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Garin, la letteratura, il primo Novecento*
di Emma Giammattei

Cominciai a capire che la filosofia – come lessi più
tardi in Bertrand Russell – non si nutre di se stessa,
e che una delle vie d’accesso al filosofare è proprio
la riflessione sugli aspetti esemplari delle varie
forme dell’esperienza umana.
E. Garin, Sessanta anni dopo




L’«appassionamento partecipe»1, senz’altro strutturale e originario, di Eugenio Garin per la letteratura contemporanea, nel particolarissimo manifestarsi come letteratura del Primo Novecento, è attestato da un dato davvero irrefragabile e molto evidente per gli italianisti: che a quella definizione e pronuncia hanno contribuito in modo rilevante ed efficace le ricerche appunto di Garin, presto accolte e messe a frutto in una circolazione di idee, innanzi tutto fiorentina. Bisogna infatti ricordare il posto rilevante, assunto nel periodo del secondo dopoguerra dalle Cronache di filosofia italiana, apparse nel 1955, dove veniva in primo piano il ruolo di scrittori fin lì considerati «ai margini della filosofia», degli «intellettuali» e delle riviste, in un intreccio complessivo di ragioni letterarie e di orientamenti ideologici. Giovò allora il recupero, in una lezione dall’apparenza dimessa, in realtà innovativa e teoreticamente complessa, di uno strumento maneggevole, la «cronaca» – assai più che un genere, un modello che è alle origini, insieme con il poema, dell’universo narrativo europeo2. Grazie a questa libertà combinatoria del racconto-catalogo, quel libro infatti individuava una traccia, vale a dire un connettore efficace della produzione della pratica storica nel dipanarsi fra supposta continuità della memoria e discontinuità della storia delle idee3. In tal senso soprattutto esso rappresentò un momento instaurativo della storiografia del Novecento nel liberare e rendere evidente un corpus di testi sin lì oggetto di ricordo personale da parte dei testimoni diretti – si pensa al libro del 1941 di un personaggio come Augusto Hermet – e solo in seguito messo a frutto negli ambiti pertinenti della storia della cultura. Da qui si diparte una serie di operazioni editoriali centrate sul primo Novecento, come la collana “La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste” con i primi volumi antologici del 1960 dedicati alle riviste fiorentine da Delia Frigessi Castelnuovo e da Angelo Romanò. E dalla scuola del De Robertis, uno studioso di Otto e Novecento, Giorgio Luti, avrebbe fornito con le Cronache letterarie tra le due guerre, del 1966, il primo di una cospicua messe di saggi vòlti ad illustrare la letteratura di quella stagione nel contesto e nell’economia culturale delle riviste. Proprio Luti, a sua volta maestro e catalizzatore di un manipolo di specialisti, in pagine posteriori e riassuntive avrebbe sottolineato la matrice gariniana, indicando anzi, come soglia storica quasi visiva nella vita intellettuale della città, la memorabile conferenza tenuta da Garin nel 1959 a palazzo Riccardi su Un secolo di cultura a Firenze4. Dentro una geografia culturale puntata su Firenze capitale del primo Novecento va forse compresa anche la disposizione, da parte di un protagonista avveduto e lungimirante del primo-Novecento quale Giuseppe Prezzolini, a farsene testimone e usufruttuario, per tutta la vita, pubblicando lettere e documenti del Tempo della Voce5. Né infine va perso di vista il prezioso intreccio di idee, che a partire dalle Cronache si intesse, tra Firenze e Torino, con l’opera di Norberto Bobbio, autore del Profilo ideologico del Novecento scritto nel 1969 ad introdurre il volume dedicato al Novecento nella garzantiana Storia della letteratura italiana a cura di Cecchi e Sapegno6.
Tutta la formazione di Garin si era svolta, del resto, all’insegna della sintesi rinnovata fra le diverse articolazioni accademiche derivate dalla antica unità umanistica, ma a partire dall’attrazione cogente della contemporaneità. C’era ancora, negli anni Trenta, il vivo contatto fra le discipline e la conversazione «simpatica» fra le persone, ancorchè o perché dissimili, come De Robertis e Garin: ovvero, per dirla qui con una formulazione anticipata rispetto al discorso che si intende svolgere, il giansenismo della forma e la storia delle idee. È una determinata dizione di letteratura, quella di primo Novecento, connessa ad un preciso corpus di autori, certo, ma soprattutto ad un modo nuovo – e conclamato come nuovo dai protagonisti – di produzione-ricezione dei testi, su riviste e giornali e dentro l’intreccio funzionale dei gruppi, nella grande stagione italiana della nascita dell’intellettuale. I nomi degli scrittori che attrassero la sua attenzione sono, in prima istanza, quelli di Serra, Michelstadter, Boine, significativamente considerati in dialogo: Serra e Croce, Boine e Unamuno, Michelstaedter e Vailati. Sullo sfondo, attive su scala diversa ma complementari nella personale mitografia di Garin, ci sono due modelli artistico-intellettuali, uno lontano l’altro vicinissimo, del primo Novecento: Tolstoi e Carducci.
Non si deve sottovalutare, sul versante del privilegio attribuito alla letteratura, il configurarsi della personalità del giovane Garin accanto ad un filosofo sui generis come il Limentani e, in quel legame intenso, umanamente intenso, cosi come emerge dalle lettere del maestro, l’interesse per quei «nuovi umanisti» che furono i moralisti inglesi7, e per la questione dell’autonomia dell’etica connessa per la prima volta da Shaftesbury con il senso della bellezza8. Tanto meno si può eludere, presupponendolo come scontato per uno dei massimi studiosi del Rinascimento, il tema della relazione fra letteratura, filosofia e storia delle idee, nella composita mise en place che costituisce il carattere essenziale e distintivo dell’opera e del profilo di questo intellettuale. È stato giustamente sottolineato il carattere fecondamente eclettico del Garin dei primi anni trenta, attestato dalla resa stilistica, dai materiali eterogenei e compositi della pagina9. Questo carattere deriva dall’incentivo letterario che alimenta e mette in moto le prime ricerche, sotto la guida liberalissima di chi riteneva che «tra le grandi opere di filosofia dell’Ottocento erano da porre … innanzitutto alcuni grandi romanzi»10.
Nel fornire un decisivo contributo alla critica di se stesso sessanta anni dopo – era il 1989 – Eugenio Garin avrebbe posto l’accento su di una accezione ampia di filosofia come spazio del «filosofare» al quale si può accedere, si legge nel passo che abbiamo citato in esergo, tramite l’attenzione alla esemplarità delle varie forme dell’esperienza umana. Si tratta di un passaggio testuale importante, di straordinaria densità, che sollecita una osservazione in margine. In virtù di questa visione integrale degli infiniti nessi instaurati dal discorso con le proprie articolazioni e pratiche particolari, ognora ricondotto ad una mitografia unitaria dell’umano, il Garin perennemente impegnato a ridefinirsi e situarsi – davvero, in ciò, crociano more – entro la propria parabola e in relazione al tempo, risulta in singolare sintonia con i maggiori rappresentanti della cosiddetta scuola di Costanza. Si deve infatti al filologo e teorico della letteratura H.R. Jauss, nell’ambito della rivista «Poetik und Hermeneutik», la riflessione, in quegli stessi anni, appunto sulla centralità «estetica» dell’esperienza umana, in quanto paradigma superstite ed assoluto della individualità11. Ebbene, la convergenza o contiguità, da una differente prospettiva scientifica, con i risultati della estetica della ricezione – determinanti, a non dir altro, nel riformulare il rapporto fra finzione letteraria e racconto storiografico – ci aiuta almeno a rilevare, in ragione di quella curiosità prensile, attenta al progredire di certe linee di ricerca, la funzione determinante che sempre, dall’inizio alla fine, assume nel pensiero di Garin qualcosa che i filosofi puri son soliti attribuire alla dimora della letteratura. Si è accennato appunto alla inflessione eclettica dell’abbrivo, alla genialità di un grande bricoleur della prosa critica, ben attento al sapore complessivo delle combinazioni dei materiali che mette in opera. In verità, lungo la tradizione culturale più cara a Garin, si snoda, dal Rinascimento al Novecento una striscia di frontiera tra i saperi, aperta alle incursioni, che prevede ed anzi richiede, come necessarie, le contaminazioni fra letteratura, filosofia, storia, tra individuale e generale, e tra autobiografia e ricerca del vero: questo spazio, niente affatto omogeneo, privo di continuità e identità di genere è rappresentato dai sentieri controversi ed impervi, «per capre», del moralismo e dalla tradizione moralistica.
E allora, l’attenzione alle scritture spurie, senza genere, del primo Novecento, la capacità di individuare sia la filosofia là dove non poteva giungere la vista professorale sia la letteratura là dove i letterati non erano abituati a cercare – nel saggio, nell’articolo di giornale, nel dialogo polemico – va restituita ad una tensione etico-civile, focalizzata sulla contemporaneità. Ha avuto ben ragione Gennaro Sasso a notare la stretta complementarità fra la dissimulata vena autobiografica che innerva i rigorosi studi sul Rinascimento e l’atteggiamento «cronachistico» che sottende gli scritti sull’Otto e Novecento pur così dichiaratamente coinvolti nel proprio tempo (e nella colpa di avere convissuto col fascismo, «l’esperienza alla quale ero stato condannato e nella quale mi ero formato»)12. La passione morale mette a soqquadro passato e presente, oltre che le tranquille rubriche della conoscenza disciplinata ed organica. Fa scattare il talento di adoperare la categoria dell’ermetismo, saggiata da Garin in sede storiografica nel periodo eroico tra Quattro e Cinquecento, come principio mimetico per poi intendere e decrittare l’ambiguità e il contagio dei linguaggi nel ventennio fascista13. E allora accade che le medesime formulazioni problematiche ricorrano, quasi con le medesime parole, per dar conto dei periodi di crisi, di smottamento del senso, di mutazione di episteme: la crociana diffida alle pseudo-categorie che assegnano posti e sponde nel fluire del tempo storico viene ripresa continuamente, a ricordare che la realtà «vive in una tensione costante, negli stessi uomini e nei medesimi tempi, proprio degli elementi che certa storiografia confina in versanti opposti».
Di converso la passione per la letteratura, come «corpo della lingua», luogo di una libertà che non smobilita – dirà con la Dialettica negativa di Adorno – da molti percepita come «peccaminosa»14 lo porta a risultanze sorprendenti. Una testimonianza già significativa era rappresentata, a costeggiare le Cronache, dall’umile fatica delle note e schede pubblicate sul «Leonardo» a partire dal 1946, di fatto i suoi taccuini di lettura «il diario di uno che quegli anni aveva attraversato» – come scrive Torrini nella premessa al numero del «Giornale critico della filosofia italiana» consacrato a Garin. Sono note sulla cultura contemporanea, che liberamente, senza pregiudizi e senza le gerarchie dettate dal prestigio dell’argomento, svariano sul versante letterario da Tommaseo ad Huxley, da Tolstoi a Curtius. Sottesa alle modalità interpretative vi agisce, costante, una idea di Letteratura connessa ad una concezione del mondo alla visione del compito dell’uomo, di testo come snodo di una rete di testi di diversissima natura, una idea plenaria di parola. «Déplacer la parole, c’est faire une révolution» ripeterà con Roland Barthes a difesa della retorica, offerta come impegnativo contenuto della forma.
Ma intanto si ascolti lo stesso Garin, in quello spazio vestibolare a lui così consono della prefazione, che ce lo mostra e quasi raffigura sempre in opera, a situare e ri-situare le pagine scritte, in una perenne tensione auto-storicizzante. Chi si era affacciato agli studi all’inizio del secondo quarto del secolo «il primo aveva ritrovato ancora vivente negli uomini, nelle lettere, nell’eco non spenta delle vicende, nelle stesse confuse prime esperienze culturali». Erano anni difficili, «quando le allusioni e i sottintesi erano più frequenti delle parole sincere»: farne la storia, sotto il nome modesto di cronache, volle significare un «esame di coscienza» sentito come necessario. Questo approccio morale, esposto sotto la cifra cara a Renato Serra nell’avvertenza alla prima edizione delle Cronache si converte in una singolare capacità di visione prospettica, che restituisce, per dirla con il Croce più suo15, il senso diagnostico del fare storia contemporanea, vale a dire storia di «quel particolare passato che si chiama presente»16. Di più. «Fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria», ha scritto l’Adorno dei Minima moralia, il testo appena uscito in Italia per le cure di Renato Solmi, citato da Garin ed evidenziato nll’ultima pagina dell’Epilogo delle Cronache17. La postazione del moralista si configura come un margine, conoscitivamente vantaggioso, che permette, ad un protagonista quale era Garin, di presentarsi come testimone secondario e, una volta costruita questa scena del discorso, di trasformare la massima soggettività nella massima garanzia di verità- Allo stile del moralismo pertiene l’understatement – le formule felicemente dimesse sottolineate da Torrini –; la stessa dicitura di Cronache sarà adottata, appena qualche anno dopo, nell’area crociana, da Bruno Zevi – Cronache di architettura, egualmente nutrienti, parimenti fondative e tali da orientare a lungo con semplicità e mano sicura nel «far vedere le cose», il campo degli studi. Del medesimo segno è il presentarsi non come auctor ma, anche sotto il rispetto iconografico, come le philosophe lisant, lettore innanzi tutto.
Mi ero convinto che studiare un autore significava leggerlo in quanto ci aveva lasciato: leggerne ogni pagina, ogni frammento, fino a farne resultare ogni sfumatura di significato, ogni tensione interna, ogni minima variazione di tono, ogni eco di letture di conversazioni, di polemiche, di contrasti. Fondamentale, per questo, mi sembrava scandire nel tempo testi in apparenza compatti, sottolineare le varianti di senso di un termine, ritrovando oscillazioni, incertezze, conflitti18.

Ecco convogliata, in questo passo, sotto le insegne del saper leggere, la linea filologica De Robertis-Contini, nella rivendicazione e applicazione del filosofo e storico della cultura: anche per Garin, la critica è citazione di tessere testuali, prelievo analitico di parole.
Risulta essenziale, ai fini del discorso che andiamo svolgendo, portare subito una prima testimonianza:
De Robertis mi è stato assai caro, e da lui ho imparato molto … lo conoscevo di vista – abitavamo vicini, a Campo di Marte – dalla fine degli anni Venti. Studente di filosofia io, ma gran lettore di testi letterari antichi e moderni; curioso di storia e filologia, a furia di incontrare De Robertis, mi procurai e lessi la ‘Voce bianca’, almanacco compreso, con quel chiomato ritratto di lui giovane19.

E si tratta di una esperienza decisiva e di lunga durata, se è vero che il debito contratto concerne, insieme con la figura rilevantissima di Serra, il «saper leggere», la centralità del testo, della lettura rigorosa e «strenua» del testo, in vista, per Garin, di un diverso intendere e fare storia della filosofia. Filosofia allargata all’uso sapiente delle fonti letterarie, come ha rilevato il Ferrari20, filosofia «che non si trova solo nei libri di filosofia» (Torrini) tutt’altro; e attenzione filologica al carattere anticipato dei linguaggi letterari o filosofico-letterari – che è l’impasto tipico del primo-Novecento – rispetto a quelli professionalmente filosofici. Di qui la considerazione del Papini leonardiano, così avanti sulla via della curiosità, dell’inquietudine e dell’impazienza teoretica, al Papini dei racconti metafisici prima di Pirandello, o la acuta sottolineatura della rivoluzione linguistica segnata da Pirandello. Il pirandellismo come teoria filosofica è nulla, certo, eppure, «esiste ed ha valore la rappresentazione che il Pirandello ha dato della situazione mentale di una classe, e l’approfondimento e la chiarificazione a cui quella rappresentazione stessa ha contribuito»21. Dove in fondo viene affermata, contro la crociana avversione allo scrittore siciliano, l’idea portante dell’Estetica, che la letteratura sia conoscenza attraverso le rappresentazioni, con il diverso rilievo, s’intende, dato alla determinazione di classe (estranea all’Estetica, ma, come si sa, non a certe applicazioni particolari di essa22). Per ciò che attiene il lavoro eminentemente filologico, non si dimentichi che nel 1954 Garin condivise con il vecchio Papini la realizzazione del primo volume dell’edizione nazionale delle opere del Tommaseo, il testo, sin lì inedito, Sul numero. Molto più importante del generico saggio papiniano su Tommaseo scrittore messo a prefazione, è la nota critico-filologica di Garin dove si faceva la storia di un testo sommerso che attraversa tutta l’opera edita dello scrittore dalmata, puntato sul sogno, da Tommaseo dichiarato al Vieusseux, di un discorso «sul ritmo latente della lingua italiana, e sulla potenza del numero»23. Garin individuava inoltre le fonti filosofiche del testo e ricostruiva attraverso i carteggi col Capponi ed il Viesseux un momento non secondario della cultura fiorentina di metà Ottocento.
E c’è la consapevolezza che le grandi stagioni non sono monocordi ma fanno convivere più modelli, più visioni. Che cosa rappresenta Serra se non l’esemplare della compresenza di due opposti modelli culturali dentro una generazione che intese coniugare in emistichio «Carducci e Marx», la religione delle lettere e il farsi organica al mutamento? Posto il primato della individualità umana, lo smantellamento e la ricostituzione del senso non si dividono i compiti nettamente, ma si combinano nella melodia sorprendente di una stessa personalità. E questo vale anche per l’autore di questa riflessione; moralisti inglesi ed umanesimo entrano in una circolarità trascendentale a partire da una genesi, da quelle first impressions che da un certo momento in poi, Garin storicizza come tali, sempre in funzione anticipatrice24.
L’incontro con De Robertis, al quale sono dedicati due densi saggi a distanza di vent’anni è dunque determinante25. C’è in quelle pagine la testimonianza della complementarità mondana fra la storia del testo e la storia delle idee, perché «le idee non scendono dal cielo» ma neppure la poesia; anche se la riconosciamo già isolata «in quel punto supremo che è folgorazione di bellezza e valore», opera l’esigenza di ricongiungerlo a un tessuto unitario, a un faticoso processo alla ricchezza di relazioni innumerevoli. Ne discendeva la constatazione comune
che esiste un certo livello ove, pur nella diversità dei campi, si ricompongono in unità le opere dell’uomo: che era una forma di umanismo – e stavo per dire di religione dell’umanità – di cui entrambi eravamo seguaci, e che ci permise, per parecchi anni assai belli, di lavorare a fianco nella stessa scuola e con gli stessi giovani26.

Non solo. Considerare la molteplice cultura primo-novecentesca, ancora così ‘calda’, nella mediazione accesa di un protagonista, implicò l’immediato percepirla ed oggettivarla nella sua genesi, cioè tutta versata nei fascicoli di rivista, prima che composta e pacificata a distanza di anni, nella forma monologica del libro. Persino dietro le apparenze delle architetture simmetriche dell’opera crociana, Garin sa individuare, con Gramsci, il vero capolavoro di Croce nella «Critica» e la vera forza che «fu tutta nel saggio, nell’articolo, nella nota» per concludere che «l’unità era data dalla coscienza di un metodo e dalla presenza di un uomo» (Cronache di filosofia). Era il 1955, il saggio era uscito nel 1953 sul «Giornale critico della filosofia italiana», secondo la modalità, analoga a quella crociana, di libri edificati per addizione e sempre aperti a giunte e supplementi. È di qualche anno prima un incidente che si presta ad essere letto quasi come apologo del duplice atteggiamento, fra adesione e lontananza rispetto a Croce, che segna la formazione di Garin. All’uscita dell’auto-antologia di Croce che inaugurava la collana Ricciardi dei Classici Italiani, nel 1951, De Robertis sul settimanale «Il tempo» nel 1951 aveva deplorato il senso dell’operazione (che pure aveva antecedenti importanti, a non dir altro l’auto-antologia carducciana delle Prose27 di sicuro tenuta presente dal Croce) ed indicò invece in Garin lo studioso il quale avrebbe desiderato e saputo realizzare l’impresa nel modo appropriato. Vale la pena soffermarci brevemente su questo episodio che illumina sia il rapporto con l’amico De Robertis sia una idea di letteratura e di cultura in parte mutuata da Croce. Infatti, è di grande interesse la lettera che subito egli indirizza al filosofo e la risposta che ne riceve.

Firenze, 24-XI-51


Illustre Senatore,
vedo su “Tempo”, che non ho l’abitudine di leggere, una colonna di Giuseppe De Robertis, ove si fa parola di me a proposito di Lei in un modo che mi ha sorpreso. Tengo quindi a farLe sapere due cose: che, se anche può essere ambizione di ognuno, che cerchi di lavorare sul serio, misurarsi con i Suoi scritti, non mi è mai passato per la mente di sentirmi qualificato per l’opera di cui parla De Robertis; che, certo, mi sarebbe davvero particolarmente caro essere oggetto di una Sua benevola attenzione per il mio modesto lavoro, ma che le parole di De Robertis mi sono giunte del tutto inattese. Se fosse fondato quel che egli afferma, io ne sarei certo veramente felice, benché consapevole di non averlo meritato.

Nell’archivio della Biblioteca Croce c’è la minuta di una lettera che merita di essere citata per intero:
Caro prof. Garin,
per combinazione la stessa posta mi portò la Sua lettera e il Tempo. L’articolo di De Robertis non meritava di essere scritto. A ogni modo il suo senso è semplice ed è di riprovazione ai Direttori dei Classici per avere incluso quel volume nella loro raccolta. Propone che invece di me la scelta sia fatta da altri studiosi e questo è poco pratico. Le voglio raccontare come è nato quel volume. Il Mattioli già da alcuni anni insisteva perché io lo facessi ed io mi schermivo, tra le altre ragioni, per una sorta di indifferenza a ridurre in brandelli le mie cose che, quali che siano, quando le scrissi mi parvero tutte necessarie. Ma un giorno nella malinconia degli ottantaquattro anni che avevo allora vidi chiaro che immediatamente dopo la mia dipartita sarebbero sorte parecchie antologie delle mie opere e mi spaventai di ciò che sarebbero potuto essere. A paragone di esse, poiché conveniva accettare il difetto intrinseco delle antologie, meglio era forse che somministrassi io stesso a me stesso questa pietanza così poco attraente.
Lei sa quanta stima ho per il Suo ottimo e coordinato lavoro storico e filosofico, e certo, se avessi potuto pensare che le mie cose sarebbero state affidate a Lei, sarei stato tranquillo che sarebbero state curate nel miglior modo. In ciò, ma solo in ciò, il De Robertis ha indovinato il mio sentimento.
Mi abbia con saluti cordiali suo

B. Croce28.


Garin annunciava nella sua missiva la recensione che stava preparando per la rivista «Il Ponte» e che difatti potè essere letta e apprezzata dal filosofo29. Non si può fare a meno, qui, di ricordarne un passaggio suggestivo, in dialogo con il morituro Croce da una parte e con i detrattori di questi dall’altra, in una orchestrazione complessa, in cui si annunciano o ritornano elementi oggetti e figure che costituiscono la riconoscibilità della sua prosa trasparente e solida, funzionale, ma altresì dotata di note costanti, ovvero di una ‘maniera’. Il discorso gariniano, del resto, si dispiega a cerchi concentrici, attrae a sé tutto ciò che si aggira nei dintorni, e mentre illumina il proprio oggetto, altri (suoi) ve ne scorgiamo scintillare. La presenza di Socrate, ad esempio: il silenzio di Socrate, in particolare. La pratica recensoria del Garin si manifesta innanzi tutto, anche in questo caso, come testimonianza di quella lecture bien faite in quanto réel achévement du texte di cui diceva, nel primo Novecento, Charles Péguy, l’autore di Notre jeunesse caro a Boine, ad Amendola, e da considerarsi alle origini della ermeneutica fondata sul saper leggere30. E dunque, come leggere l’auto-antologia di Croce? La risposta contiene l’allusione allo scambio di lettere col filosofo e all’articolo negativo del De Robertis («Un libro, insomma, quale nessun altro, anche se si fosse accinto all’opera, avrebbe potuto comporre…»). Quel libro estremo è l’ultima esecuzione d’autore, «nuovo contributo di Croce stesso alla critica di sé» ed è «l’immagine che egli vuol consegnata al futuro». Esso va letto nel dialogo col tempo e con i contesti ulteriori della ricezione. In quel dialogo medesimo si immette ogni «lettore partecipe» che abbia avuto, volente o nolente, Croce per interlocutore. Anche l’anticrocianesimo è, secondo Garin, una forma storica di crocianesimo. Ed ecco la similitudine sulla quale si vuole attrarre l’attenzione:
Platone che, con buona pace di certi suoi odiernissimi e feroci avversari, resta e resterà il «Filosofo» inesauribilmente aperto, nei dialoghi introduceva sempre Socrate, magari silenzioso, ma ad indicare come, qualunque cosa egli dicesse, fosse pur lontanissima e contrastante con la parola socratica, anch’essa era pur germogliata dall’incontro e dall’urto col maestro indimenticabile. Senza timore di esagerazione può dirsi che ogni pensiero valido in quasi mezzo secolo di cultura italiana ha dovuto impegnarsi con Croce; ed anche chi ha colto frutti fecondi per vie diverse, ha pur egli debito essenziale, perché Croce l’ha costretto a discutere, a chiarire, a vedere a fondo, a render conto di sé31.

La rilevata sensibilità gariniana al contesto, all’occasione in cui va ricollocata una pagina, restituita al nesso fra domanda e risposta, fra azione e reazione, qui si fa immagine icastica (dove la dimensione dialogica investe anche la parola detta in presenza di qualcuno che tace, del silenzio di Socrate). E si tratta di un dato precoce, complementare alla coscienza che la realtà di una cultura, specie nei momenti di crisi, giova ripeterlo, «vive in una tensione costante negli stessi uomini e nei medesimi tempi proprio degli elementi che certa storiografia confina in versanti opposti». Pseudo-categorie, abusi di artifici classificatori, dirà Garin certi facili schemi. È una riflessione che si legge nell’introduzione al libro del 1970, Dal Rinascimento all’Illuminismo, ma essa esprime un convincimento anteriore, che si forma prima, nel vivo contatto con la grande stagione della «lotta delle idee» che rimescolò le carte delle discipline, dei generi, delle posizioni ideologiche, degli schieramenti, dei nominalismi. Croce, il Croce primonovecentesco è la figura dominante di quel paesaggio presentato da Garin come mosso e tumultuoso. Anche nel momento di maggiore distanza, vale a dire nel libro sulla Cultura italiana -fra’800 e’900- dove tutta la concezione idealistica veniva accusata, sulla scorta di Gramsci, di aver «lavorato al distacco dell’intellettuale», rimaneva ferma la convinzione circa l’assoluta rilevanza, nel progetto crociano, dell’aver posto come carattere essenziale del filosofare lo storicizzare:«ossia di aver visto che il filosofare è presa di coscienza critica, raggiunta mediante la comprensione della realtà come sviluppo»32.
Comunque, nei passi citati dalle pagine su De Robertis, quella connessione fra filosofia e letteratura, vissuta e rappresentata nell’inveramento pedagogico, come parola integrale e dialogica, circoscrive nostalgicamente un’epoca. Par di sentire dietro le quinte l’eco di un passaggio centrale del discorso di Gentile del 1923 La riforma della scuola:
[…] i nuovi programmi di filosofia richiedono dagl’insegnanti di filosofia più cultura che idee sistematiche; o almeno richiedono prima di tutto cultura, capacità di leggere i grandi scrittori, che ogni uomo colto, specialmente se uscito dalle facoltà di lettere, dovrebbe essere in grado di leggere.

Per Garin l’attenzione per gli scrittori della «Voce» e prima ancora del «Leonardo», è collegata con la storia della città, di Firenze, colta nel circolo vitale fra passato e presente, nella sequenza dei periodi più belli e fecondi che sono quelli nei quali ciò che viene pensato e scritto rifluisce dai palagi delle accademie negli incontri e scontri nei «corpo a corpo» verso una comunità discorsiva, verso una conversazione urbana – «di una scuola universitaria fatta sul serio le lezioni della cattedra sono il meno» scrive nel ricordo di De Robertis – e uno dei motivi ricorrenti della sua pagina è l’evocazione del passo del Fedro, il dialogo da lui tradotto insieme con la moglie nel 1941 – in cui Socrate argomenta della preminenza della parola orale sulla scrittura, che è muta perché «interrogata non risponde»
Sperimentò allora De Robertis che cos’è una scuola, che ti costringe ad uscire dalla tua cameretta, a andare oltre la muta scrittura che non sa né interrogare né rispondere, come aveva capito così bene il vecchio Platone33.

Del Socrate adorniano, chiamato a chiudere le Cronache, si è già detto. E il Fedro è presente nell’omaggio al caro suo maestro Ludovico Limentani, certo il più socratico dei filosofi, e forse per questo dimenticato, ma non dall’allievo prediletto34. Quando si tenti di conferire un significato peculiare all’interesse di Garin per la letteratura del suo tempo, da Serra a Montale, bisognerà invocare, accanto al fascino esercitato da De Robertis, (e senza sottovalutare la pressione del modello crociano, del coraggio teoretico di farsi critico della letteratura del giorno) l’incidenza del magistero di Limentani: Limentani che nelle sue lezioni non parla di filosofia in senso tecnico, ma di novelle, di teatro, di un articolo di giornale come di un romanzo giallo – in una lettera all’allievo dall’esilio di Dolo dopo che le leggi razziali lo avevano allontanato dall’insegnamento – si dichiarava con mite senso dell’humour «il più christiano dei giudei» perché lettore di Agata Christie. Anche per questa convergenza, va considerato il ruolo che nella formazione di Garin assume il moralismo, e l’esordio nel mondo della ricerca con i moralisti inglesi – argomento «profondamente inattuale»–. Il moralismo, con la forma ad esso organica, quella dialogica, rappresenta infatti lo spazio di tensione dove storicamente si intercettano e si intrecciano, nella tradizione europea ed italiana, i linguaggi della filosofia e della letteratura. «Nell’illuminismo inglese anche ritrovare i confini tra le discipline era ben arduo; dove poesia metafisica letteratura romanzo erano anch’essi filosofia e riflessione politica» (Sessanta anni dopo). Da questo punto di vista si comprende bene l’operatività nel tempo della attenzione originaria al tema morale – studiato e analizzato a partire dalle variazioni delle parole (la sua tesi di laurea è tutta centrata intorno ad uno splendente gruzzolo semantico – il self-love nei Sermons di Butler35), e dal conflitto delle interpretazioni. Lungo un percorso così ricco di sollecitazioni, la funzione-Serra – la malinconia il disincanto – viene proiettata sullo schermo dove campeggia il profilo tragico e grandioso dell’Alberti, in una adesione innegabile di Garin ad un regime notturno della verità che si staglia sulle e dalle tenebre, accanto a quella che procederebbe nella luce de claritate in claritatem.
È lecito affermare che in virtù di questa sintesi, di questi fruttosi andirivieni testuali, al filosofo fiorentino è toccato di mettere in ordine storiografico quello che, con formula incisiva, Boine aveva definito il «caos in travaglio». Magari con puntate letterarie in avanti che ci danno conto del suo gusto letterario.
Nel 1946, ad esempio, in una nota non raccolta poi nelle Cronache, a proposito del Papini leonardiano, della profezia di una «arte della creazione» necessaria, secondo Gianfalco, a lasciarsi dietro tutti i «carriaggi metafisici», ricorreva ad un termine del Whal, il cui libro Existence humaine et trascendence Garin recensisce insieme con quello di Sartre L’existentialisme est un humanisme, nella medesima rubrica nello stesso anno:
si tratta non di un transcendere ma di un transdiscendere, di un degradarsi per entro la natura elementare. Per una rappresentazione letteraria di questo decadere, connesso allo stato profetico, cfr. un singolare racconto de La gazzetta nera di Guido Piovene.

Si procede per diffrazioni preziose, qui Gianfalco-Wahl-Piovene, nientemeno, organizzando un incontro multiplo intorno ad una parola, ad una cadenza che si ripete.
La dimora letteraria è, in tal senso, definita dalla rete complessiva dei testi che non può essere un magazzino di materiali diversi, ma una fitta trama di rapporti che invita a scandagliare la realtà attraverso un’infinità di strade percorse simultaneamente. Ci sono, nella pagina di Garin, dei corto circuiti fosforescenti – è parola di Boine – dove tornano le frasi di quegli scrittori, di quei giovani morituri, di quei «malati», che sono parole che valgono proprio in quanto renitenti alla concettualizzazione, proprio in quanto permanenza di metafore. La presenza di Serra con le esitazioni del suo raffinato sermo humilis, sta ad attestarlo – e sul confronto Serra -Croce intorno alla battaglia di Borodinò di Guerra e pace si è poi soffermato Michele Ciliberto in Serra e Kant36. Di Serra Garin introduce un passo della Partenza di un gruppo di soldati per la Libia dicendo: «C’è, al centro il vecchio problema: la storia. “Ma chi la racconta?” ecco i soldati». E cita:
Vedo gli uomini uno accanto all’altro; mondi ignoti, o che si ignorano. Vedo i soldati che faranno la guerra; ognuno la sua; ognuno con la propria dialettica di paura e di coraggio, di stanchezza e di fame, di istinto e di intelligenza; ognuno con occhi, con episodi, con ideali, con resultati che non si possono confondere, che non si possono sommare con quelli degli altri. Accanto all’azione e alla vita, dei mucchi di carta scritta…
L’uomo che opera è un fatto. E l’uomo che racconta è un altro fatto… Nessuno può raccontare. Nessuno sa. Quelli che torneranno viventi, anneriti e storiditi dai lunghi mesi di guerra, ne sapranno meno di quelli che non tornano, che giacciono sotto la sabbia37.

Ecco, la realtà vissuta, «le tante realtà vissute dai tanti uomini – anche da quelli la cui vita consiste nel narrare la vita degli altri uomini –» e, a fianco, parallela «la storia vera, la realtà assoluta», insomma la cosa-in-sé. Sulla scorta di Tolstoi e di Nietzsche, nel dialogo con la memoria crociana Storia, cronaca e false storie, si pone la questione della testimonianza impossibile, che si sarebbe poi riproposta dopo l’Olocausto, nei termini problematici di una narratologia storiografica, con i lavori di Ricoeur. Serra non sa confutare Croce – scrive Garin – ma Croce, a suo avviso, non sa intendere Serra.
Analogo, per pregnanza, il ricorso a Boine. All’Ignoto di Boine, ai frantumi, alla ferita non chiusa, vale a dire alle figure della discontinuità e della malattia, toccò fronteggiare le filosofie della risposta, nell’età in cui la decisione del valore sembrò giocarsi intorno all’incrinatura che separa la vita e le forme, vissuto e rappresentazione, evento e memoria. Può essere utile ricordare qui quanto aveva scritto esplicitamente Boine a Croce nel chiudere, con una lettera privatissima, la polemica che aveva movimentato nel 1912 la fase della conduzione papiniana della «Voce», tra l’estetica come identità intuizioneespressione, soluzione intelligibile, e l’estetica della fosforescenza, della grandezza ineffabile:
Non procedo aumentandomi; è un ritornare su me continuamente. Son costretto a rifarmi intellettualmente parecchie volte nell’anno. La febbre mi brucia dentro ogni cosa, mi cancella. Dura dei mesi. E quando cessa e mi ripiglio ho dimenticato, ho perduto, e il mondo dinnanzi mi è nuovo ed informe.
Ora lei mi vorrà dannare se talvolta in queste condizioni la libertà, l’attualità dello spirito mi paion chimere e la natura veramente efficace realtà? Il male non è dunque qualcosa che può su di me, che mi soffoca ed annienta? Che è in reale lotta con me – che non si risolve niente affatto come un astratto nel pensiero vivo; che mi sta di contro irriducibile, mi vince anche, positivamente come se il determinismo suo invadesse la libertà dello spirito mio?
Le quali son tutte cose confuse e mistiche ora che le dico, ma violentemente evidenti ad ogni mio risveglio: le prime spontanee idee di ogni mio risveglio. E qui son balbettamenti dei quali le chiedo perdono38.

Molti anni dopo Garin sarebbe ritornato a rileggere Boine. Sul versante della esperienza religiosa, avrebbe apposto una affettuosa introduzione al piccolo carteggio Boine-Unamuno, svoltosi sotto il segno di Kierkegaard e del Chisciotte, e in vista della collaborazione del rettore di Salamanca alla rivista modernista «Rinnovamento». L’elemento che attrae Garin, oltre o forse in ragione dello stile peculiare39, è la posizione di Boine contro l’infinità alienata del concetto e dalla parte della inesauribilità della fluttuante vita. In un saggio del 1987 che accompagnava con altri scritti un libro di immagini e documenti La città di Boine, Garin valutava in termini ormai pienamente storicizzati l’originalità delle intuizioni ed anticipazioni del giovane scrittore, sia pure nella forma incompiuta dell’appunto e della pagina divagante, individuando così il limite, ma altresì il carattere stesso, di quel gruppo intellettuale, nella incapacità di condurre fino in fondo le argomentazioni, forse corrispettivo fatale della allergia ad ogni forma di solidificazione in norma teorica; Garin difatti ricordava la protesta di Boine a Prezzolini per aver fatto della «Voce» una «Civiltà cattolica» del pensiero laico, e la rivendicazione della unità del pensiero rispetto al dirompere dell’esperienza: «la sintesi è del pensare, non dell’agire»40.
Ancor più significativo il posto attribuito al poeta-filosofo Michelstadter innalzato a simbolo del complesso preludio degli albori del Novecento, intanto nell’opera sua singolare e necessariamente ultima – La persuasione e la rettorica – appressamento all’atto supremo della morte volontaria.
Sul binomio oppositivo del titolo e sulla parola persuasione segnata dalla intima ed anticipatrice pronuncia pascoliana (te felice che chiudesti gli occhi persuaso41) Garin si sofferma con distese parafrasi di quel testo suggestivo, che ne conservano, all’interno della sua prosa, in forza di un abile gioco mimetico, il sapore massimo: «la via della persuasione non è percorsa da omnibus, non ha segni, indicazioni, ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice». Ne mette in rilievo le connessioni con la letteratura europea:
Non si può mandare un altro a morire per noi – ci ha ricordato Rilke – ma gli uomini – insegna Michelstaedter – per non morire rinunciano a vivere, temono e fuggono la morte, perché non capiscono che proprio affrontare la morte, è lo stesso che vivere la propria vita, consistere nel presente, fare i conti con la propria nascita, vincerne la maledizione […]42.

Uso sapiente del letterario, dunque. Ma anche, c’è la tensione a convocare una letteratura «che pensa». E precede.
Dalla Retorica umanistica a Michelstaedter e da questi alla nuova retorica di Perelman e di Toulmin – si registra una circolarità attivata dal moralismo e dalla filosofia morale. Forse, in ragione di questo orientamento implicito, il vertice del suo modo di interrogare la cultura contemporanea attraverso la letteratura può essere individuato nel testo dell’’85 Giosuè Carducci fra politica e cultura43. L’inizio è affidato alle solite formule di modestia: «Che cosa può raccontare di un poeta uno storico delle idee […]» (al solito, può raccontare, nel caso di Garin, moltissimo). In questo vero affondo critico, sotto l’apparenza di una semplice conversazione, Garin prende l’abbrivo dal saggio del Limentani Il valore sociale dell’opera poetica di Giosuè Carducci, del 1902, apparso sulla «Rivista di filosofia e scienze affini», una visione integrale del mondo carducciano nell’ambito di una raffinata sociologia dell’arte – lontano dall’Estetica di Croce –- e tale, per la complessità della domanda epistemologica al fare poetico da meritarsi la risposta memorabile del vecchio poeta: «L’opera poetica mia fu un sogno tra di furore e amore e malinconia del quale io oggigiorno non so più rendermi ragione»44.
Si comincia dunque dalla testimonianza autobiografica legata al maestro, e dalla storia generazionale, col ricordare che la poesia carducciana «in anni amari aveva consentito di dire a scuola, ai ragazzi di liceo, con le sue parole, quasi tutto quello che si aveva nel cuore».
Ci si trova presto condotti, per questa via laterale, entro una complessiva ridefinizione critica, densa di implicazioni anche teoriche, tra le più centrate nella coeva bibliografia sul Carducci, che si muove fra approccio diretto al testo e storia della cultura. Intanto sono pagine ricche di notazioni analitiche. La questione preliminare, seguendo le indicazioni dl Limentani, investe l’innegabile risonanza ideologica dell’opera e del personaggio, a fronte della sua riluttanza o allergia alla filosofia, di una sostanziale assenza di un pensiero politico propriamente detto.
Il caso Carducci viene difatti rilevato nella articolata saldatura fra un destino individuale e il destino collettivo di un popolo-nazione, con una immediata ricaduta nell’immaginario nazionale. Si tratta allora di dar conto, da una parte, del punto di fusione letteraria di idee, ideali, miti della società italiana post-unitaria, così come vengono accolti o percepiti in anticipo nell’opera della quale essi costituiscono, per dir così, il combustibile e la riserva; dall’altra ci sono le complesse modalità e linee di fuga che sottendono il viaggio testuale a ritroso verso il pubblico, in una direzione che il suo maestro aveva già definito di assoluta libertà rispetto al «miluogo». Si deve subito aggiungere che la spregiudicata e niente affatto ingenua sociologia del Limentani viene qui aggiornata tramite un concetto critico, assai presente al Garin sin dal 1936, quando era uscito il libro del Binni La poetica del decadentismo. In quegli anni, ricorderà Garin in un saggio determinante per intendere il suo modo di concepire la letteratura, «[…] dalla Francia rimbalzano in Italia e ‘il giovane Hegel’e la ‘coscienza infelice’, e il confronto con Kierkegaard, e i libri di Wahl e Koyré, e sull’onda del riscoperto Dilthey un diverso e più complesso ‘storicismo’»45. Il saggio Alle origini della nozione di poetica, è del 1985, cioè coevo a quello su Carducci, e restituisce il clima culturale per nulla monocolore degli anni Trenta, rappresentato anche da una diversa intellighenzia, non riconducibile alla polarizzazione fra Croce e Gentile, quella dei dedicatari del libro del Binni, Attilio Momigliano, Luigi Russo, Giorgio Pasquali e Aldo Capitini. Nella adesione ragionata al concetto di poetica Garin impegna un patrimonio di idee, rimasto in certo senso non speso, non veramente sviluppato, per l’avvento dell’idealismo e, segnatamente, dell’estetica crociana. Si aggiunga che Garin segue la storia delle edizioni del libro e delle riformulazioni da parte di Binni del concetto di poetica come «coscienza attiva», atte a ricollocare la poesia nella storia, senza annullarne il significato peculiare, nel nesso fra «coscienza, tragica e critica, della storia e della vita, e problemi di linguaggio e di tecnica». Risulta inoltre molto interessante l’osservazione che quel concetto-strumento Binni se lo era man mano forgiato nella continua riflessione sul poeta che maggiormente richiedeva complessità di chiavi di interpretazione, vale a dire Leopardi.
Da parte sua, Garin, nel lavoro di restituzione del senso delle idee-dellapoesia innervanti l’itinerario carducciano, ad esempio individua, dietro l’ideologia dell’Inno a Satana, con la consueta attenzione alla vita e all’individuo, l’eco delle conversazioni all’università di Bologna con l’amico filosofo Pietro Siciliani e persino, contiguo nell’insegnamento ma proveniente da un fronte avverso, con quel «sublime idiota» dell’hegeliano De Meis. Altrettanto fruttuosa vi risulta la storia della ricezione critica, dalla cerchia degli amici e allievi del Carducci, con la quale il poeta interagì e in relazione alla quale divenne se stesso, fino a Russo e a Fubini, in una progressiva stratificazione di acquisizioni e di topoi. C’è naturalmente, anche in queste pagine, il dialogo postumo con l’interpretazione crociana, in presenza di un duplice resistente fenomeno: violento anticarduccianesimo e crescente indifferenza al mondo del Carducci, in un tragitto cronologico che proprio negli anni Ottanta del Novecento fa registrare una – certo non decisiva – inversione di tendenza.
Croce, ricorda Garin, avrebbe voluto includere in una ideale antologia della poesia carducciana il testo in prosa Umanisti – una vera ode agli occhi del filosofo indifferente alle schedature per generi – inserito nei Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale del 1868. È un testo – osserva Garin – che ci mette innanzi alla costruzione di quella immagine mitica dell’Italia che Carducci andava disegnando «e in cui il giuoco della classicità, del cristianesimo e del medioevo è estremamente complesso, ma in cui una frequentazione del Quattrocento, specialmente toscano, ebbe una parte non sempre adeguatamente valutata». Offre una piccola lezione di filologia: al Croce era sfuggito che il testo tenuto in pregio era tratto di peso dallo studio sul Poliziano e quindi non della fine degli anni Sessanta ma del 1863.
Non si può fare a meno, a questo punto, di riflettere, sia pure brevemente, su alcuni caratteri della prosa di Garin, che maggiormente appaiono in sintonia con la tradizione centrata sul poeta dell’Italia unita, e in particolare con il modello di prosa critico-polemica che da Carducci arriva a Croce, il quale, per parte sua, ricordava di aver mandato a memoria, giovinetto, Confessioni e battaglie. Operante è il principio mimetico e la figura ad esso consentanea della sermocinatio – che consiste nel far parlare lo scrittore da trattare, nell’assumere, con o senza virgolette, le parole di quello, salvo le addizioni e curvature e slittamenti che indirizzano il discorso verso il tema da dimostrare. È un evento, la citazione messa in scena, molto frequente nella pagina di Garin, soprattutto in presenza di una consentaneità profonda, ma che fa parte comunque della strumentazione elementare, sempre all’opera, del critico. Questo comporta una qualche difficoltà a definire immediatamente le linee portanti dello svolgimento del pensiero, che va seguìto non nella singola formulazione ma nel lungo periodo, nella sintassi scandita dalla ripresa di tessere compositive, talora trasversali rispetto alla rete dei testi. Torrini ha messo in evidenza la funzione dell’ermetismo, quello antico e quello nuovo, siglato dal Montale di Non chiederci la parola…, attraverso le dichiarazioni dello stesso Garin, a proposito della cultura del ventennio. E si può ritenere che vi sia connessione tra il trobar clus e la sapienza mimetica nell’adottare la maschera linguistica dell’altro per intenderlo, e magari adoperarlo in questa nuova configurazione, proprio perché nella visione di Garin non c’è mai una chiara contrapposizione di modelli culturali, ma un intreccio di posizioni ed intonazioni, si vorrebbe dire di contagi e contaminazioni semantiche, in vista – dirà poi lo stesso Garin con Anders – di quel «denominatore comune accettabile». Colpisce, nei passaggi discorsivi dove più dichiaratamente egli esce allo scoperto col suo personale gusto di scrittore – ciò che accade con maggiore frequenza a partire dalla fine degli anni Settanta e in corrispondenza di una innegabile disposizione memorialistica – la ripresa di moduli stilistici riconoscibilmente primonovecenteschi, tra Serra e Boine. Le tecniche dell’esitazione, della commoratio – vale a dire la ripetizione di un’idea tramite sinonimi o variazioni semantiche contigue, in una specie di surplace amplificante – in quegli scrittori servivano a rappresentare le parole nel loro nascere e man mano comporsi e farsi strada verso il destinatario. Nella pratica di Garin forme analoghe appaiono accreditare l’immagine di un pensiero aperto, tenuto ognora in riparazione, a suggerire – ancora Socrate! – l’origine orale dell’argomentazione, presentata, democraticamente, quasi nel suo farsi condivisa, e dunque sottratta ad un eccesso di auctoritas, solitamente attribuita alla figura separata del filosofo il quale pensa e scrive in solitudine.
Si registra come fenomeno costante, la ripetizione di parole o di forme sintattiche – in particolare l’interrogare ripetuto. E il ritmo generale è dato dall’assemblaggio di coordinate brevi separate dalla pausa del punto e virgola, dalla razionalità esposta nella enumeratio argomentativa messa al servizio del climax di lungo respiro, non icastico, non ternario ma multiplo, aderente cioè al procedere incalzante di un pensiero sempre mobilitato su più fronti.
Si offre, in questa sede, solo qualche esemplificazione, scelta tra quelle dotate di immediata evidenza, in quanto tratta da testi scritti che conservano l’originaria intonazione di discorso pronunciato, nel genere professionale della conferenza o della relazione di convegno. Ed ecco, nel saggio del 1985, si parla, citando Luigi Baldacci, di De Robertis interessato a scoprire dov’è la poesia, non che cosa è. Garin postilla:
Eppure, se non si sa che cosa è un gatto, come si fa a trovarlo? E non si rischia di prendere un topo al posto suo? E a che giovano mai appelli più o meno mistici, se non a fare rientrare dalla finestra tutti i fantasmi (intuizioni, gusti, sentimenti, e così via) cacciati dalla porta? E come si fa se di storia si vuol parlare a separare l’interno dall’esterno? Il dolore che ti uccide dalla pallottola che ti spezza il cuore, dall’uomo che te l’ha sparata, dalla guerra che odiavi e che hai accettato, dalle idee e dagli ideali che hai fatto tuoi o che hai combattuti?

Un secondo esempio, davvero tipico di una prosa equilibratissima eppure sempre increspata, che appare o appena in emersione da un paesaggio interiore inquieto o sull’orlo appena di esso. Il passo è prelevato dal saggio carducciano, nella sintesi dell’explicit che accosta il duplice modulo praticato lungo tutto il testo, anafora- ripetizione, e citazione della parola d’altri, modulo il quale funziona in fondo come un meta-tropo, vale a dire come una retorica obliqua che tiene a bada una retorica frontale da assumere in proprio:
Povero, ingenuo, professor Carducci! Ma da Lidia a Annie, in più d’un «femineo sen palpitante» ritrovò l’equilibrio fra carne e spirito che aveva scoperto con l’aiuto del suo Satana il prorompere della vita e la sempre presente ombra della morte. E ritrovò, fra sogni e memorie, tutti i più bei colori della sua Toscana e le file «de’ cipressi gracili e austeri» che «dentellano del loro verde cupo l’orizzonte settentrionale tinto in colore di perla»: «Colli toscani e voi pacifiche selve d’ulivi/ alle cui ombre chete stetti in pensier d’amore». Ritrovò il fascino delle età passate e la potenza dell’invettiva popolana. Commosse con i suoi sogni e con le sue debolezze; trascinò con le sue illusioni; suggestionò con la sua retorica che era tanta ma che esprimeva spesso sentimenti diffusi, costruì i miti di cui il ‘potere’ aveva bisogno; si conquistò il rispetto col suo onesto lavoro di professore. Fu, non di rado, poeta vero.

Qui la sequenza enumerativa in crescendo, trapassa poi quasi naturalmente nel registro commentativo della testimonianza autobiografica che mescola, non impropriamente, Carducci e Montale:
Per generazione io appartengo a quelli dei ‘cocci di bottiglia’ – come diceva Luigi Russo; a quelli che scoprirono ‘con triste meraviglia’ che «tutta la vita e il suo travaglio» è in «questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Ma giorni fa un amico mi colpì confessandomi che lui, quando era partigiano in montagna, pensava ai versi del ‘Comune rustico’. Mi confermai allora nell’idea che è davvero venuto il tempo di rileggere il Carducci, con la sua retorica ma anche con i suoi valori autentici e il suo non effimero significato. Come scrisse Annie dopo un amaro congedo, forse «di là da un altro ponte, dopo un altro crepuscolo, noi ci troveremo ancora».

La citazione conclusiva (Annie) dentro un discorso riportato da attribuire al Calamandrei – «un amico mi colpì confessandomi…» – che segue un’altra citazione (Russo), viene sottomessa ad un elegante clinamen, in quanto sottratta al significato suo proprio – il congedo della giovane poetessa dal vecchio poeta – e liberamente re-indirizzata, nella pronuntiatio, all’ascolto in presenza.
Si è voluto ricorrere a questi esempi particolari, per tentare di addurre qualche prova testuale, dall’interno, di quella «passione partecipe» orientata verso una certa idea di letteratura di cui si è detto all’inizio; anzi, mostrarla in atto, quella passione, man mano che il critico, tramite la prospettiva memorialistica, si duplica con efficacia nella maschera funzionale dello scrittore Garin e si riconsegna a quel tempo, il primo Novecento, nel quale ebbe origine, appunto, la figura storica dell’intellettuale, con tutto il suo versatile, e organico, armamentario linguistico-retorico.




NOTE
* Ringrazio l’amico Maurizio Torrini per i testi di Garin e le segnalazioni bibliografiche di cui mi ha fatto dono in vista di questa relazione e, tramite prezioso, il carissimo Oreste Trabucco per la rilettura discretamente additiva di alcune annotazioni.^
1 È sintagma gariniano: «… è una modesta cronaca, scritta non senza appassionamento partecipe, di programmi, di riflessioni, di umani sforzi, e anche di idee, di quelle idee che “non sono partorite da altra filosofia, ma che sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale”». Si tratta dell’Avvertenza a Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari, Laterza, 1959, 2ª ed. pp. IX-X.^
2 Cfr. P. Zumthor, Romanzo e storia alle fonti di un universo narrativo, in Lingua, testo, enigma, Genova, Il melangolo, 1991.^
3 Su questo punto, si veda almeno P. Ricoeur, Tempo e racconto. Vol. III, Il tempo raccontato, Milano, Jaca Book, 1988, ai paragrafi del Cap. I, 2. La successione delle generazioni: contemporanei, predecessori e successori, e 3. Archivi, documenti, traccia, pp. 166-191.^
4 E. Garin, Un secolo di cultura a Firenze da Pasquale Villari a Piero Calamandrei, in «Il Ponte», 15 (1959), pp. 1408-1426, uscito, lo stesso anno, anche in opuscolo: Firenze, La Nuova Italia, 1959, poi raccolto in Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900, Bari, Laterza, 1962, pp. 77-101. È la conferenza tenuta il 28 ottobre 1959 nel salone Luca Giordano in Palazzo Medici Riccardi, per l’inaugurazione del Circolo di Cultura di Firenze. E cfr. G. Luti, Firenze corpo 8, Firenze, Vallecchi, 1983, in particolare le pp. 226 sgg. in cui viene dichiarato il debito verso gli studi di Garin sulla cultura fiorentina dei primi anni del secolo.^
5 G. Prezzolini, Il tempo della Voce, Milano-Firenze, Longanesi-Vallecchi, 1960.^
6 Per il diuturno dialogo tra Garin e Bobbio, più intenso di quanto possa far sospettare il materiale edito, cfr. almeno E. Garin, Introduzione alla prima edizione e Premessa alla nuova edizione del suo Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1987, pp. X-XI, XVIXVII. XIX (la prima edizione apparve, sempre da Editori Riuniti nel 1974). Sull’altro versante, cfr., N. Bobbio, Il partito della cultura, in «L’Unità», giovedì 9 maggio 1991, p. 17, dov’è anticipata la redazione distesa del contributo alla miscellanea per gli ottanta anni di Garin, in cui lo scritto di Bobbio è significativamente intitolato Il nostro Croce (in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin, a cura di M. Ciliberto e C. Vasoli, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 789-805): «Le Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin apparvero da Laterza nel 1955, ma erano state scritte e in parte pubblicate a capitoli in rivista alcuni anni prima. Il 1955 fu lo stesso anno in cui apparve il mio Politica e cultura, anch’esso scritto capitolo per capitolo negli anni precedenti».^
7 E. Garin, L’Illuminismo inglese. I moralisti, Milano, Bocca, 1942. Se ne veda, in particolare, l’Introduzione, pp. 1-13.^
8 «Il Croce che ha sottolineato la comparsa in Shaftesbury di una filosofia dello spirito, ha anche rilevato come il ’700 abbia creato per primo un’estetica in senso proprio. E nello Shaftesbury appunto si fa viva questa intuizione della bellezza, questo senso della bellezza che egli con tanta comprensione connette con la moralità»: E. Garin, L’illuminismo inglese…, cit., p. 178.^
9 Cfr. M. Capati, Eugenio Garin, in Cantimori, Contini, Garin. Crisi di una cultura idealistica, Napoli-Bologna, Istituto italiano per gli studi storici-Il Mulino, 1997, p.77. Interessanti, qui, sebbene non sottoscrivibili nelle estreme implicazioni proposte, i rilievi circa la «natura sincretistica» e le «ambiguità» di Garin innanzi tutto «grande autore di ritratti».^
10 Sessanta anni dopo, in La filosofia come sapere storico. Con un saggio autobiografico, Bari, Laterza, 1990, p. 120.^
11 Cfr. almeno H.R. Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, 2. Voll., Bologna, il Mulino, 1988.^
12 G. Sasso, Garin e Gramsci, in «Giornale critico della filosofia italiana», numero monografico Garin e il Novecento, a. LXXXVIII (XC), 2009, fasc. II, pp. 329-377, in part. p. 336.^
13 M. Torrini, Il Novecento di Eugenio Garin. Una premessa, in «Giornale critico della filosofia italiana», numero monografico Garin e il Novecento, cit., pp. 223-233, a p. 227.^
14 Nell’Avvertenza alla prima edizione, in Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 13.^
15 Sulla prossimità di Garin a Croce cfr. C. Cesa, Garin fra Croce e Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», cit., pp. 299-328, in part. p. 312: «Credo che nessun crociano di stretta osservanza avesse edificato a Croce un monumento da stare a pari a quello che Garin gli edificò nelle Cronache, non senza oscillazioni che sarebbe però di valore soltanto cronistico registrare». E cfr. quanto scrive, alla fine del Novecento, Bobbio sul Croce di Garin, che ama dire «il nostro Croce» (cfr. supra nota 6): «Croce è stato un grande moralista, oltre che un grande storico, il grande letterato che tutti conoscono (non sempre riconoscono). Questo è stato, sopra ogni altro il “mio” Croce. E se ho impiegato tutta la vita per convincermene, meglio tardi che mai» (N. Bobbio, Il partito della cultura, cit.).^
16 È la relazione tenuta al Congresso di Filosofia di Oxford nell’ottobre 1930. Cfr. B. Croce, Antistoricismo, «La Critica», a. XXVIII, fasc. VI, pp. 401-409. Con poche non rilevanti variazioni stilistiche fu pubblicato, in italiano, in Proceedings of the Seventh International Congress of Philosophy, Held at Oxford, sep. 1-6 1930, ed. G. RYLE, Oxford University Press 1931, pp. 78-86. Poi in opuscolo insieme con Punti di orientamento della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1931, e infine in Ultimi saggi, ivi, 1935, pp. 246-258, Su questo testo nevralgico dll’itinerario crociano, cfr. E. Giammattei, Croce, Oxford, 1930, in «Intersezioni», 27 (2007), n. 2.^
17 Dei Minima moralia (Torino, Einaudi, 1954) Garin cita il brano intitolato Ai postsocratici, diretto contro la prima philosophia, «dell’ipostasi del soggetto come di un – nonostante tutto – primum», e in nome della necessità di riprendere, «in un momento grave della storia del mondo» l’antico compito della riflessione filosofica, ricondotta da Socrate «dal cielo alla terra» (p. 66).^
18 Sessanta anni dopo, cit., p. 130.^
19 E. Garin, Per De Robertis, in Giuseppe De Robertis. Giornata di studio e mostra documentaria promossa dal Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux, a c. di L. Caretti, Firenze, Olschki, 1985, p. 11.^
20 M. Ferrari, Filosofia e scienze del Novecento. Eugenio Garin e la ‘Distruzione della ragione’, in «Giornale critico della filosofia italiana», cit., pp. 411 sgg. Ferrari si riferisce al ricorso da parte di Garin al romanzo filosofico di Musil L’Uomo senza qualità.^
21 Cronache…, cit., p. 438.^
22 Su questo punto, cfr. E. Giammattei, Per una lettura diacronica della ‘Letteratura della nuova Italia’, in Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 11-71.^
23 E. Garin, Nota critica, in N. Tommaseo, Sul numero. Opera inedita preceduta da un saggio di Giovanni Papini sul Tommaseo scrittore, Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1954.^
24 È stato Giuseppe Galasso a porre per primo la domanda, non ovvia né tanto meno maliziosamente allusiva ad una funzionale retrodatazione del proprio teorizzare da parte di Garin, «se nelle sue notazioni autobiografiche di trenta o quarant’anni dopo non si riflettesse qualcosa di troppo di sue esperienze e idee posteriori: un riflesso fin troppo umano, del tutto comprensibile, e, in ogni caso a sua volta con tutto un suo valore documentario e, quindi, un suo significato storico». G. Galasso, Eugenio Garin, in Storici italiani del Novecento, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 221 sgg.^
25 Il primo intervento è L’insegnamento fiorentino di De Robertis fra guerra e dopoguerra, in «L’Approdo», 10 (1964), fasc. I, pp. 14-28.^
26 Per De Robertis, cit., pp.16-17.^
27 G. Carducci, Prose di Giosuè Carducci 1859-1903, Bologna, Zanichelli, 1904.^
28 Minuta consultata presso l’Archivio della Fondazione della Biblioteca Benedetto Croce.^
29 Ne dà conto C. Cesa, Garin fra Croce e Gentile, cit.^
30 Sulla verità della letteratura a partire dalla lecture bien faite, intesa da Péguy come: «le réel achévement du texte, le réel achévement del’oeuvre; … littéralement une coopération, une collaboration intime, intérieure; aussi une haute, une suprême et singulière, une déconcertante résponsabilité» cfr. G. Steiner, No passion spent. Essays 1978-1995, New Haven-London, Yale University Press, 1996, p. 18.^
31 E. Garin, Croce in un volume, in «Il Ponte», 8 (1952), Primo semestre, p. 78.^
32 Lo rilevò per primo Norberto Bobbio, in una recensione densa, dettata da una profonda consentaneità («Poche sono le persone della mia generazione con le quali mi senta di condividere tanti giudizi come con Garin: prima di ogni altra cosa, l’atteggiamento verso Croce. … Eppure non l’abbiamo mai ripudiato. Le sue opere, se non sono più il palazzo incantato in cui si sciolgono tutti i nodi della misteriosa avventura dello spirito, non sono neppure un cumulo ingombrante di macerie. Ci sembrano, piuttosto, maestose rovine, tra le quali è pur sempre istruttivo aggirarsi per trarne un’ispirazione, uno stimolo, un disegno ideale»: N. Bobbio, Implacabile Garin su due fronti, in «Paese Sera», 7 agosto 1962, pp. 5-6.^
33 Per De Robertis, cit., p. 16.^
34 E. Garin, Ricordo di Ludovico Limentani, in appendice a Ludovico Limentani a Eugenio Garin. Lettere di Ludovico, Adele Limentani e altri a Eugenio e Maria Garin 1940-1956, a c. di M. Torrini, Napoli, Bibliopolis, 2007.^
35 Sulla differenza fra narrow self-love e reasonnable self-love, cfr. E. Garin, Giuseppe Butler, in L’illuminismo inglese…, cit., pp. 187-204.^
36 In Tra provincia ed Europa. Renato Serra e il problema dell’intellettuale moderno, a c. di F. Curi, Bologna, il Mulino, 1984.^
37 Serra e Croce, in Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Ed. Riuniti, 1974 (il saggio era apparso su «Belfagor» nel 1966), pp. 33-46, alle pp. 42-43.^
38 Lettera del 7 gennaio 1913, pubblicata in E. Giammattei, Retorica e idealismo, cit., al cap. Per una metafisica della senilità. Immagini di Croce dal primo Novecento.^
39 Vale sempre, su questo punto, il saggio instaurativo di G. Contini del 1939, Alcuni fatti della lingua di Giovanni Boine, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1979.^
40 Rileggendo Boine, in La città di Boine. Immagini e documenti, a c. di M. Anfossi, D. Astengo, F. Contorbia, Imperia, Centro culturale polivalente, 1987.^
41 È stato Paolo Valesio, in pagine critiche molto belle ed importanti, a sottolineare il nesso letterario e filosofico fra retorica, ascolto, silenzio, e tra la persuasione e la morte e in questo nesso a collegare il sorprendente verso del poemetto L’aquilone («Perché, persuaso? Persuaso, di che? È, questa, l’unica mossa violenta in tutto il poemetto – ma è una mossa decisiva») con il testo di Michelstaedter: Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 419 sgg.^
42 Cronache..., cit., pp. 38-39.^
43 Conferenza tenuta alla Scuola Normale Superiore di Pisa il 28 maggio 1985 nel 150° anniversario della nascita di Giosuè Carducci. In E. Garin, Giosuè Carducci fra cultura e politica, cit., p. 3.^
44 Lettera del 2 novembre 1902, citata da Garin, ivi, p. 3.^
45 Alle origini della nozione di poetica, in Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a c. di M. Costanzo, E. Ghidetti, G. Savarese, C. Varese, Roma, Bonacci, 1985, pp. 9-19. Circa la relazione Binni-Garin, tutta da ricostruire, merita di esser ricordato che la sezione umanistica di «La Rassegna della letteratura italiana» rifondata da Walter Binni dal tempo della cattedra genovese (1948-1956) – e l’azione di rifondazione prosegue negli anni fiorentini (1956-1964) – ha in Garin un non scontato collaboratore; Garin pubblica nella rivista diretta da Binni Le favole antiche [7(1953), pp. 488-516]; Pandolfo Collenuccio umanista [63 (1959), pp. 72-75]; La cultura fiorentina nella seconda metà del ’300 e i «barbari britanni» [64 (1960), pp. 181-195]. Né si tratta di contributi episodici: il primo e il terzo (che è il testo della conferenza tenuta l’11 maggio del 1960 all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, entro il ciclo The Age of Dante) Garin raccoglie in due importanti volumi: rispettivamente in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1954 e L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, Morano, 1969. Su Binni direttore di «La Rassegna della letteratura italiana» negli anni genovesi e fiorentini S. Verdino, La «Rassegna» di Binni nel periodo genovese e fiorentino, in «La Rassegna della letteratura italiana», 101 (1997), pp. 31-41.^
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