durante il sessantennio liberale c’era stato da parte della classe politica il tentativo di allargare progressivamente la base del nuovo Stato adesso la situazione è rovesciata, per cui diventa centrale l’inserimento di queste forze politiche nella compagine statale.
Nel complesso, la crisi del secondo dopoguerra si risolve positivamente. L’Italia porta a buon fine una non facile transizione dalla dittatura alla democrazia. Il nuovo sistema politico appare largamente legittimato e anche la cesura con la tradizione risorgimentale non appare un vulnus irreparabile, ma uno scotto da pagare alle mutate condizioni politiche. Peraltro, il fatto che le principali forze politiche si ricolleghino a quelle che si erano affacciate alla ribalta nell’altro dopoguerra prima dell’avvento del fascismo è un non trascurabile elemento di continuità. In conclusione, l’allargamento delle basi dello Stato passa per una strada che, senza nessuna connotazione negativa, possiamo definire partitocratica. In questo processo pesa anche l’eredità del fascismo. La funzione pedagogica del partito unico viene ereditata da un complesso di partiti che rivendicano non solo l’indispensabile ruolo di cerniera tra opinione pubblica ed istituzioni, ma quello di unici garanti autorizzati della democrazia.


Una democrazia dei partiti: le peculiarità del caso italiano

All’interno di un quadro sostanzialmente positivo, è la situazione internazionale a rivelare una debolezza di fondo nella rinata democrazia italiana. La guerra fredda, che si delinea a partire dal 1947, trova un drammatico riscontro nel nostro paese dove si registra la presenza di un forte partito comunista di stretta osservanza sovietica. Certo, la dirigenza del Pci non è avventurista, punta invece a inserire il partito nella vita della repubblica. D’altronde, soprattutto dopo il distacco della Yugoslavia di Tito, anche Mosca non pensa di mutare con la forza gli equilibri d’influenza fissati a Yalta. Tuttavia i margini per perseguire una politica di revisione ideologica da parte del Pci sono assai ridotti. Vuoi per l’orizzonte culturale dei dirigenti, formatisi nell’ortodossia terzinternazionalista; vuoi perché i militanti, ma anche buona parte del suo elettorato, guardano con fiducia all’Unione sovietica, vista come il paese dell’utopia realizzata, ma anche come la grande potenza capace di pesare in modo significativo nella politica internazionale.
Pure, se il partito comunista è forte ed autorevole, se mantiene una linea politica assai moderata, se si vuole nazionale nelle scelte tattiche e nelle proposte pratiche, esso resta un interlocutore poco appetibile per la più gran parte degli elettori. Tale circostanza ha una importante ricaduta sotto il profilo della legittimazione del sistema. Se il suffragio universale, la pratica quotidiana della libertà, la presenza di partiti guidati da leader dotati di prestigio e considerazione popolare sono tutti fattori che favoriscono il radicamento della repubblica, la sua legittimazione trova un limite nella presenza di consistenti partiti antisistema (all’epoca il Psi era legato da un patto di unità d’azione con i comunisti), o comunque visti con grande sospetto dalla maggioranza dei cittadini. Per queste ragioni, la razionalizzazione partitocratica, che ha consentito una positiva transizione dalla dittatura alla democrazia, viene articolandosi ben presto come un nuovo equilibrio centrista, sostanzialmente privo di alternative. Le caratteristiche strutturali qui sommariamente indicate si modellano in modo pressoché definitivo nell’arco di circa un decennio. A tal proposito si possono indicare due date periodizzanti, che coincidono con le elezioni generali della prima e della seconda legislatura.
Le elezioni del 18 aprile 1948 segnano un decisiva vittoria dell’anticomunismo esistenziale. L’autoritarismo e la durezza con cui le libertà politiche vengono limitate nei paesi del futuro patto di Varsavia, in primo luogo il colpo di stato di Praga del febbraio dove l’Urss insedia un governo “amico” sovvertendo con la forza il risultato delle urne, allarmano l’elettorato conservatore e moderato, che si raggruppa per un momento attorno alla Dc, individuata come il più sicuro baluardo contro il pericolo bolscevico. Se il risultato ottenuto in quella circostanza dal partito dello scudo crociato non sarà mai più ripetuto in seguito, quella consultazione elettorale evidenzia con nettezza un elemento essenziale per intendere il funzionamento del sistema politico dell’Italia repubblicana nel lungo dopoguerra. Nel nostro paese, in maniera più marcata che in altre nazioni europee, la guerra fredda costituisce l’orizzonte ultimo e il limite implicito della contesa politica, condizionandone fortemente gli sviluppi.
Il risultato delle elezioni decide in modo definitivo la collocazione internazionale dell’Italia. Circostanza che consente di operare scelte essenziali per il futuro. Nel 1949 abbiamo l’adesione all’alleanza atlantica, che ancòra il nostro paese alle democrazie occidentali. A partire dal 1950, poi, l’Italia è in prima linea nell’avvio della costruzione europea. In altri termini a pochi anni dalla guerra persa, la classe dirigente italiana riesce a ristabilire dignitosamente lo status internazionale della nazione, reinserendola a pieno titolo nel concerto europeo e mondiale. Le scelte di politica estera hanno una ricaduta positiva anche sul versante economico, ponendo le premesse per quella crescita senza precedenti che il nostro paese conoscerà nei decenni successivi.
Dal punto di vista della forma di governo, la centralità democristiana non ha ancora dato vita all’equilibrio centrista che dominerà in seguito. Anzi, la indiscussa supremazia politica di De Gasperi, che di fatto si avvicina ad una premiership britannica in cui il leader guida la maggioranza parlamentare la quale a sua volta indirizza il partito, sembra poter preludere a sviluppi similari. A spingere per un momento in questa direzione contribuisce un elemento contingente. Sapendo che alle prossime elezioni il partito non arriverà alle percentuali di cinque anni prima, per assicurare una base parlamentare ampia al governo, la dirigenza democristiana modifica la legge elettorale inserendo la clausola di un premio di seggi per la coalizione di partiti che avesse riportato la maggioranza assoluta dei voti. Per quanto fosse dettata da una considerazione puramente tattica, e nonostante risultasse poco sofisticata nella sua articolazione tecnica, la riforma avrebbe potuto sortire effetti positivi. Finalizzando le elezioni alla conquista del cinquanta più uno per cento, quindi sul governo, avrebbe probabilmente accelerato i processi di revisione ideologica a sinistra aprendo la strada, nel medio periodo, a una possibile alternanza.


Una democrazia bloccata dei partiti: la dinamica evolutiva del caso italiano

Il mancato scatto del premio di maggioranza, e anche il modo in cui esso avviene (campagna contro la “legge truffa”, defezioni nei partiti della maggioranza), orienta il sistema in tutt’altra direzione; in sostanza lo immobilizza dandogli il suo assetto definitivo. I due partiti maggiori conquistano quella che si può definire una sorta di golden share permanente sulle rispettive aree politiche. A partire da questo momento le elezioni non sono più un’aperta competizione per il potere, perché i ruoli di partito di maggioranza relativa e di più grande partito dell’opposizione sono oramai fissati; piuttosto, con il passar del tempo, esse diventano sempre più una sorta di mega sondaggio, per stabilire le rispettive quote d’influenza, ovvero un grande rito identitario, volto a riconfermare i fedeli. In questo senso la vita pubblica italiana è il riflesso puntuale del mondo della guerra fredda in cui c’è una divisione precisa delle sfere d’influenza. Inquadrata in tale prospettiva, la vischiosa stabilità italiana è il modo per far convivere in modo non lacerante, o eccessivamente traumatico, due visioni antitetiche dello sviluppo storico e dell’organizzazione sociale. In sostanza, la democrazia italiana si caratterizza come una democrazia speciale, nella quale la drammatica contrapposizione che caratterizza le relazioni internazionali si trova esattamente rispecchiata nella vita politica interna.
Il fallimento della nuova legge elettorale (con l’immediato ritorno alla proporzionale pura) ha anche un’altra conseguenza di non poco momento: mette una pietra tombale per circa un trentennio non solo su possibili modifiche delle legge elettorale, ma più in generale su qualunque ipotesi di ingegneria costituzionale. In altri termini, a partire da quella data, nel comune sentire della classe politica, un mutamento delle regole del gioco per favorire comportamenti virtuosi viene ritenuto del tutto impraticabile, se non decisamente sconveniente.
Ovviamente, dire che da quel momento in poi il sistema si immobilizza, assestandosi in modo definitivo, non significa che la lotta politica scompaia, perché la contrapposizione ideologica e la conflittualità sociale restano forti; né significa che non si esperiscano iniziative o si tentino combinazioni per mutare i rapporti di forza. Tuttavia le iniziative e le combinazioni esperite e tentate restano senza esito, circostanza che non solo conferma gli equilibri esistenti ma finisce, necessariamente, per rafforzarli.
Venuto a mancare il premio di seggi previsto dalla legge voluta da De Gasperi, la base parlamentare del governo si restringe. Per ovviare a questo difetto, che rischia di lasciare le maggioranze in balia del primo incidente di aula, la strada imboccata è quella del coinvolgimento del partito socialista nella maggioranza. Tuttavia, perché tale indirizzo maturi in modo definitivo sono necessari parecchi anni. Da un lato c’è una non facile evoluzione ideologica del Psi, che si accelera solo a partire dagli avvenimenti del 1956 (XX congresso del Pcus, invasione sovietica dell’Ungheria). Dall’altro occorre vincere le non lievi resistenze di una parte consistente della Democrazia cristiana che vede l’apertura a sinistra come un pericoloso cedimento ai comunisti.
Il centro sinistra, varato in modo definitivo dal 1964 e divenuto poi la formula consueta della gran parte dei successivi ministeri di coalizione, raggiunge solo in parte gli scopi per cui era stato pensato. La nuova combinazione politica, nelle intenzioni dei suoi promotori, non serviva soltanto a supportare con una più ampia base i governi, ma doveva anche riuscire, grazie a una convincente azione riformatrice, ad erodere il consenso del partito comunista, ponendo le premesse per la normalizzazione del sistema. Su questo piano l’insuccesso è totale, non solo l’insediamento sociale del Pci non viene per nulla scalfito, ma il partito vede crescere i propri consensi. Peraltro anche la più ambiziosa iniziativa politica immaginata per accompagnare l’allargamento della maggioranza si conclude in modo fallimentare. La riunificazione socialista, che nel 1966 vede convergere il Psi di Nenni e il Psdi di Saragat nel Psu, non riesce a creare un soggetto politico vitale, capace di conquistare consensi a sinistra, ma si risolve in una macchinosa sommatoria di partiti. Dopo tre anni di vita comune, infatti, le due formazioni si separano di nuovo.
A questo punto, messa fuori gioco l’ipotesi di un mutamento delle istituzioni, rivelatasi inefficace l’iniziativa politica, anche la polemica culturale perde di mordente, non riuscendo a scalfire la strategia egemonica cui il Pci dedica molte energie. Per la normalizzazione del sistema non resta che affidarsi alla lenta maturazione democratica offerta dalla prassi quotidiana. Nel perseguire questa strada i due maggiori partiti trovano una indubbia convenienza. Qui sta la sostanza di quello che sarà definito consociativismo. Ovviamente il Pci e la Dc mantengono diverse opzioni di fondo, ma la convergenza è indubbia, perché dettata da un reciproco interesse a far evolvere in tempi lunghi il quadro politico. Il partito di maggioranza relativa, grazie alla presenza di un partito sentito come pericoloso dalla gran parte degli elettori, detiene una rendita di posizione praticamente inscalfibile e può, con una percentuale di voti oscillante tra il 33 ed il 38 per cento dei voti, controllare la gran parte delle risorse politiche garantite dal governo e dal sottogoverno. A sua volta il maggior partito di opposizione, non sollecitato a una revisione ideologica da operare in tempi brevi, può perseguire il proprio radicamento egemonico, ma al tempo stesso lucra sull’irresponsabilità che gli deriva dall’esclusione dall’area di governo per aumentare i propri consensi.


Una lenta crisi di legittimazione

La vita pubblica risente in modo non positivo di tale stabilizzazione finale. Alcuni difetti del sistema politico (opacità alle correnti di opinione, elezioni come rito identitario e non come contesa per il governo, tendenziale autoreferenzialità) si accentuano, perché risultano funzionali alla logica evolutiva che si è venuta a determinare. La politica italiana diventa sempre più un balletto felpato dove si tesse una impalpabile trama tra i palazzi romani, uno scambio di segnali di fumo che risulta comprensibile solo a pochi addetti ai lavori. Una simile involuzione si può intendere, certo, come un adattamento ulteriore del sistema alle esigenze del mondo bipolare, inteso a smussare, con un lento addomesticamento, le asperità della guerra fredda. Tuttavia essa ha delle gravi controindicazioni che gli attori politici non riescono a vedere o sottovalutano decisamente.
In primo luogo, immaginare una assimilazione implicita del Pci, che non passasse per una definita revisione ideologica, significava da un lato non considerare gli equilibri internazionali e del loro peso nel determinare anche la politica interna, dall’altro non tenere conto delle radici storiche e culturali del partito. Certo, negli anni si registra da parte del Pci una crescente presa di distanza dall’Urss. Tuttavia rimane una insofferenza culturale non solo verso il modello dell’economia di mercato, che andrà superata gradualmente introducendovi elementi di socialismo, ma verso il gioco democratico inteso come maggioranze che si alternano al potere. Sotto questo profilo, il rifiuto di governare col 51% dei voti, teorizzato dalla dirigenza del partito all’epoca del compromesso storico, non è un esempio di estrema moderazione, ma una implicita fedeltà ad un obiettivo rivoluzionario.
In secondo luogo, ed è questo l’aspetto forse decisivo, il congelamento della vita pubblica in attesa che maturi quella era chiamata anche la “repubblica conciliare”, isola il mondo dei partiti dallo sviluppo della società. Nel dopoguerra l’Italia, a partire dal Piano Marshall e dal processo d’integrazione europea, conosce un impetuoso sviluppo economico che rapidamente si riverbera sulla intera vita sociale. Dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, e poi con una crescente intensità nei decenni seguenti, mutano abitudini e costumi, stili di vita e propensioni personali. Tale trasformazione erode i canali di consenso e di interlocuzione sociale dei partiti di massa che avevano gestito la transizione democratica all’indomani della guerra.
La strategia dell’incontro tra le due maggiori forze politiche d’ispirazione popolare che, pur con tutte le innegabili e profonde differenze, era il presupposto tanto della terza fase teorizzata da Moro quanto del compromesso storico berlingueriano, presupponeva un quadro di riferimento sociale che era quello dell’Italia del dopoguerra. Tale quadro non rispondeva più alla realtà del nostro paese negli anni Settanta del secolo scorso. Questa sconnessione rende il sistema politico progressivamente meno capace d’intendere e di rispondere alle sollecitazioni e alle domande che la collettività esprime. Non casualmente, dopo il fallimento dei governi di unità nazionale e le elezioni anticipate del 1979, la politica italiana entra in una fase di stallo. A questa data si può fissare la fine della spinta propulsiva di quella che sarà chiamata la prima repubblica e l’inizio di una crisi di delegittimazione.
Tale deriva si può avvertire da vari fattori, il Pci, invertendo un lungo trend ascendente, comincia a perdere consensi, con una parabola che appare man mano irreversibile. Da parte sua, il partito dello scudo crociato soffre di una grave crisi di leadership. Tant’è vero che, pur rimanendo sempre il partito di maggioranza relativa, deve, dal 1980 in poi, cedere per lunghi periodi la presidenza del consiglio ad esponenti di partiti con un seguito elettorale assai meno consistente. Tuttavia la crisi non si rivela apertamente, covando a lungo sotto la cenere. Il fatto è che la guerra fredda cristallizza ancora le posizioni per quasi un quindicennio. Apparentemente nulla cambia perché l’elettorato rimane fortemente vischioso e gli scarti percentuali risultano trascurabili, ma l’affezione verso il regime politico si fa sempre più tiepida se non incerta. Tuttavia, solo quando la guerra fredda si conclude con il subitaneo collasso dell’Urss, la crisi di legittimazione si manifesta con virulenza. Di lì a poco il sistema politico (non più protetto dal vincolo esterno del mondo bipolare) crolla repentinamente. A quel punto si apre un altro capitolo della nostra vicenda nazionale, che richiede un rinnovato processo di legittimazione. Si tratta di una vicenda che ancora non è giunta ai suoi esiti ultimi. Ma questa, evidentemente, è un’altra storia.



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