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La Quarta Sponda
di G. G.
“Quarta Sponda” fu, come è noto, una espressione del periodo fascista per indicare l’allora colonia italiana della Libia, in aggiunta alle altre tre sponde (adriatica, tirrenica e jonica) del territorio nazionale. C’era, è vero, in ciò, un certo errore geografico. Una sua “quarta sponda”, infatti, l’Italia l’aveva già nella costa siciliana prospiciente alla Tunisia, ossia nel Canale di Sicilia. Ma l’errore contava ben poco rispetto alla icasticità della definizione di “quarta sponda” per la Libia, che di tutte le colonie italiane era certamente la più popolare, la più sentita come propria da una gran parte degli italiani.
Effettivamente la Libia era, peraltro, in un certo senso, una creazione italiana. Il nome stesso del paese era una invenzione italiana per indicare il possesso dei due territorii, la Cirenaica e la Tripolitania, che, insieme con altri, furono organizzati nella colonia italiana di quel nome e che prima di allora non avevano avuta nessuna unità di questo tipo. Perdutone il controllo, in gran parte durante la prima guerra mondiale, gli italiani lo riacquisirono poi con il fascismo, che vi fece condurre campagne militari in cui si illustrò, come è noto, l’allora generale Rodolfo Graziani. Poi ne fu fatto governatore Italo Balbo, che si appassionò molto al suo compito. Nei suoi anni furono realizzate imprese importanti, dalla redazione di una carta geologica del paese, che ne mise in luce le potenzialità petrolifere, sfruttate solo a distanza di tempo, alla valorizzazione agricola del litorale mediterraneo, con l’afflusso nella regione di 20.000 coloni italiani con le loro famiglie, che ne cambiarono la precedente condizione agraria. Infine, con la disastrosa sconfitta subita nella seconda guerra mondiale l’Italia perse quella colonia, come le altre, e in Libia certamente non ne rimase solo il fiero risentimento che poi Gheddafi fece evocare in un film faziosissimo, ma non del tutto infondato.
Abbiamo ricordato queste poche cose, del resto molto ben note, solo per notare che, come gli altri paesi islamici oggi in fermento nell’Africa mediterranea e nel Vicino Oriente, anche la Libia muove da un passato coloniale (in Egitto semi-coloniale), ma anche per aggiungere che quel passato non spiega più, già da qualche tempo, le attuali condizioni e movimenti di quei paesi, come qualcuno si attarda ancora a sostenere. Condizioni e movimenti attuali sono legati agli sviluppi che in quei paesi si sono avuti nell’ultimo mezzo secolo, e che sono proceduti con nuovi condizionamenti e ne hanno determinati ancora altri.
Si è esaurita in questo periodo quell’onda lunga del «Risorgimento arabo», che a suo tempo Francesco Gabrieli mise acutamente in rilievo, e che a lungo era sembrato prendere la via di sviluppi, per quanto possibile in quei paesi, liberal-democratici e di tipo europeo. Si sono avuti, invece, sviluppi nazionalistici ed estremistici, per un certo periodo influenzati dal comunismo e dal marxismo, poi sempre più da nuove e diverse ondate estremistiche.
Dall’estremismo terroristico degli ultimi anni – quello, per intenderci, egemonizzato e sollecitato da Al-Qaida – la fascia dei paesi tra la Siria e il Marocco è apparsa finora, se non del tutto immune, almeno come non condizionata in misura troppo preoccupante per l’Occidente, e per gli stessi regimi dei paesi arabi più moderati o ritenuti tali. Anzi, a voler essere precisi, neppure il problema palestinese – da ogni parte considerato come il motore di tutti i movimenti e gli atteggiamenti di questa parte del mondo arabo – ne ha poi davvero condizionato in tutto e per tutto la vita; e ciò specialmente dopo la conclusione del trattato di pace israelo-egiziano, ormai parecchi anni fa.
È venuta in luce così un dato fondamentale, e finora non apprezzato abbastanza, anzi decisamente poco apprezzato nelle valutazioni correnti nelle discussioni sull’argomento. Ci riferiamo, con ciò, al dato di fatto, che dovrebbe risultare ormai chiaro e imprescindibile, per cui ciascuno dei paesi di cui si tratta rappresenta una storia a sé, che non si lascia coinvolgere del tutto, né del tutto esaurire nelle categorie generali con cui solitamente si guarda al mondo islamico, e anzi ne fuoriesce da tutte le parti.
Non vogliamo dire, con ciò, che nulla leghi fra loro i paesi islamici, o che varii e importanti aspetti dei loro problemi non si leghino a scenari più ampii di quelli dei singoli paesi. Neppure su ciò può esservi alcun dubbio. Vogliamo solo indicare l’inevitabile preminenza di un quadro proprio e specifico quale contesto immediato e più determinante delle loro vicende. Anche di quelle attuali, dunque, che pure sembrerebbero indicare una simultaneità di fenomeni molto significativa, al di là del quadro sincronico con cui tali fenomeni si presentano.
In questo quadro gli eventi libici stanno primeggiando perché il dittatore libico ha opposto una resistenza che sembrava impossibile dopo i primi giorni della rivolta, quando almeno in Cirenaica appariva che egli aveva decisamente perduto la partita, e sembrava, altresì, che, estendendosi dalla Cirenaica alla Tripolitania, la rivolta avrebbe conservato lo stesso ritmo e tutto si sarebbe risolto in così breve tempo come nella parte orientale del paese. Così non è stato, non sappiamo se solo per la forza sempre conservata da Gheddafi e sottovalutata da osservatori e commentatori esteri, o se perché hanno agito fattori tribali e di altro genere che differenziavano fra loro Cirenaica e Tripolitania e che erano ugualmente ignorati o sottostimati, o se ancora per altre ragioni.
È possibile che, a seguito della rivolta e della relativa repressione, la Libia si divida in due, e che Cirenaica e Tripolitania tornino, perciò, alla loro reciproca autonomia, alla quale le sottrasse la conquista italiana?
Come che alla fine vadano le cose, tenderemmo a non crederlo. L’unità libica è un capitale politico ed economico che non conviene di pregiudicare o di perdere a nessuna delle parti in causa. Qualsiasi compromesso può valere la pena di conservare tale unità. Qui, inoltre, non appaiono in gioco alternative tali da far ritenere che le questioni di principio o religiose o, più latamente, ideologiche siano quelle preminenti. Non si hanno, a quanto pare, manifestazioni riportabili a matrici estremistiche del tipo di quelle di Al-Qaida, né si hanno segni di presenza attiva di quell’antica e dominante formazione musulmana che era in Cirenaica la confraternita dei Senussi, né in Tripolitania si è visto altro che un certo lealismo verso Gheddafi e un contrapposto dissenso.
In gioco, secondo ogni apparenza, è il potere, anch’esso politico ed economico: il potere di un dittatore, al quale si oppone una richiesta di riarticolazione dello stesso potere, che ne faccia partecipi altri gruppi politici. In nome della democrazia e di un regime liberale da instaurare nel paese? Vorremmo crederlo, ma non osiamo. Non vi sono mai state finora in Libia manifestazioni rilevanti di un «risorgimento arabo» in tal senso, e appare più che dubbio che possano essere maturate durante il regno quarantennale di Gheddafi.
Peraltro, proprio la resistenza di Gheddafi induce a ritenere che in Libia ci si sia anche lasciata alle spalle la fase del ruolo politico delle forze armate.
Questo ruolo è stato quello primeggiante nel panorama politico dei paesi arabi dei quali parliamo. Così è stato ed è in Egitto, da Neghib e Nasser fino a Sadat e a Mubarak, con una guida sostanzialmente equilibrata del paese, nonostante gli scarti e un certo avventurismo di Nasser. Così è stato ed è in Giordania con la piena fedeltà dei militari al sovrano, ieri Hussein, oggi suo figlio, prima e dopo del momento tragico segnato dal «settembre nero», che sottrasse definitivamente quel paese all’estremismo palestinese e di altra marca. Così è stato in Algeria, dove solo le forze armate hanno impedito l’avvento di un estremismo islamico dai contorni terribilmente crudeli. Così, in vario modo, in altri paesi. In Libia , invece, come altrove la caratterizzazione militare del potere ha ceduto a una sua caratterizzazione in senso personale, che nel caso di Gheddafi (ma non solo) ben si può definire autocratico; e con ciò sono anche mutati di molto gli assetti e le dinamiche del potere gravitante intorno al dittatore (come si è visto anche con Saddam Hussein in Irak e si vede oggi altrove).
Nella sua politica interna Gheddafi ha, peraltro, condotto le cose non solo stroncando e opprimendo qualsiasi avversario o gruppo ostile. La Libia è stato l’unico fra i paesi arabi a dividere fra la popolazione una parte dei ricchi profitti petroliferi derivanti dal suo ricchissimo sottosuolo, dopo la nazionalizzazione delle compagnie straniere. Servizio sanitario gratuito, salario minimo, estensione del servizio scolastico e altri provvedimenti hanno costruito uno schema di politica populistica che ha molto, e molto a lungo, giovato al regime. La stessa dittatura è stata esercitata fomentando la costituzione di una miriade di comitati locali: esempio tipico di come la partecipazione possa voler dire tutt’altro che libertà e democrazia. Si aggiunga poi che uno sfrenato nazionalismo ha procurato a Gheddafi la grande carta di una passione politica profondamente sentita anche a livello di massa, dopo un lungo dominio coloniale, e questo ha ugualmente e moltissimo giovato all’esercizio pressoché incondizionato del suo potere. Basti pensare al suo “regolamento di conti” col governo italiano, che ha dovuto bere medicine amarissime, non riuscendo per nulla a trovare un giusto registro fra indubbie esigenze di politica estera ed economica la irrinunciabile tutela della dignità del proprio paese (e, tra l’altro, questa è stata una ennesima e grave dimostrazione che il criterio della politica estera fondata sulle amicizie personali, effettive o presunte tali, con leader stranieri, è un criterio infondato, dannoso e soggetto a ogni stormire di fronde). Né, infine, si può negare alla politica del “colonnello” Gheddafi un cinico realismo: dopo il bombardamento americano del 1986, in cui perse una figlia e rischiò egli stesso la vita, egli si è abbastanza distinto e tenuto lontano dai toni del più radicale estremismo islamico, che fino ad allora aveva indubbiamente imitato e incoraggiato.
Che cosa ha allora logorato il potere del dittatore libico? Questo logoramento appare piuttosto recente; è il frutto degli ultimi anni, è figlio della fase finale, non di tutti i quaranta e più anni della dittatura. Deriva, cioè, a nostro avviso, dalle fortissime accentuazioni personalistiche e familistiche, che si sono anche all’estero avvertite nell’esercizio di quel potere; dalla probabile connivenza con gruppi prepotenti e corrotti gravitanti intorno al dittatore e al suo sistema di potere; dalla sensazione che Gheddafi volesse trasmettere il suo potere a uno dei suoi figli, come è accaduto in altri paesi dell’area islamica mediterranea; dalla pesantezza di un regime, al quale non corrispondevano più gli slanci e i benefici del primo ventennio; dal timore di uno sconvolgimento totale e definitivo degli equilibri tribali e territoriali sui quali l’edificio libico si reggeva sia in regime coloniale che dopo; dallo spettacolo sempre più evidente e frequente di un cattivo gusto e di uno spreco e abuso della ricchezza del paese in generale, e in particolare, poi, nei capricci, nelle vanità, nei vizi, nelle intemperanze del dittatore (l’ancora recente viaggio a Roma ne diede una prova cospicua).
Queste specificità libiche si aggiungono a quel tanto di elementi comuni che, come abbiamo detto, pur sussistendo, non bastano a spiegare l’improvvisa e così diffusa agitazione nei paesi dei quali parliamo. A che cosa finora questi paesi siano giunti per questa strada si è visto e si vede negli eventi degli ultimi due o tre mesi, sfociati, infine, nella decisione dell’ONU di adottare misure anche militari contro Gheddafi. E l’Occidente? Gli Stati Uniti, sia pure senza molta chiarezza, sono presenti e agiscono, anche se con opzioni definitive non sempre chiare e, come è comprensibile, varie da luogo a luogo. L’Europa brilla, invece, ancora una volta per l’assenza di un suo energico, chiaro, concreto atteggiamento articolato e operoso sul campo. Brilla anche per la differenziazione subito fatta valere tra le linee dei singoli paesi europei che riflette – come pressoché tutti hanno subito osservato fin dal primo momento – una diversità di interessi e di finalità, in cui si traduce l’effettiva motivazione delle rispettive prese di posizione al di là della pur importante e centrale questione dei diritti umani e delle ragioni di carattere umanitario addotti a determinante effettiva dell’intervento. Il quale intervento non è stato, peraltro, soltanto occidentale, bensì anche auspicato dalla Lega Araba e dalla Lega Islamica, peraltro con incertezze e ripensamenti anche a immediata scadenza (ma su questi aspetti torneremo a suo tempo). Un’assenza o una flebile e non del tutto concorde presenza europea che è stata in ultimo confermata e accentuata dal rifiuto tedesco di approvare le misure, anche militari, che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite alla fine ha deciso. Ciò è, insieme al dato macroscopico degli effetti più duraturi delle agitazioni attuali nei paesi della Quarta Sponda, l’elemento che più riguarda, tocca e deve preoccupare l’Italia, che, a torto o a ragione (ma, sembra, più a ragione che a torto), si è sentita abbandonata a se stessa in un momento così difficile. Fra l’altro, e dopo tutto, la penisola è un ponte fra Mediterraneo ed Europa, e certo non tutti i profughi musulmani si fermeranno nel Bel Paese, né i problemi dell’approvvigionamento di gas e petrolio dalla Libia riguardano solo l’Italia.
Considerato questo insieme di cose, appare ancora più auspicabile che l’azione in Libia sia breve e non porti a situazioni del tipo Irak o Afghanistan (e per l’Italia, che non sia essa a subire i danni maggiori delle sue posizioni in quel paese, certamente più consistenti di quelle di altri paesi, che nell’azione contro Gheddafi possono aver tenuto presente ciò in maniera particolare, come per lo più si dice soprattutto per la Francia e, un po’ meno, per l’Inghilterra, provocando reazioni italiane più che legittime e comprensibili, anche se di non felice esito).
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