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Luca Ricolfi, illusioni italiche e questione meridionale
di Maurizio Griffo
Nel nostro paese la discussione pubblica è spesso viziata da un’attitudine partigiana. Molti commentatori non argomentano in modo pacato le proprie ragioni, rivolgendosi a un interlocutore ideale non pregiudizialmente schierato, ma preferiscono assecondare i vizi mentali di quella che sanno essere la cerchia dei lettori abituali, scodellando abusati luoghi comuni. In un simile panorama, Luca Ricolfi si pone in controtendenza. Lo studioso torinese, infatti, rifugge da discussioni ideologiche o da prese di posizione passionali, ma formula i suoi giudizi sempre a partire da una solida base documentale. In questo modo il dibattito non investe i massimi sistemi, dando luogo a contrapposizioni inconciliabili, ma si sviluppa a partire da un insieme di considerazioni empiriche che si possono discutere nel merito. Tuttavia Ricolfi non è uno scienziato asettico prestato al giornalismo, che si rifugia nelle technicalities del proprio ambito disciplinare per impartire al prossimo una lezione supponente, bensì un uomo animato da una forte passione civile che nel dibattito pubblico porta il bagaglio di conoscenze di cui dispone. Grazie a un simile ancoraggio intellettuale le sue osservazioni sono spesso utili a rompere il cerchio incantato del luogo comune. Basti pensare a un libro uscito alcuni anni addietro (Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008, Milano, Longanesi, 2008) dove Ricolfi, da sempre schierato a sinistra, denunciava l’elitarismo aristocratico della gauche caviar, ormai lontana dalle proprie radici popolari ed affetta da un politicamente corretto di stampo nichilista.
Tali caratteristiche generali (ancoraggio a una base empirico-fattuale, rifiuto della polemica gridata, avversione per le opinioni correnti) si ritrovano anche nell’ultimo suo libro; libro che a prima vista si sarebbe tentati di rubricare come minore (Illusioni italiche. Capire il paese in cui viviamo senza dar retta ai luoghi comuni, Milano, Mondadori, 2010), perché raccoglie gli interventi pubblicati in una rubrica tenuta sul settimanale «Panorama». Leggendo il volume, però, questa impressione svanisce ben presto. Non solo non ci troviamo di fronte a un’opera, per così dire, di risulta, ma la necessità, imposta dalla destinazione originaria dei pezzi (quella cioè di offrire un’esposizione stringata, aiutandosi con tabelle e grafici riepilogativi), accentua il versante empirico degli interventi. D’altronde, a compensare la brevità dei singoli articoli contribuisce l’organizzazione interna del volume che li raggruppa tematicamente. In questo modo uno stesso tema viene approfondito per approssimazioni successive, fornendo un quadro man mano più articolato di ciascun argomento.
Il costante ricorso ai dati non resta, però, un accumulo di cifre, ma si inquadra in un preciso schema concettuale che indirizza le osservazioni particolari. In primo luogo Ricolfi parte da un assunto della sociologia classica (da Weber a Simmel), secondo cui la modernità si caratterizza per una crescita della consapevolezza individuale. Per tenere alto questo senso critico occorre preservare la capacità di distinguere tra fatti e valori, una distinzione che l’aumento esponenziale delle informazioni disponibili, dovuto alle nuove tecnologie informatiche, rischia di vanificare. Su questo ideale regolativo di razionalità cosciente si innesta il riferimento alla teoria della dissonanza cognitiva, messa a punto negli anni cinquanta del secolo scorso da Leon Festinger. Secondo tale teoria (confermata negli anni da molte ricerche sul campo) la mente umana tende a elaborare una rappresentazione rassicurante della realtà, che non metta in discussione l’orizzonte valoriale di ciascuno. Una pulsione che porta a trascurare le evidenze fattuali o a mettere da parte le informazioni che disturbino la propria visione del mondo. Lo sforzo di Ricolfi è quello di allargare le maglie della dissonanza cognitiva per sviluppare una maggiore aderenza alla realtà. Di questa tensione razionalizzante troviamo nel libro diverse illustrazioni.
A tal proposito converrà richiamare un esempio particolarmente significativo. Stando ai dati ufficiali disponibili Ricolfi mostra che l’idea assai diffusa, e spesso bollata come qualunquista, che gli immigrati (soprattutto quelli irregolari) delinquano in misura superiore alla media dei cittadini italiani non è una credenza immaginaria, frutto di una paura irrazionale, ma risulta del tutto veritiera. Il tasso di criminalità degli immigrati irregolari è superiore di otto volte a quello degli stranieri regolari e di ben ventitré volte di quello degli italiani. In questo caso, cioè, la percezione dell’uomo comune è più veritiera di quella di tanti operatori sociali che cercano di minimizzare l’entità del fenomeno con distinguo buonisti. Tuttavia la presa d’atto del problema non induce in Ricolfi tentazioni forcaiole, ma gli ispira delle conclusioni equilibrate quando osserva che «lo straniero è più pericoloso dell’italiano non per natura, ma perché l’Italia – con la drammatica inefficienza del suo sistema penale – finisce per selezionare gli stranieri più pericolosi, che scelgono il nostro paese perché sanno che da noi rischiano di meno» (p. 29). Si potrebbero fare altri esempi relativi ad argomenti altrettanto attuali (la pressione fiscale, i problemi del welfare italiano, il riscaldamento globale), dove l’autore oppone alle idee correnti impeccabili rilievi basati su dati di fatto. Tuttavia, in questa sede, ci preme svolgere alcune considerazioni critiche sull’utilizzo di dati relativi al divario storico tra Nord e Sud, dove Ricolfi non risulta altrettanto convincente.
Basandosi su di una ricerca condotta da due storici dell’economia [V. Daniele, P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), in «Rivista di politica economica», 97 (2007), pp. 267-315] relativa al reddito pro capite prodotto dalle regioni meridionali e da quelle settentrionali, Ricolfi afferma che «non è affatto vero che al momento dell’Unità il Sud fosse economicamente più arretrato del Nord» e che «il divario, invece, sarebbe interamente un portato della storia unitaria, qualcosa che non esisteva nel 1861 e si sarebbe prodotto dopo» (p. 124). Si tratta di affermazioni troppo nette che semplificano il contenuto nell’articolo. I due autori si preoccupano di specificare che la loro ricerca riguarda il calcolo del reddito pro capite senza tenere conto, programmaticamente, di altri fattori, per cui «è possibile che, facendo riferimento ad altri indicatori, una differenza esistesse» (V. Daniele, P. Malanima, op. cit., p 274). Successivamente, poi, non mancano di rilevare che la produzione industriale del Nord rispetto al Sud, dieci anni dopo l’unificazione, «mostra una superiorità di circa il 15 per cento in termini pro capite» (ivi, p. 273). Un dato, questo, sostanzialmente confermato da una più recente ricerca, cfr. C. Ciccarelli, S. Fenolatea, Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy, in «Quaderni di storia economica», n 4, July 2010, p. 28. In una successiva intervista giornalistica, poi, Paolo Malanima ha specificato che la vicinanza dei livelli di reddito è spiegabile anche perché all’epoca dell’unificazione italiana «il tessuto economico, generalmente, non era avanzato e gran parte della popolazione si trovava vicina al livello di sussistenza, sia a Nord che a Sud» (intervista a S. Brandolini, «Corriere del Mezzogiorno», 25 settembre 2010).
Che l’argomento del divario fra Nord e Sud non sia suscettibile di un colpo di teatro capace di rovesciare all’improvviso presunti luoghi comuni lo si intende bene leggendo la messa punto sul tema che Giuseppe Galasso ha svolto negli ultimi due volumi della sua Storia del Regno di Napoli, Torino, Utet, 2010, prendendo in esame i vari aspetti della realtà produttiva del meridione d’Italia (agricoltura, infrastrutture, credito, industria) negli ultimi decenni del regno borbonico e fino all’unificazione. Nel Nord della penisola, al di là delle diverse condizioni ambientali delle varie regioni, la coltura intensiva era già molto diffusa, mentre nel Mezzogiorno prevaleva il latifondo assenteista. Da qui una situazione che, al di là di alcune oasi di sviluppo, si caratterizzava per «arretratezza tecnica, scelte colturali non sempre felici [...], debolezza del commercio interno», tutti fattori negativi che «si saldavano in un drammatico circolo vizioso» [Storia del Regno di Napoli. Vol. V. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), p. 487]. La dotazione infrastrutturale del meridione era nettamente inferiore a quella settentrionale, mentre il credito risultava decisamente arretrato. In questo senso l’abbondanza del numerario, messa già in luce da Nitti, non era un indice di floridezza, ma rivelava una economia scarsamente dinamica. Quanto all’industria, la presenza di pochi nuclei significativi, dovuti a finanziamenti statali, rende difficile «considerare quella del Mezzogiorno prima del 1860 in senso proprio, come una proto-industrializzazione, foriera e, insieme, avvio di una immediata, successiva industrializzazione o, addirittura, equivalente a una industrializzazione già in corso» (Storia del Regno di Napoli. Volume VI. Società e cultura del Mezzogiorno moderno, p. 586). In sostanza, a parere dello storico napoletano, si può ritenere che «il minore sviluppo del Mezzogiorno dopo l’unificazione italiana» trovi «le sue radici nelle condizioni pre-unitarie del Mezzogiorno stesso e in un suo già sussistente divario rispetto al all’Italia del Nord» (ivi, p. 597).
In conclusione, l’eccessiva disinvoltura mostrata da Ricolfi in questa circostanza può essere spiegata in due maniere. Da un lato la si può intendere come un incidente di percorso. Il desiderio di sovvertire comunque i luoghi comuni, gioca un brutto scherzo al sociologo torinese che finisce con il presentare in modo eccessivamente sommario, se non proprio sensazionalistico, i risultati di una ricerca a carattere scientifico. Da un altro versante, però, quest’episodio può essere letto come un portato di un’atmosfera culturale, definibile all’ingrosso come antirisorgimentale, che si respira da un po’ di tempo. In alcuni settori del paese, e questo al di là degli schieramenti politici, è forte la tentazione di scaricare le insufficienze della situazione politica odierna sul passato, da qui la tentazione di presentare l’unità d’Italia come un’eredità storica da guardare con diffidenza se non da respingere. In questo modo però non solo si travisa la storia, ma non si rende neanche un buon servizio alla politica.
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