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Asterischi
di Giuseppe Galasso
EUROPA: DAL PROCESSO ALLA RETROCESSIONE - L’esilio della storia, e, più ancora, della storicità, dal panorama delle convinzioni correnti in Europa e fra gli europei è finito o dà segno di avviarsi alla fine?
La domanda nasce dal constatare un certo attenuarsi di quel “processo all’Europa”, che ha riempito così a lungo le cronache culturali e politiche. Appare perfino lecita l’impressione che al “processo” si vada sostituendo una drastica limitazione del ruolo europeo nella storia del mondo (una volta si parlava, con rude impertinenza, di “storia universale”). Limitazione alla quale si accompagna un’esaltazione al limite dell’inverosimile, e, comunque, oltre il credibile, del ruolo svolto da altri gruppi umani. Che cosa non hanno scoperto o anticipato la Cina e i cinesi? Che cosa l’India e il mondo islamico non hanno insegnato agli europei? Cosa hanno da invidiare gli imperi dell’America pre-colombiana o quelli africani del Golfo di Guinea o quelli di Gengis Khan e dei suoi successori agli antichi imperi mediterranei, a quello romano o a quelli delle moderne nazioni europee?
Certo, questa, per così dire, retrocessione europea nel quadro della “storia universale” può essere preferibile al processo, ma non c’è da esserne molto convinti. In entrambi i casi si mantiene, infatti, in piedi il divorzio tra l’Europa e la storia, tra gli europei e la millenaria e, per tanti versi, epica loro vicenda, che ha portato a una globalizzazione della civiltà ben prima che da ultimo si affacciasse alla ribalta la globalizzazione dei mercati, della produzione e delle tecniche (e a parte che anche l’attuale globalizzazione era iniziata già dalla scoperta – europea – dell’America, poco più di cinque secoli fa).
Denigrata o rimpicciolita, insomma, l’alternativa è dura. È anche fondata?No, e non vale a renderla più accettabile quella che sembra una generale cedevolezza degli europei al diffondersi del nuovo capo di imputazione contro di loro, formulato come un richiamo a verità storiche calpestate dalla presunzione europea. Così, oltre che sterminatrice, divoratrice, devastatrice, rapinatrice e via dicendo, l‘Europa appare anche come usurpatrice, falsificatrice, millantatrice, mistificatrice, vanagloriosa di una superbia senza fondamento. Che guadagno c’è? Né la cedevolezza degli europei ai nuovi luoghi comuni su una loro parte tutt’altro che primaria nella storia mondiale promette di riuscire meglio della cedevolezza mostrata per il “processo all’Europa” a ottenere una migliore considerazione da parte dei nuovi araldi degli “invidiosi veri” di una storia riveduta e corretta al largo dalle coste (storiche) dell’Europa.
Il punto rimane, quindi, lo stesso. La storiografia e lo storicismo sono state espressioni culminanti nella vicenda del pensiero europeo, e con essi l’Europa largamente si identificò ai tempi della sua ancora trionfale marcia nella storia del mondo. Poi storia e storicità si sono appannate sull’orizzonte europeo, e altri punti di vista metodologici e critici ne hanno preso il posto. Per quanto si può giudicare, la crisi dell’Europa – quella che Husserl perfettamente definiva «crisi delle scienze e della coscienza europea» – è intimamente connessa e fa tutt’uno con l’oblio in cui appare caduta la vecchia convinzione europea della storia come campo della considerazione più umana e più valida delle cose del mondo e dell’uomo; e da essa discendono anche le tante e paralizzanti incertezze (il termine è eufemistico), fra le quali procede oggi lo sforzo di costruzione dell’Unione Europea.
Non vale obiettare che i libri di storia, i romanzi storici, trasmissioni televisive e radiofoniche, film su figure e temi storici e simili altre cose non abbiano mai smesso e continuino ad avere una circolazione o un ascolto e perfino un mercato molto favorevoli. La storia-consumo è un conto, la storia - idea ne è un altro. Si rifletta, del resto, su quale ormai infima parte abbiano oggi i soggetti storici nelle arti figurative, per lo meno della seconda metà del ’900, tranne forse che per l’arte “pompiera” di qualche regime o partito in ritardo culturale; e si faccia il paragone con quel che la storia è stata nell’arte europea, dallo stupendo mosaico (tanto per dirne una) di Alessandro Magno nella battaglia di Isso al desolato e stupefatto racconto di distruzione e di morte della Guernica picassiana.
Morale? Finché continuerà a piangersi addosso perché un giorno è stata grande e potente, l’Europa non andrà da nessuna parte. Potrà avere l’effettiva speranza di una parte storica meno marginale di quella che oggi le sembra riservata solo un‘Europa riconciliata con la storia, e, innanzitutto e soprattutto, con la propria storia. Che non è precisamente né la storia-mercato, né, tanto meno, quella storia ideologica e rinnegatrice di cui ci dovrebbe aver saziati il recente passato europeo.


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ROUSSEAU: IL CONTRATTO SOCIALE - Di quanti scrittori i giudizi che se ne danno sono quanto mai divergenti? Per Jean-Jacques Rousseau lo si può dire anche di più. Padre fondatore dell’idea moderna di democrazia per gli uni, progenitore prossimo dei molti totalitarismi del XX secolo per altri. Padre del giacobinismo robespierrista e del conseguente Terrore nella rivoluzione francese, oppure vero fondatore della democrazia borghese. Individualista libertario o, al contrario, moralista del conformismo sociale. utentico illuminista, o, invece, antilluminista e già tutto romantico. Genio teorico della pedagogia moderna, oppure iniziatore della dissoluzione dei fondamenti dell’azione educativa nel mondo di oggi.
Quel che non è dubbio è, però, il suo rilievo nella storia sia del pensiero e delle esperienze politiche, sia della filosofia. Basta, al riguardo, il debito dichiarato verso di lui da Immanuel Kant, a sua volta autentico iniziatore del pensiero contemporaneo. Era stato Rousseau a svegliarlo dal suo sonno metafisico in materia di morale, così come David Hume in materia di conoscenza. Ma per la morale la questione era in Kant molto più importante. Era, infatti, qui che egli doveva recuperare la dissoluzione di schemi e valori universali operata da lui con la sua «rivoluzione copernicana» in materia di conoscenza. Rousseau fondava la sua morale sul sentimento. Kant capì che non si trattava di sentimentalismo, ma del sentimento della dignità umana, per cui il senso morale è ciò che rende l’uomo appieno e degnamente uomo. «Io sono uno studioso – scrisse – e sento tutta la sete di conoscere che un uomo può sentire. Un tempo credevo che questo costituisse tutto il valore dell’umanità, e disprezzavo il popolo ignorante. A farmene ricredere è stato Rousseau. Quella illusione di superiorità si è dissolta. Ho capito che la scienza è inutile, se non vale a mettere in valore l’umanità».
Si è detto che Rousseau supera tutti gli altri filosofi francesi del suo tempo, ma ciò vale largamente anche oltre i confini francesi. Ricordare Rousseau solo come pedagogista o filosofo politico è, dunque, riduttivo. Certo, il Contratto sociale è al centro del suo pensiero, ma non è l’espressione esclusiva delle sue idee, che su religione, educazione, virtù, libertà, natura, uguaglianza e altro vanno seguite in tutti i suoi scritti di rima e di dopo e non fanno capo solo al Contratto. Tra l’altro, come quasi mai si dice, Rousseau è, se non il primo, certo uno dei casi più rari di intera presenza di uno scrittore politico nella sua opera. Forse, è nei suoi scritti più personali (le Confessions, uno dei grandi libri della tradizione autobiografica europea, e le bellissime Rêveries, o Rousseau giudice di Jean-Jacques) che, per alcuni, bisogna cercare la chiave anche del suo pensiero politico.
Difficile è pure dire quale opera di Rousseau abbia avuto maggiore influenza nel suo tempo e dopo, ma certo è al Contratto sociale che per questo bisogna soprattutto rifarsi. Nella rivoluzione francese non bisognò aspettare l’ora di Robespierre per una sua presenza ispiratrice. Già nella «dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 l’articolo 6 affermava che «la legge è l’espressione della volontà generale»; e la «volontà generale» è il maggiore pilastro teorico del Contratto sociale.
L’idea di un “contratto”, storico o teorico, a base della società era radicata da tempo in Europa. Per Rousseau, l’uomo è felice e libero nello stato di natura, ma a un certo punto «tale stato di natura non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse le condizioni della sua esistenza». È il contratto a legare gli uomini riuniti in società fra loro e nei loro rapporti col governo. Esso non è stipulato tra gli individui che formano la società, e tanto meno fra costoro e un qualsiasi sovrano. Il contratto unisce tutti a tutti, ed è in ciò che consiste il vincolo sociale. «Ciascuno di noi – scrive Rousseau – mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, in quanto corpo sociale, riceviamo in esso ogni membro come parte indivisibile del tutto. Ogni consociato si unisce a tutti e a nessuno in particolare. Non obbedisce così che a se stesso e resta libero come prima», e il governo non può avere interessi diversi da quelli del corpo sociale e dei suoi membri.
Quello della volontà generale, vero e solo possibile sovrano della comunità, è senza dubbio il concetto politico più originale, ma anche più complesso di Rousseau. Per lui la volontà generale non è una volontà articolare conforme a interessi particolari, ma non è neppure la volontà di una maggioranza, che sarebbe sempre una volontà parziale, e addirittura non è neppure la volontà di tutti, che è una mera sommatoria delle volontà individuali, e pur sempre rispondente, nella sua composizione, a interessi particolaristici. La volontà generale è di una qualità diversa, non è un fatto quantitativo, ha un carattere tutto morale e obbedisce solo all’interesse generale del corpo sociale, che essa, e solo essa, esprime.
A rigor di termini, in teoria, perfino la volontà di una sola persona potrebbe esserne interprete ed espressione. Tutto ciò renderebbe, però, difficile l’esercizio della sovranità da parte del corpo sociale nella sua interezza, e soprattutto renderebbe difficile riconoscere la volontà generale, che, infatti, è sempre stata l’idea di Rousseau più bersagliata, se non derisa, dai suoi critici. Egli aveva in realtà avvertito il problema e aveva suggerito il criterio della maggioranza come volontà dei molti quale mezzo empirico per riconoscere la volontà generale, purché tutti i cittadini avessero ed esercitassero il diritto di voto.
Un compromesso, dunque, che non impedì di obiettare a Rousseau che le sue teorie postulavano una democrazia diretta adatta solo a piccole realtà come la sua natia Ginevra. Anche questo appare, però, lontano dal suo reale pensiero. La forma del governo si lega per lui alle situazioni locali, come ben si vede nei suoi scritti sulla Polonia e la Corsica. In effetti, è sempre da ricordare che la misteriosa «volontà generale» è definita da lui come espressione dell’interesse generale, distinta anche dalla volontà di tutti. Essa è la volontà sia di tutti che del corpo sociale nel suo insieme. Un concetto che, per noi, porta Rousseau, in modo paradossale, ma non illogico, dalle rive del collettivismo decisionale o dell’eventuale e possibile unico interprete della volontà generale alle rive del liberalismo degli interessi generali, che i grandi liberali hanno spesso riaffermato come misura del carattere liberale di un’azione politica e di governo.
Si tratta, quindi, di una democrazia estrema, ma praticabile, in cui il governo è un problema secondario, perché prioritarie sono la libertà e la sicurezza garantite dalla volontà generale, nonché la solidarietà del corpo sociale da perseguire con l’educazione, la religione, la pratica di un ideale di civismo e di patriottismo, di austerità e di virtù. Che tutto ciò abbia portato a interpretazioni collettivistiche o totalitarie del suo pensiero si può capire, ma Rousseau merita una ben maggiore fedeltà. Neppure sul piano sociale lo si deve fraintendere. «Volete rafforzare lo Stato? Fin dove è possibile avvicinate gli estremi, eliminate miseria e opulenza, condizioni ugualmente funeste per il bene comune»: è ancora il Contratto sociale, e, dopo tutto, è quel che liberalismo e democrazia fanno o dovrebbero fare anche oggi.


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STRAUSS-KOJÈVE: LA TIRANNIDE - Quale tema più congeniale al Novecento di quello della tirannide? E quale tema di più spontanea evocazione della tradizione classica, greca e romana? Nella loro discussione Leo Strauss e Alexandre Kojève (Sulla tirannide, a cura di Gian Franco Frigo e con introduzione di Davide de Pretto, ed. Adelphi) rinnovarono, partendo dal dialogo di Senofonte Gerione, quell’antichissimo tema, e ne discussero in rapporto ai problemi del loro tempo. Non bisogna, tuttavia, lasciarsi ingannare dal significato letterale del tema, sia pure robusto, della tirannide. Andando appena un po’ più a fondo, si vede subito che il discorso sulla tirannide rinvia a quello sul rapporto tra politica e filosofia. Anzi, rinvia, ancora più a fondo, al dilemma che tanto affascina tanti da troppo tempo in qua, e cioè se dalla modernità siamo o non siamo passati alla postmodernità, e rinvia pure all’ancor più drammatico (davvero?) quesito se addirittura non sia finita, oltre alla modernità, la storia stessa, e, con essa, ahilei!, la filosofia.
Da pensatori come Strauss e Kojève, non vanno pretesi insegnamenti globali. Se li si pretendesse, il risultato sarebbe poco meno che catastrofico, e ciò anche perché, in realtà, il loro pensiero è chiuso nei limiti non solo cronologici, ma soprattutto di orizzonte teoretico ed etico del secolo in cui vissero. Che non fu affatto il “secolo breve”, di cui si favoleggia, e, invece, è stato tale che solo in qualche altro caso la radicalità delle alternative presenti e operanti sulla scena storica è stata così drastica e condizionante. Ora, un elemento sorprendente è che proprio dai pensatori più legati alle particolarità negative di quel secolo si creda di poter dedurre gli ammaestramenti più utili al nostro tempo. Un esempio forse ancor più eloquente di Strauss e di Kojève è la generale santificazione nell’Olimpo del “pensiero per sempre” di Carl Schmitt, che con l’uno e con l’altro dei due, e soprattutto con le negatività del presunto “secolo breve”, ebbe molto a che fare. Ma soprattutto dovrebbe essere il maltrattamento della storia, sia come idea della storicità che come lavoro storiografico, a denunciare oggi le valenze infeconde di quella riflessione. Ed è per ciò che in questi casi è opportuno e proficuo badare alla specifica capacità dei singoli autori non di impartire lezioni generali, ma di fornire spunti teorici o storici vivi e illuminanti, oppure fonti di reazioni per qualsiasi motivo rilevanti.
Nel caso della discussione fra Strauss e Kojève il punto principale era il rapporto tra filosofia e potere e, più in generale, tra filosofia e società: un rapporto conflittuale e inconciliabile per Strauss, e, invece, di totale risoluzione nella politica per Kojève. Questi era condizionato dai suoi studi sulla dialettica servo-padrone in Hegel, che gli faceva ipotizzare uno stadio finale di universale e omogenea tirannide, in cui ognuno riconosce ogni altro insieme come servo e come padrone. In questo senso, e non in senso assoluto, va, dunque, inteso il riconoscimento di uomo libero per tutti a cui porterebbero per Kojève il compimento e la completa confluenza e coincidenza del progresso filosofico e di quello politico. Certo, l’apertura di Strauss è più vivificante, legata com’è a una sua maggiore indipendenza dalle dottrine di Hegel (Hegel/Marx). Strauss stesso, tuttavia, riteneva che «ogni ‘regno della libertà’ non sia che una provincia dipendente in seno al ‘regno della necessità’», ossia che «esista un ordine eterno e immutabile all’interno del quale si svolge la Storia, e che non è in alcun modo affetto dalla Storia». Per Kojève, invece, «l’essere si crea nel corso della storia» e l’Eterno «non è altro che la totalità del tempo storico, cioè finito»; e come si crea l’essere, così si crea e muta nel corso del tempo la verità.
Per entrambi, dunque, un ordine superiore, logico o di fatto, trascendeva la vicenda storica e omogeneizzava il ruolo dell’uomo e, soprattutto, la sua libertà nella storia. Ma l’apertura di Strauss all’indipendenza della filosofia e l’apertura di Kojève alla creatività della storia sono esempi di quel che di buono si trae anche dall’arcigna, e spesso astrusa, prosa di due pensatori di un certo rilievo, una volta che quella prosa venga spogliata dei suoi fondamenti dogmatici e assolutizzanti, e tratta fuori dalle ristrettezze e dalle inopie del loro tempo.
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