Storia e storiografia. Una microriflessione estemporanea
A Maurizio Torrini, con amicizia anche storiografica
1.
È ancora e sempre profonda la convinzione che nella storiografia quel che conta siano le partizioni cronologiche e disciplinari. Opposta è la convinzione per cui l’essenziale non sono queste convinzioni, bensì i problemi che si affrontano. Ne deriva, altresì, che è, dunque, in relazione a questi problemi, non alle convinzioni dell’accademia o alle prescrizioni della prassi disciplinare che lo storico fissa i termini cronologici e tematici della sua ricerca.
In questa prospettiva una storiografia che non abbia al suo centro e nella sua dinamica un problema o un nucleo organico di problemi lascia fuori di sé l’essenziale della considerazione storica, ossia, in ultima analisi, il suo nesso con la realtà , con la vita, che procede, muta e si svolge, attraverso particolari problematiche, circostanze e congiunture e nel loro superamento e scioglimento, secondo un senso complessivo. Un senso che, a sua volta, nasce da quei superamenti e scioglimenti e si determina nel tempo a posteriori, non già a priori: come, per così dire, un risultato della storia, non secondo i disegni preordinati di una qualsiasi teoria o dottrina o filosofia della storia. Un senso che, per ciò, postula un intimo rapporto e un nesso organico della storiografia con la realtà e con la vita, sia per la matrice e per la genesi dei problemi che si pone, sia per il senso che essa ne chiarisce.
Una tale storiografia postula, peraltro, tutto ciò che la storiografia accademica o pura o come altrimenti la si voglia definire richiede, a cominciare dalla preoccupazione delle fonti e della relativa critica ed esegesi. La storia si fa e si può fare unicamente su solide basi documentarie, e la filologia non solo dei documenti, ma nella più larga accezione possibile del termine, è una dimensione imprescindibile della storiografia, comunque concepita o orientata.
Di conseguenza, non appaiono essenziali per il lavoro dello storico le questioni della breve o lunga durata, del livello storico superficiale o profondo al quale ci si debba mantenere (o si proclami o si rivendichi di mantenerla), della specialità da coltivare. Durata, livello, specialità sono determinati dai problemi che lo storico si pone, o, per meglio dire, dal modo logico, dalla metodologia del suo porseli. Non c’è, dunque, una gerarchia di dignità storiografica: il senso della storia sta nei massimi come nei minimi aspetti del suo corso, e particolari sviluppi settoriali o tematici possono essere più significativi, più ricchi di senso storico, che non le manifestazioni comunemente ritenute eminenti. Come nella realtà e nella vita, tutto, insomma, si riflette in tutto, perfino quando la materialità del riflettersi manca o non appare.
2.
Tutto ciò apparirà più chiaro se ci si ferma sul punto essenziale della genesi dell’attività storiografica. Un’attività che si ritrova in ogni condizione umana, individuale e collettiva, di qualsiasi tempo e paese, perché è insita nella struttura stessa dell’essere umano e delle società umane. Essa è, infatti, inerente alla necessità di postulare e sentire la propria identità come pre-requisito imprescindibile di ogni presenza e azione dell’uomo nella sua costitutiva e fondamentale dimensione temporale. La propria collocazione storica e la percezione che se ne ha sono, perciò, il punto genetico, di partenza esistenziale e coscienziale sia delle società che delle singole personalità umane. È da questa spinta del presente e nel presente che muove l’interesse alla storia. La quale si svolge nella sua successione temporale dal passato al presente, mentre la storiografia segue il cammino inverso dal presente al passato sotto l’impulso derivante non solo dai problemi generali della propria identità , da definire oltre che da vivere, ma anche dai problemi, per così dire, particolari e specifici del momento e del contesto storico che di volta in volta si sperimenta e si vive. È stato perciò detto ottimamente che «la historia no es sino otra forma más de pensar el presente», e che «el presente siempre es historia», secondo le belle parole di Pablo Fernandez Albaladejo, del 1946. Parole – sia detto per inciso – che danno ancora maggiore senso all’affermazione, che apparve singolare e che fu ed è tanto discussa, ma è semplice e assolutamente realistica, di Benedetto Croce, che ogni storia è storia contemporanea, quando viene fatta oggetto del pensiero storico.
Peraltro, pur nascendo in organico rapporto con i problemi della realtà e della vita, e chiarendone il senso, la storia non è e non può essere
magistra vitae, come vuole una tradizione tanto antica quanto perdurante e sempre viva. Le sue sono profezie del passato, non del futuro. Il futuro nasce dal presente per la creatività , insieme inevitabile e imprescindibile, di chi vive e agisce nel presente. La storia illumina le condizioni in cui ci si muove, non ne trae ricette terapeutiche, così come il passato condiziona il presente, e, quindi, anche il futuro, ma non lo determina, non stabilisce tutti i binari e i tracciati fra i quali il presente, per ampio e profondo che possa esserne il condizionamento, procede.
Anche qui soccorrono considerazioni già fatte da tempo dai pensatori che si sono interessati a questi problemi, dal Croce che afferma il valore preparante, ma non determinante della conoscenza storica nella vita del presente e nella sua proiezione verso il futuro, ad Hannah Arendt, per la quale il passato illumina il presente, ma non lo determina. In altri termini, la conoscenza storica ci porta a illustrare il contesto e, quindi, anche il condizionamento storico entro il quale ci muoviamo. Come e in quale direzione svolgere il contesto e il condizionamento proprio della nostra collocazione storica è materia di altre e nuove direzioni del pensiero e, in ultima e suprema istanza, della volontà .
Chi fa storia sa, perciò, di avere a che fare con il presente nei riflessi che vi proietta il passato, ma anche di non poter scrivere del successivo corso di quei riflessi, e tanto meno di ciò che di nuovo, e molto o poco diverso, sorge nel presente e si fa strada verso il futuro.
Detto in altri termini, la storiografia scrive anch’essa il presente e ne è parte essenziale e indefettibile per la consapevolezza storica del proprio tempo che essa forma e sviluppa; e per la determinazione di questa consapevolezza è, quindi, un’opera di pensiero, che agisce in tutta la vita civile e la incrementa. Non per questo, tuttavia, la storiografia è di per se stessa, direttamente, ossia in quanto storiografia, un’arma o un momento dei confronti e delle lotte della vita civile. Se lo diventa, cambia natura e va giudicata con altri metri e rispetto ad altri elementi di giudizio.
3.
Non è facile, peraltro, precisare e dettagliare in modo del tutto perspicuo e persuasivo questo discrimine fra una storiografia sempre pienamente calata nella vita civile e nelle sue dinamiche e dialettiche, ma opera di pensiero e di scienza, e una storiografia nella quale la dimensione fondante e condizionante di pensiero e di scienza è subordinata a intenti di presenza e di diretta partecipazione alla vita politica e sociale in funzione degli interessi e aspetti contemporanei, attuali e immediati delle circostanze e del momento. In altri termini, una storiografia neutra rispetto alla realtà storica in cui si forma e opera, fredda opera di erudizione e di dottrina, è una astrazione irrealistica, che in via di principio sarebbe da respingere anche quando fosse tentata. Tuttavia, altro è l’opera di scienza e di pensiero in cui la storiografia consiste, altro è concepire l’esecuzione di una tale opera ai fini della lotta politica, sociale, culturale del proprio tempo e in funzione delle parti che in tale lotta si assumono. La storiografia non è mai neutra, ma può e deve essere indipendente, obbediente solo a se stessa, nei suoi principii e nei suoi svolgimenti rispetto a quella lotta, ai suoi strumenti e alle sue esigenze.
Una condizione non facile, certo. Eppure, per la storiografia, naturale, originaria. Ma se è lo storico a individuare e scegliere, secondo quanto abbiamo detto, cronologie e tematiche del suo lavoro, la sua non è anche un’operazione ad altissimo tasso e rischio di soggettività ? Certo, lo è. Soggettività , però, non arbitrio. Allo storico, che per suo statuto non solo professionale, ma logico e metodologico, dev’essere indipendente nella sua libera soggettività da condizionamenti ideologici o di qualsiasi altro genere, l’arbitrio è vietato, in primo luogo, dalla unica dipendenza che egli deve ammettere e alla quale debba uniformarsi, a pena di uscire, altrimenti, dal terreno e dal piano della storiografia: la dipendenza, come abbiamo già notato, dal documento e dalla filologia dei documenti. Ma non è solo il documento a vincolare lo storico a un esercizio rigoroso e non partigiano, o prevenuto, o interessato, o altrimenti poco commendevole, del suo ufficio. Le storie sono oggetto di un dibattito costante. Qualsiasi affermazione dello storico trova negli altri storici un controllo vigile e competente. Non per nulla, il dibattito storiografico è stato in ogni tempo una delle manifestazioni più intense e più significative e rivelatrici della storia in corso.
4.
Manifestazione, e, quindi, documento. Ecco un altro punto da mettere in evidenza. Essenziale è la distinzione tra storia e storiografia, o, secondo la terminologia del Croce, tra la storia come azione e la storia come pensiero. In quanto, però, opera di pensiero la storiografia documenta il proprio tempo sia quando viene impiegata come arma di lotta e al servizio delle lotte del suo tempo, sia nella sua propria e più rigorosa fisionomia di esercizio indipendente e non strumentale della funzione alla quale risponde. La storia della storiografia è, perciò, una dimensione essenziale della storia culturale e civile di ogni tempo e di ogni paese o popolo.
Nella storia della storiografia questo suo aspetto di documento e di testimonianza non sempre è tenuto nella considerazione dovuta. Una tendenza molto diffusa porta a sottolineare, bensì, nei lavori degli storici le loro qualità filologiche, di elaborazione intellettuale, di novità fattuali e metodologiche. Il legame con la vita etico-politica sembra, invece, assai spesso restar fuori della considerazione degli studiosi di storia della storiografia. È come se la storia della storiografia avesse quale sua dimensione propria ed esauriente il piano che nello studio dei singoli problemi storiografici occupa il quadro dello
status quaestionis, che ogni diligente studioso si premura di tracciare prima di entrare nel vivo dei problemi di cui si interessa.
La storia della storiografia non è, però, una generale presentazione e bilancio dello stato delle questioni storiografiche che si possono tenere presenti o conoscere. È qualcosa di molto diverso. È un momento, una pagina della totalità storica di cui trattiamo. È, si, la storia di una disciplina, ma in quanto quella disciplina è a pieno titolo parte costitutiva e imprescindibile della storia del suo tempo, che, senza farne una congrua considerazione, risulterebbe più povera e meno intellegibile.
5.
Nella riluttanza a tener conto del principio, sopra richiamato, della contemporaneità della storia si esprime pure, peraltro, una preoccupazione che, per essere di ordine pratico, non è, tuttavia, meno importante e da considerare. È, infatti, la preoccupazione di quel rischio, che pure abbiamo di sopra richiamato, di servilismo e di strumentalizzazione a cui è esposta la storiografia rispetto alle forze e agli interessi agenti nel presente. Il rischio è, in pratica inevitabile. Nessuna azione politica, sociale, quale che sia, può fare a meno di darsi un suo fondamento identitario o ideologico o etico o di ogni possibile altro tipo. L’esperienza dei regimi totalitari del secolo XX ha dato ulteriore forza a questa considerazione, mostrando fino a quale punto di violenza e di costrizione materiale e morale possa giungere la forza delle spinte contemporanee nel determinare atteggiamenti e lavori storici conformistici, propagandistici, subordinati a ogni genere di interessi di parte, fino al punto di inventare o alterare e falsificare fatti, figure, ragioni e modi del corso storico.
A ben vedere, non è, però, soltanto la storiografia a subire la costrizione e la violenza o, semplicemente, la pressione degli interessi di parte non solo nella forma esasperata del totalitarismo del XX secolo, bensì anche nella più ordinaria e tranquilla fenomenologia della vita politica e sociale, ivi compresi i liberi regimi del liberalismo e della democrazia. La stessa pressione, da livelli minimi, plausibili, e anche tollerabili fino alla violenza, si esercita, in effetti, in tutta la vita pubblica, sociale, culturale di ogni tempo e di ogni paese: ne variano soltanto, anche se in maniere e misure che possono essere rilevantissime, i gradi e le forme. Semmai, nella storiografia, come in altre discipline, il dibattito interno, con i suoi confronti e con le sue misure, può costituire una linea di difesa che, per debole che sia, in altri campi non si ritrova. E, d’altra parte, non è detto in modo assoluto che anche in una storiografia di parte o ideologica non si possano ritrovare spunti importanti di conoscenza e di riflessione storica o intuizioni che non possono essere trascurate o che possono riuscire illuminanti o che rispondono a sollecitazioni problematiche apprezzabili e perfino originali. In altri termini, anche questa storiografia va esaminata e valutata nel suo concreto svilupparsi e atteggiarsi, per ciò che dice o può dire al di là dei condizionamenti pratici da cui nasce e ai quali serve.
Lo stesso, e ad ancora maggiore ragione, dev’essere detto della cosiddetta storiografia dei giornalisti o della storiografia dell’industria culturale o di altre forme e aspetti e momenti degli interessi storici che si manifestano nella vita culturale della civiltà industriale nella sua fase di compiuta maturità , fino a quel che si intende per “spettacolarizzazione della culturaâ€. La preoccupazione rigorosa, incondizionata, illimitabile, e altrettanto necessaria che irrinunciabile, dei fondamenti concettuali e metodologici del lavoro storico non può, in altri termini, tradursi in un aristocratico disdegno per tutto quanto sembra evadere ed evade dalle “regole del giocoâ€. La linea di condotta storiografica è anche a questo riguardo assai semplice: è la linea dell’ascolto e dell’attenzione a ogni particolare del corso storico. Tutto nella storia ha una sua ragione. Anche i documenti falsi e le falsificazioni storiche sono documenti storici autentici e rilevanti, ovviamente non di quel che falsificano, bensì del proprio tempo e delle sue spinte (ma non è neppure detto che anche nella falsificazione documentaria del passato non possano ritrovarsi elementi utili a una migliore conoscenza di quel passato). Ed è per ciò che, anche se lo si volesse escludere, lo studio della storiografia irregolare e di parte o ideologica rientra appieno, se non proprio nella storia della storiografia, e oltre che per ogni singolo storico, nel travaglio della sua ricerca, certo nella storia di quel che storia e storiografia significano nella vita civile e culturale di ogni tempo. Ed è ancora per le stesse ragioni che un equilibrio
sui generis va pur mantenuto tra la inevitabile deprecazione di quel che si potrebbe definire il cattivo costume storiografico e la doverosa attenzione alla storia dei tempi e delle forme di cattivo costume in tutte le sue espressioni.
6.
Molta parte di un simile cattivo costume si è manifestata nella seconda metà del XX secolo sotto la forma di un generale “revisionismoâ€, come è stato definito, del patrimonio di visioni, criteri e giudizi storici, che nella coscienza culturale e civile dell’Occidente si erano affermati e consolidati,
grosso modo, dalla metà del secolo XVIII alla metà dello stesso secolo XX.
Il termine “revisionismo†è, in realtà , in questo caso, uno dei meno adatti all’uopo, e, quindi, dei meno felici. Che cosa è, infatti, il lavoro degli storici, che cosa è il lavoro intellettuale, in generale, se non una continua, perenne revisione di quel che si è di volta in volta, o da molto o da breve tempo, conquistato, elaborato, e, magari, interiorizzato in qualche modo? Osservazione, ovviamente, più che legittima e sensata, ma che deve cedere alla considerazione che, nella fattispecie, il revisionismo di cui parliamo è sorto in relazione a grandi problemi del secolo XX, e, in particolare, in relazione ai problemi dell’azione politica e culturale dei totalitarismi del tempo.
Da questo punto di vista, il revisionismo ha avuto un senso e ha esercitato un apprezzabile ufficio demistificante e demitizzante. Ben presto, però, il revisionismo non solo è traboccato al di là dei campi della sua iniziale e immediata manifestazione nel campo delle questioni storiche contemporanee da cui traeva la sua spinta più oggettivamente comprensibile e giustificata e la sua linfa più positiva e vitalizzante. È diventato specialmente in gran parte della cultura corrente un atteggiamento mentale radicale e condizionante.
7.
Che non si trattasse, peraltro, semplicemente della deriva particolare di un campo culturale, sia pure fondamentale come quello storiografico, è risultato progressivamente più chiaro nel corso dello stesso periodo storico. Nella seconda metà del secolo XX si è, infatti, annodato un fascio di questioni e di ragioni di crisi, che hanno investito in pieno soprattutto l’Europa. La sua posizione e il suo ruolo nel passato e nel mondo contemporaneo, la sua tradizione storica e culturale, i suoi valori morali e civili hanno costituito l’oggetto di una revisione molto più generale di quella del revisionismo da noi sopra richiamato. E, su questa base, non riesce sorprendente che storicità e storiografia siano stati, tra i valori eminenti della tradizione europea, quelli fatti oggetto di critiche più radicali e più generali.
Erano, infatti, fra le massime e più originali e universali elaborazioni dello spirito europeo, e tra il secolo XVIII e il secolo XX – in piena sintonia con il vertice toccato dal primato europeo nel mondo – avevano raggiunto i fastigi più alti della loro lunga vicenda concettuale, apertasi già nella culla stessa della civiltà e della storia europea, e, cioè, nell’antico mondo ellenico e nelle sue relazioni e proiezioni mediterranee. Nell’universo etico e logico della trionfante Europa del secolo XIX elementi o sospetti di crisi si erano affacciati, invero, già prima della prima guerra mondiale, e si erano molto rafforzati nel ventennio fra le due guerre mondiali, senza, però, ancora toccare l’edificio storico-politico del primato europeo nei suoi fondamenti essenziali. Fu solo dopo l’esito epocale della seconda guerra mondiale che questo edificio rapidamente si sgretolò e che alla presunzione del suo assoluto e legittimo primato mondiale l’Europa fece subentrare l’opposta visione di una colpevole illegittimità e di una soltanto parziale realtà di questo suo primato (accompagnati, poi, insieme, quello sgretolamento e questa visione, da un divaricato doppio movimento di concreta costruzione di un’Europa politicamente unita e di un ruolo mondiale non meglio specificato per la nascente Unione Europea, da un lato, e di tenace persistenza di spiriti e condotte nazionali da parte dei partecipanti all’Unione, dall’altro lato).
8.
Di questa vicenda europea la storiografia è stata – del tutto comprensibilmente – uno dei teatri principalissimi e più significativi.
È comune riassumere, anche a questo proposito, la specifica vicenda storiografica nella contrapposizione delle scienze sociali (sociologia, antropologia culturale, psicologia etc.) alla storia come portatrici di concetti e di metodi penetranti ben più a fondo nel tessuto delle realtà umane. Lunga durata, livelli strutturali, mentalità e comportamenti, permanenze e sopravvivenze, sfasature del tempo storico e numerosi altri temi e criteri di ricerca e di analisi soppiantarono (o pretesero di soppiantare) largamente l’antica fondazione metodologica e critica delle discipline storiche.
Alcune forme canoniche e centrali della tradizione storiografica ne risentirono in modo particolare. La storia politica, in particolare, ne fu una vittima sacrificale, percossa e oltraggiata in tutti i suoi aspetti: dalla
histoire des rois alla
histoire-bataille, dalla
histoire des vainqueurs alla
histoires des héros, dalla
histoire de la diplomatie et des traités alla
histoire des institutions, la loro condanna come livelli superficiali e scarsamente significativi e decisivi del corso storico fu generale.
Ben di più, la stessa forma letteraria storiografica tradizionale del racconto storico fu attaccata e invalidata sia nel suo fondamento estetico-concettuale che nella sua pertinenza funzionale ai nuovi orizzonti tematici e critici che si presumeva di indicare alle discipline storiche. Poteva apparire una ripulsa logicamente conseguente dalla svalutazione della storia politica. In realtà , era anche di più. Era un segno ulteriore e forte della negazione della sua specificità alla storia intesa sia nel suo
télos di ricostruzione del passato, sia, soprattutto, di forma privilegiata e superiore di conoscenza, quale alla fine, soprattutto nel corso del secolo XIX, essa si era venuta configurando nell’enciclopedia del sapere europeo.
9.
È qui che si tocca il punto cruciale della vicenda di cui parliamo. Non vi era stata nessuna proclamazione teorica esplicita e determinata della storiografia come
regina scientiarum. Nella realtà questo era, però, il punto generalmente e tacitamente più convenuto e riconosciuto già dalla fine del secolo XVIII, e non era stato scosso dalla grande affermazione del positivismo nella seconda metà del secolo seguente: anzi, il positivismo, al di là dei suoi criteri canonici, fu anch’esso un momento di crescita del senso europeo della storia, e non è un caso che a quel periodo risalgano alcune delle maggiori opere storiche di questa fase della vita europea, rimaste poi come pietre miliari nel patrimonio storiografico dell’Europa contemporanea.
Il senso della storia portò, in effetti, a una fondazione teoretica fra le più impegnate, le più alte e le più universali nella lunga storia del pensiero europeo. Ci riferiamo a quello che poi si è convenuto di indicare come
storicismo: denominazione che unifica, peraltro, una serie di vedute, spesso assai lontane fra loro, ma che, comunque, sulla storia fondavano il perno delle loro visioni e teorie non soltanto logiche. Solo nel corso del secolo XX si è avuta poi una crisi radicale dello storicismo come teoria e metodologia storica e storiografica e della storicità come struttura della realtà e del pensiero, che, presentita e descritta da Husserl come quella che egli definì «crisi delle scienze e della coscienza europea», ha poi portato nella seconda metà del secolo XX alla condizione della storiografia sopra richiamata.
Non dipese, quindi, soltanto dalla così sensibile reiezione della storia politica come
genus storiografico preminente nella tradizione europea la trasformazione della grande presenza e funzione civile che gli storici e la storia ebbero nell’Europa
triumphans tra le guerre napoleoniche e, soprattutto, la prima guerra mondiale, nel senso ideologico e di parte, di cui si è detto. Trasformazione, inoltre, parallela a quella crisi generale del panorama intellettuale europeo e dei suoi principii costitutivi, fondati in modo eminente sui valori della storicità e della storia. Ed è questa la ragione per cui chi scrive qui ritiene di poter ripetere anche qui, come altre volte ha fatto, a chiusura di questo estemporaneo e breve
excursus, che, a parte le sorti della storiografia, l’Europa stessa non potrà seguire il suo più autentico e determinante
télos, se non riconciliandosi a fondo con la storicità quale essenza della realtà e del pensiero, e, in questo quadro, innanzitutto, con la sua propria storia.