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Una buona legge
di
Adolfo Battaglia
Dopo i brillanti interventi che abbiamo ascoltato, temo che il mio risulterà soltanto un piatto contributo di cronaca; teso anzitutto a ricordare come si riuscì finalmente a strappare una legge di cui in Italia si discuteva da trent’anni e all’estero da oltre cento.
Perciò comincio con l’azzardare – anche in presenza dei molti giuristi valorosi qui presenti – una tesi generale sulla produzione delle leggi. Nasce da quel tanto di esperienza politica che mi sono fatto e spero sarà condivisa almeno dai miei amici Zanone e Amato. La mia tesi generale è dunque è che una buona legge – e dunque non ogni legge ma una legge che abbia reale effettività – nasce sempre per la combinazione di quattro fattori diversi.
Il primo è rappresentato da una cultura che presieda alla legge – una cultura non fragile, in grado di interpretare la condizione della società e i venti che spirano su essa. Il secondo è che è indispensabile un progetto tecnicamente solido, che non dia spazio ad un blocco di carattere politico sotto veste tecnica. Il terzo fattore è una volontà politica non puramente dichiarata ma esplicitata e incidente. Il quarto consiste in ciò che normalmente, con significato spregiativo, si chiama compromesso, e che è spesso invece un’equilibrata composizione di esigenze e interessi diversi o contrastanti – insomma un compromesso parlamentare che non sia un pasticcio e abbia sostanza utile.
Se uno di questi quattro elementi manca, ripeto, manca la possibilità di avere una legge di reale effettività . E questa è appunto la ragione vera per cui i progetti di legge presentati da molti nel corso dei decenni, tra cui il ministro Togni, l’on. Malagodi, l’on. La Malfa e altri, non arrivarono neppure all’esame dell’aula parlamentare; alcuni per un motivo, naturalmente, e altri per un altro.
Sul primo elemento. Non è dubbio che alla base della legge 287 è una cultura liberal-democratica: ovvero la concezione riformatrice che punta sull’intervento dello Stato nella vita economica non come gestore ma come promotore e regolatore. Scriveva del resto anche Luigi Einaudi nelle “Prediche inutili†che «è una grossolana favola l’idea che il liberalismo sia assenza dello Stato». E aggiungeva: «che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adam Smith sia il campione assoluto del lasciar fare e lasciar passare, sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma pur essendo grosse bugie sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire superata l’idea liberale». La corsa parte dunque da lontano, da Smith. Fa poi tappa a Tocqueville, a Stuart Mill, a Spencer; poi alla biforcazione tra liberalismo moderato e progressista, ha un primo traguardo nella normativa antitrust americana di fine Ottocento e arriva in Italia, in concreto, da quando Nitti fece la legge speciale per Napoli, e creò l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. La necessità di un intervento dello Stato fu poi la concezione che raccolse Giovanni Amendola negli anni Venti; e ripresa negli anni Quaranta da due uomini importanti della vita economica e morale italiana, il futuro presidente di Mediobanca e il capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale, che fondarono insieme il Partito d’Azione nel lontano 1942. Ma fu anche la concezione di Menichella, di Saraceno, dei riformisti cattolici e laici. Negli anni ’50-’60 la espressero più di tutti il «Mondo» di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi e il Partito Repubblicano di La Malfa. E un momento memorabile fu quel convegno sulla lotta ai monopoli, in cui furono relatori figure importanti del diritto e della politica, da Tullio Ascarelli a Bruno Visentini. Nel complesso, una grande cultura politica, nel cinquantennio repubblicano sempre minoritaria, con le conseguenze che la vicenda stessa del periodo mise in luce.
Questo, dunque, per quanto riguarda la cultura solida che sta dietro la 287. Da quella cultura è partita, e potete immaginare se non sentii qualche responsabilità sulle spalle, appartenendo anch’io a quella corrente politica.
Sul secondo fattore, cioè un progetto solido, rinvierei a quanto ha già scritto ampiamente Alberto Pera nel suo recente saggio per Giuffrè. Aggiungo però un elemento non indifferente. La seconda Commissione Romani era più ampia e rappresentativa di quella nominata da Valerio (vedo qui alcuni degli studiosi che ne fecero parte) e preparò un testo eccellente. Romani era un uomo di intelligenza e rigore straordinari, tuttavia fece un errore pericoloso. Venne da Romani infatti la pressione per non introdurre nel testo della Commissione il tema delle concentrazioni industriali. Il punto non è soltanto che si sarebbe amputata una mano alla nuova Autorità . È anche che questa amputazione avrebbe costituito un grosso errore politico, perché la mancanza di una normativa anti-trust avrebbe privato il progetto di ogni sostegno politico a sinistra, sia entro la coalizione di governo sia entro l’opposizione. Quel taglio avrebbe prodotto, in sostanza, l’ennesimo blocco della legge sulla concorrenza. Decisi perciò di integrare il testo della Commissione e l’autorevole Consigliere di Stato che era il mio capo di Gabinetto, Claudio Varrone, insieme con Alberto Pera, utilizzarono il testo della normativa europea in via di approvazione e prepararono il testo degli articoli 5 e 6 della legge. È da questa integrazione dei testi che nasce veramente la legge 287.
Il terzo elemento cui accennavo, quello della volontà politica. Col Gabinetto Goria del 1987-88, in cui ero ministro dell’Industria, la legge sulla Concorrenza divenne finalmente un punto del programma di governo. A Palazzo Chigi, però, il progetto che avevamo preparato rimase fermo parecchio tempo. C’era una sorda resistenza della Confindustria, che in un apposito convegno dell’Assolombarda si era già espressa contro una legge sulla concorrenza. E non è una malizia osservare che il più grande monopolio italiano aveva chiesto di essere rappresentato nella seconda Commissione Romani e che naturalmente la sua richiesta non fu accolta.
D’altra parte, era Presidente del Consiglio il leader della sinistra democratico-cristiana, Ciriaco De Mita, e più della Confindustria pesavano nel ritardo altri elementi. Con De Mita avevo una conoscenza abbastanza lunga e gli chiesi un colloquio confidenziale per sbloccare la legge. Fui molto stupito quando mi fece presente che il blocco derivava essenzialmente dalla Banca d’Italia... La quale, nella Commissione Romani aveva insistito perché la Banca conservasse i suoi poteri in materia bancaria, ma in realtà , nella riservatezza di Palazzo Chigi, aveva fatto presente che non gradiva un’assunzione formale di responsabilità in materia di controllo delle concentrazioni creditizie perché in sostanza sarebbe stata esposta a pressioni moltiplicate cui non era sicura di poter resistere. Tuttavia il colloquio con De Mita permise di superare l’impasse e il progetto arrivò finalmente al Consiglio dei Ministri.
Qui incontrò una duplice opposizione politica da parte del ministro delle Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani, esponente ascoltato della sinistra democristiana e del mondo sindacale cattolico. La prima obiezione era lievemente puerile: si pretendeva che una legge sulla concorrenza non riguardasse il settore pubblico dell’economia, ma solo quello privato, e dunque fu facile superare quella tesi. La seconda obiezione era seria. Le Partecipazioni Statali volevano che si escludesse l’applicazione della normativa alle imprese di pubblici esercizi in monopolio legale. Il nostro testo prevedeva il contrario. E il dissenso in Consiglio dei ministri portò ad una riunione ristretta, che cito perché l’esito positivo di una discussione, in politica, spesso dipende da aspetti lessicali, o formali. La riunione si concluse in effetti con un accordo semplicemente perché si spostò la collocazione di un “nonâ€. Il mio testo recava: la legge si applica per tutto quanto non necessario allo svolgimento degli specifici compiti dei monopoli pubblici. L’accordo fu che la normativa non si applica, solo per quanto strettamente necessario allo svolgimento dei compiti dei monopoli pubblici. La sostanza era la stessa...
Vengo infine alla questione del compromesso parlamentare, cioè di uno stadio indispensabile alla creazione di ogni legge seria. Ora, al Senato il nostro progetto ebbe il risultato di mettere a fuoco le differenti concezioni che si confrontavano: la concezione di carattere liberal-democratica di cui ho parlato, e la concezione più interventista, o dirigista (di origine socialista o cattolico-solidarista) che dava assai maggiore spazio all’intervento della politica e in concreto, naturalmente, all’intervento dei partiti.
Fu lo scontro tra queste concezioni il filo sotterraneo della discussione parlamentare sui due progetti che si confrontavano. E la mia impressione fu di avere di fronte uno schieramento composito, sì, ma molto qualificato. Vedevo il Presidente della Commissione Roberto Cassola, un esponente della sinistra socialista, preparato, intelligente e capace, che sosteneva il progetto già da tempo presentato da Guido Rossi. Vedevo il gruppo comunista accodato un poco acriticamente dietro Cassola e Rossi. Vedevo il capogruppo democristiano Aliverti, ispirato da quel solidarismo che considera il mercato capitalistico come una cosa che punisce ingiustamente i poveri. Infine, più prestigioso di tutti per competenza e dottrina, vedevo Guido Rossi, il cui progetto di legge differiva profondamente dal mio.
Se si ripercorrono gli atti del lavoro della Commissione ci si accorge facilmente che al di là di aspetti minori lo scontro si concentrò su tre punti, sui quali brevemente mi soffermo (non mi soffermo invece sulla questione della doppia barriera-barriera unica, riguardante i limiti di applicazione della legge italiana in rapporto col regolamento europeo in quel tempo varato).
Il primo punto era quello delle deroghe all’applicazione della normativa sulle concentrazioni. Vi possono ben essere infatti situazioni o ragioni che possono imporre deroghe. Ma chi deve decidere in materia? L’Autorità della concorrenza, che esprime valutazioni competenti di ordine economico e tecnico, o l’autorità politica, che attraverso il governo riflette le esigenze politiche dei partiti? In altre parole, e al di là di visioni dottrinarie, bisognava o no tendere a rafforzare il peso dei partiti sulla dinamica del mercato? Questa era in nuce la questione.
L’accordo che si raggiunse, e che è espresso nell’art. 4 in materia di intese restrittive e nell’art. 25 in materia di concentrazioni, fu a mio parere molto felice. E mentre il testo si deve tecnicamente alla capacità di Claudio Varrone, politicamente si deve, almeno in buona parte, a persona che non si trova mai nominata da nessuno. Leggevo ancora ieri, in un importante quotidiano economico, l’elenco dei molto numerosi “padri fondatori†della 287: Franco Romani, Mario Monti, Sabino Cassese, Alberto Pera, Tomaso Padoa-Schioppa, Guido Rossi, certo tutti ebbero una parte. Ma non vedo mai nominato Alfredo Reichlin.
Reichlin era allora il responsabile economico del Partito comunista. E lo scioglimento del nodo delle deroghe fu dovuto in buona parte al suo intervento esterno. Egli si convinse rapidamente del discorso un po’ brutale che gli feci, domandandogli in sostanza se si doveva pensare che i comunisti erano impazziti: lamentavano ogni giorno invadenze e prevaricazioni dei partiti di maggioranza sulla vita economica e adesso volevano dare nuovo potere al governo democristiano-socialista sulle operazioni di concentrazione industriale?! Non avremmo avuto ogni giorno uno spunto per nuovi episodi di malgoverno?
Ci fu così uno spostamento politico della posizione comunista, che dall’accodamento alla proposta Rossi passò senza proclami ad una valutazione più obbiettiva del disegno del Governo. Ricordiamoci che la legge fu approvata all’unanimità , sia dal Senato che dalla Camera. Ed è alla posizione del Pci che credo si debba, paradossalmente, la non interventistica norma dell’art. 25: che drasticamente limita il potere del Governo alla definizione, in sede preventiva e generale, dei criteri sui quali è poi soltanto l’Autorità anti-trust ad autorizzare specifiche operazioni di concentrazione, in deroga alla normativa generale.
Il secondo punto di scontro investiva egualmente il potere dell’Autorità . Si trattava del controllo giurisdizionale sulle sue decisioni. Un controllo forte, che l’avrebbe indebolita, o un controllo debole che l’avrebbe rafforzata? Il progetto Rossi affidava il controllo al giudice ordinario: con la conseguenza che si sarebbe potuto avere nel merito della questione economica una completa sostituzione del giudizio del giudice ordinario al giudizio dell’Autorità tecnica competente. Tutto il potere alla Magistratura? Era una posizione sostenuta a destra anche dalla Confindustria, sempre contraria ad un potere forte dell’Autorità . Noi, al contrario, volevamo un articolo che affidasse il controllo al giudice amministrativo: essenzialmente, dunque, per questioni di legittimità . E questo rimase fissato nell’art. 35, interamente elaborato dallo staff tecnico di cui disponevo al Ministero, che funzionò in certo senso da battistrada per tutte le altre Autorità successivamente costituite.
Analogamente, ci fu un dissenso sulla nomina dei membri dell’Autorità anti-trust. Il disegno di legge di Guido Rossi prevedeva una nomina governativa, fissando requisiti stringenti. Ma sappiamo tutti che i requisiti sono certo utili ma tanto si stringono quanto si allargano, soprattutto in sede di Governo. E prevalse così l’idea che a designare i cinque membri dell’Autorità fossero i Presidenti delle due Camere. La loro funzione è sempre, naturalmente, una funzione di valore politico. E tuttavia, come punti di riferimento della vita istituzionale dello Stato, i Presidenti delle Camere sono inesorabilmente più lontani dai partiti di quanto possa esserlo un Governo. La nomina dei presidenti dell’Autorità , tutti di provata competenza e indipendenza, dimostra la validità del metodo che fu scelto.
Infine, uno scontro si ebbe alla Camera sull’art. 1, quando una parte della cultura solidarista cattolica mirò a condizionare il principio della concorrenza, che non era allora costituzionalmente stabilito. Si intendeva condizionarlo ai principi fissati dall’art. 41 della Carta, quelli dell’utilità sociale e del coordinamento a fini sociali dell’attività economica privata. Anche in questo caso però l’attacco fu in sostanza respinto e l’art. 1 fissa l’obbiettivo della legge nella “tutela e garanzia del diritto di iniziativa economicaâ€.
L’Autorità gode dunque di una forte e garantita autonomia, che i suoi presidenti hanno contribuito a consolidare. Naturalmente, non è che tutto ciò sia perfetto e non comporti qualche problema; ci sono, anche in dottrina, opinioni opposte. Ma azzardo un interrogativo. Si profilano alternative migliori? E domando: in una situazione come quella italiana, che non è quella americana o quella tedesca, l’ampliamento della capacità di intervento del Governo nella vita economica, insieme al contemporaneo accrescimento del ruolo della magistratura, possono mai essere di qualche giovamento ad un più corretto assetto della concorrenza e del mercato? E d’altra parte, l’organizzazione dello Stato moderno può prescindere da Autorità tecniche di settore? È questo il trend delle amministrazioni pubbliche nei Paesi ad economia sviluppata? C’è chi rileva che ci sono stati interventi partitici anche per le nomine nella Autorità anti-trust. È vero e bisogna combattere con durezza ogni lottizzazione. Ma è sempre un errore buttare il bambino insieme all’acqua del bagno E d’altra parte, non si sono viste, finora, proposte che genererebbero nella nostra materia una qualche diminuzione del potere partitico. Per quanto si cerchino cose diverse dall’Autorità tecnica, non si vedono queste soluzioni nell’aria fresca del nostro mattino italiano.
Vorrei concludere qui. E mi scuserete se, più di vent’anni dopo la legge, mi sono permesso alcuni ricordi attinenti a momenti decisivi dell’iter del progetto. Dopo vent’anni, non mi è sembrato inopportuno ricordare di quante cose è infiorata una legge che debba resistere al tempo. E se l’obbiettivo di questo Convegno è quello di individuare strade che possano ulteriormente migliorare la vita della 287, mi permetterei di dire che i quattro punti da cui sono partito non sono del tutto ultronei, e forse non sono da trascurare. Un’intesa solida, non incoerente e non pasticciata, è quanto fu realizzato da noi vent’anni fa. È auspicabile giunga ora da questo convegno un nuovo contributo al miglioramento di una legge che, in verità , non fu poco faticoso: (è vero Alberto Pera, tu che sei stato uno dei padri veri della legge?) Fu un lavoro faticosissimo.
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