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Tradizioni orali e discorsi parlati
di Alberto Valvaro
1. Problemi delle tradizioni orali

Nelle nostre società, l’idea che non ci sia letteratura se non in forma scritta ha comportato per lungo tempo una totale svalutazione delle tradizioni orali. Ne è discesa la convinzione che stilistica e retorica siano proprie del solo discorso scritto. L’idea è rimasta radicata nell’opinione comune, anche dopo che il romanticismo ha rivalutato alcune forme di letteratura orale (o pseudo-orale). Eppure, è evidente a tutti che fino ad epoca recente ed alla diffusione della scuola e soprattutto dei media, solo una minima percentuale degli uomini, concentrata in un piccolo numero di società literate, era padrone di queste forme espressive scritte. Esse nella storia dell’umanità sono l’eccezione, non la regola.
In tutte le tradizioni letterarie a noi note, a cominciare da quelle del Levante e della Grecia, i più antichi documenti conosciuti affermano la presenza di almeno tre pratiche orali che rientrano pienamente nella letteratura: il canto lirico, quello narrativo ed il racconto. Le moderne ricerche sul campo confermano che praticamene non c’è società umana, foss’anche totalmente analfabeta, che ne sia del tutto priva. Al contrario, conosciamo società che, per quanto literate, preferivano non affidare alla scrittura le loro tradizioni più essenziali, come accadeva nella Gallia druidica1.
Si è comunque osservato che in molte società orali esistono tradizioni letterarie straordinariamente strutturate e complesse e di sorprendente estensione quantitativa. Il panorama tracciato una settantina di anni fa in un’opera in gran parte compilativa ma che ha fatto epoca2 potrebbe essere oggi molto arricchito e particolareggiato. La ricchezza di informazioni di cui disponiamo ora non è dovuta soltanto allo studio diretto di società illetterate che prima erano sfuggite all’osservazione.
Si è anche avuto un importante approfondimento diciamo così diastratico, grazie allo studio più attento dei livelli più elementari, geograficamente o socialmente periferici, delle nostre stesse società, nei quali si è potuto constatare una insospettata vitalità delle tradizioni orali, che prosperano a volte sotto i nostri occhi, senza che ce ne rendiamo conto. Ma questo ampliamento ha posto un nuovo problema: che interesse hanno le tradizioni orali che non sono letterarie? La maggior parte di questo materiale non ha infatti rilevanza letteraria. Ma perché deve essere escluso dal nostro interesse? Basti pensare a prodotti di livello bassissimo, alle urban legends, per le quali ricordo le parole di Stewart F. Sanderson: «its most outstanding feature is the creativity, imagination, and virtuosity, brought to his performance by all kinds of people, old and young, well read and barely literate, educationally privileged and educationally deprived»3.
A prima vista, una limitazione gravissima ma intrinseca di questi studi è che essi si possono fare solo sulle tradizioni contemporanee. Una bella definizione è quella di Jan Vansina: «Oral traditions make an appearance only when they are told. For fleeting moments they can be heard, but most of the time they dwell only in the minds of people»4. Ma lo storico belga ricorda un bel proverbio degli Akan (Ghana): Tete ka asom ene Kakyere “Ancient things remain in the ear”: il presente delle tradizioni orali incorpora sempre in sé il passato, e viceversa.
A dire il vero gli studi sulle tradizioni orali hanno almeno due diverse origini: da un lato, le descrizioni di società orali da parte di etnografi, poco interessati alla letteratura, dall’altra la ricerca di soddisfacenti spiegazioni nel presente per problemi letterari del passato, in primo luogo la questione omerica.
È ormai antico il tentativo di verificare l’ipotesi che opere come l’Iliade o l’Odissea o la Chanson de Roland o il Beowulf siano le emergenze di ben più antiche tradizioni eroiche orali mediante riscontri con le tradizioni eroiche orali del presente5. L’ipotesi si suddivide almeno in due sotto-ipotesi che conviene tenere distinte: che queste opere siano la messa per scritto di poemi epici orali oppure che esse siano state composte in forma scritta ma tenendo ben presente la tradizione orale preesistente. Oggi, con la ricchezza di dati a disposizione, conviene – credo – svincolarsi da impostazioni così elementari. Per i poemi epici del medioevo europeo l’applicazione rigida della teoria orale-formulistica non ha avuto alcun successo fuori dal ristretto numero dei seguaci di Parry e Lord. D’altra parte è essenziale che dallo studio delle tradizioni orali non restino escluse o marginali le ricerche, molto più numerose ed almeno altrettanto utili, che nulla hanno a che fare con la questione omerica e con l’epopea serbo-bosniaca.
Una premessa fondamentale del nostro discorso è che tutti i concetti che adoperiamo vanno intesi con molta elasticità, come denominazioni non di identità oppositive ma di gamme più o meno estese di variazione. Ciò avviene già con il concetto di Oral Tradition, che spesso nella bibliografia è identificato con quello di Oral Literature e questo, a sua volta, con Oral Poetry. È stato osservato molte volte, e lo dobbiamo ripetere, che l’opposizione poesia versus prosa presenta nel nostro caso gradi intermedi6.
La prosa di parecchie tradizioni orali non è quella che il M. Jourdain di Molière si compiaceva di aver sempre usato senza saperlo. Ancora pochi decenni fa il cantastorie di Palermo che, nel giardino davanti l’antico palazzo dei re Normanni di Sicilia, narrava in sedute quotidiane, che prendevano l’arco di un intero anno le storie dei paladini di Carlomagno, usava in genere una prosa sostenuta e cadenzata che nei momenti più drammatici (i duelli, le battaglie) adottava una scansione ritmica con pause dopo ogni sillaba tonica, del tutto in contrasto con la natura del dialetto ma che valeva appunto ad esprimere l’eccezionalità della situazione. Esemplari sono gli accertamenti di Dell Hymes, sui quali ritornerò più avanti.
Ancor più labile è la distinzione tra Literature e ciò che non è Literature. Il concetto di Literature varia da società a società, e spesso da un periodo all’altro nella stessa società. Esso è un concetto storico, dinamico e relativo. Ogni gruppo sociale stabilisce cosa sia Literature in rapporto a ciò che non è riconosciuto come tale.
Non si può infine accettare la posizione che le Oral Traditions degne di studio siano solo quelle che, in un modo o nell’altro, vengono considerate letterarie. Rudolf Schenda ha lavorato con un concetto ancor più ampio, quello di kommunikative Kultur “communicative culture” ed ha messo insieme un panorama impressionante della narrativa popolare dell’Europa dal Rinascimento in poi7. Schenda non si preoccupa troppo della contaminazione tra orale e scritto e forse il suo concetto è troppo ampio. Ma una corretta definizione di Oral Tradition non può essere che inclusiva, accogliendo qualsiasi tradizione, letteraria o no, sia trasmessa in forma orale, a prescindere dalle sue modalità di formazione e senza che vengano escluse, o considerate spurie, interferenze reciproche tra l’universo dell’oralità e quello della scrittura.
All’interno di una definizione così ampia, ogni società stabilisce una gerarchia in base alla quale ad alcune tradizioni viene riconosciuto una status più alto e ad altre no. Quelle che noi consideriamo letterarie sono sempre nella fascia superiore, ma lo studio delle Oral Traditions non può escludere neppure i livelli più bassi. Nelle considerazioni che seguono ci concentreremo sulle tradizioni di status più alto perché sono quelle meglio studiate, quelle meglio identificabili ma non le uniche che esistano o che siano degne di attenzione. Seguirò uno schema calcato sugli elementi della performance nella quale la tradizione orale si realizza, chiedendomi chi la porta, dove, in che forma e per che fine.


2. Il portatore della tradizione (Who)

Nelle società senza scrittura, o nei livelli senza scrittura delle literate società, teoricamente tutti possono essere portatori della tradizione (traditionbearers)8, ma in realtà alcuni individui sono identificabili come tali in un grado molto più forte di altri. Anche in questo caso, dunque, la gamma delle possibilità realizzate va dal portatore della tradizione prototipico, in certo senso professionale, a colui che lo è solo marginalmente e non gode di un particolare riconoscimento.
Il portatore prototipico, nelle forme tradizionali complesse (quelle propriamente letterarie), è sempre il risultato di una lunga preparazione professionale, che di norma avviene al seguito di portatori anziani e sperimentati, come in tutte le forme di artigianato (chi vuol fare il vasaio impara da un vasaio, chi vuol fare il barbiere impara da un barbiere, e così via). La formazione del portatore della tradizione a volte si conclude con veri e propri esami di abilitazione.
Ancor più importante è che di norma al portatore della tradizione è riconosciuto una status particolare. Egli è dotato di un’aura sacrale, che nelle società dell’Asia centrale lo avvicina allo sciamano:
all the peoples of Central Asia believed that the art of poetry is a kind of mysterious gift bestowed on the person of the singer by a prophetic call from on high. [...] the archaic type of an epic singer, who is at the same time a prophet, a magic doctor, a counsellor of the khan and the revered elder of a tribu9.

Ma anche nel mondo classico il poeta riceve l’ispirazione come dono del dio Apollo o delle Muse. Le famose parole iniziali dell’Iliade (Mhnin £eide, qe£ ‘L’ira canta, o dea’) non erano una formula priva di senso religioso. Queste invocazioni solo più tardi sono diventate un puro espediente retorico. Bridget Connelly ha potuto parlare a proposito dei cantori (al-sîra) dell’Alto Egitto contemporaneo di una associazione del poeta con una autorità quasi religiosa:
The Hilalî poet thus has a privileged community status. Abnoudy [poeta e studioso egiziano del canto popolare] stipulates that the role of the poet is deeply revered and respected in the oral, folk culture. The poet has a mission and a profession10.

Perfino in contesti sociali molto desacralizzati, come il villaggio scozzese moderno, là dove il portatore a volte non è neanche un professionista, il suo ruolo appare frutto di un dono di natura e conferisce prestigio sociale11. Sia pure in modalità diverse, colui che “dice” la poesia, e spesso in forma attenuata chiunque “porti” la tradizione, è un iniziato cui è riconosciuta una funzione che include l’intrattenimento ma va al di là di esso. La sua opera conserva la memoria del gruppo e quindi ne rafforza l’identità, ne illustra le norme ed i valori. Nelle punte più alte il portatore rivela agli ascoltatori una realtà più profonda, si accosta al, o sostituisce, il profeta, il mediatore del divino. Non per nulla per poeti eccezionali, come Dante Alighieri, si è usata la formula del “divino poeta”.


3. Le circostanze (Where)

L’evento sociale della diffusione delle tradizioni orali raramente si realizza in luoghi, momenti e forme casuali. Ciò non accade mai per i suoi prodotti più alti. L’aedo greco, come tanti dei suoi analoghi in altre civiltà, cantava alla corte del sovrano, davanti ai nobili riuniti, dopo il banchetto. Altre volte il portatore della tradizione la “dice” in sedi religiose. A livelli più bassi, la veglia invernale o successiva alla mietitura dei contadini riuniti o il focolare possono costituire i luoghi dove la tradizione si dice e si perpetua. Nelle società urbane moderne il luogo può essere il caffè levantino o il pub britannico o il bistrot. Le tradizione studiate da Bloch si producevano nella trincea; lo storico è anzi più preciso: «L’“agorà” de ce petit monde des tranchées, ce furent les cuisines»12.
La varietà può essere infinita, ma il fatto è che in ogni gruppo sociale, il luogo ed i tempi della tradizione sono stabiliti e sono noti a tutti. Il luogo ed il tempo conferiscono all’evento la dovuta autorevolezza, lo distaccano dal discorso qualsiasi.


4. Le procedure formali (How)

La tradizione orale, soprattutto nei versanti alti della propria gamma, obbedisce a procedure formali altrettanto codificate. A livelli bassi si tratta soprattutto di marche linguistiche elementari, come il Si dice (fr. on dit, ingl. saying, rumor) che introduce l’aneddoto, la voce, il C’era una volta (ingl. Once upon a time there was…) che introduce la fiaba. Ma a livelli complessi, letterari, la formalizzazione delle procedure è assai forte e fortemente condizionata dalle consuetudini di ogni società e di ogni gruppo.
Descrivo brevemente il caso della poesia eroica, indagata sullo stimolo del problema omerico. Già uno dei primissimi studiosi dell’epica turca dell’Asia centrale, il tedesco W. Radloff (in genere russificato come V.V. Radlov), si era chiesto come fosse possibile che un portatore della tradizione fosse in grado di recitare poemi di decine, a volte perfino centinaia, di migliaia di versi. Forse non è inutile riprendere alcune delle osservazioni di Radloff:
Ogni cantore appena appena abile improvvisa sempre i suoi canti secondo l’ispirazione del momento, così che non è in condizione di recitare due volte un canto in modo perfettamente uguale. Ma nessuno pensa che questa improvvisazione produca un canto ogni volta nuovo. […] Egli [the singer] essendosi esercitato a lungo nella performance ne ha pronte, se così posso dire, un’intera serie di parti, che nel corso del racconto mette insieme in maniera acconcia. Queste parti sono descrizioni di determinati occurences e situazioni, come la nascita dell’eroe, il risveglio dell’eroe, il prezzo delle armi, la preparazione al duello, […] L’arte del cantore consiste nel mettere in successione queste parti come è richiesto dal corso degli avvenimenti e nel collegarle con versi composti ex novo. Il cantore sa cantare queste parti in modo assai diverso. Egli è capace di tratteggiare la stessa immagine in pochi tratti veloci o di descriverla più ampiamente o di procedere con epica ampiezza ad una descrizione molto dettagliata. […] Un cantore abile può perform impromptu qualsiasi tema, qualsiasi racconto, se gli è chiaro l’andamento della vicenda13.

Un meccanismo analogo è stato poi scoperto da Milman Parry nei cantori serbo-croati. Esso è stato descritto da Albert Lord in un libro famoso14 ed è
ormai noto a tutti, al punto che mi pare inutile riassumerlo qui. Ruth Finnegan, pur criticando molti aspetti dei risultati di questa scuola, ha giustamente riconosciuto i suoi due meriti principali:
First its [of the oral literature] variability: the absence of the single correct version; and second, the unique nature of each performance by the composer/performer; the poem or story as delivered, as a unique creation, on that particolar occasion15.

I portatori della tradizione non hanno bisogno, in questi casi, di memorie eccezionali. La loro è quella che è stata giustamente chiamata creative memory. Ha ricordato opportunamente John D. Niles: «Memory is an actively creative faculty, as specialists in cognition have long recognized»16. Il portatore non ricorda l’enorme testo che performs, egli lo genera nel corso della performance. Perché ciò sia possibile egli deve avere a disposizione una sorta di articolata banca dati, questo si memorizzata. Il portatore ha in memoria un numero finito di topoi narrativi (la partenza dell’eroe, l’incontro con l’amata, il duello, la morte dell’eroe, etc.); d’altra parte egli ha memorizzato un numero ancora più alto, ma non infinito, di formule, tali da essere adeguate elasticamente alla forma metrica imposta dalla tradizione (con piccoli mutamenti possono essere adoperate in collocazioni diverse). Data la trama del racconto, che in genere è già nota al portatore ed al suo pubblico, ma può perfino essere suggerita dall’ascoltatore, il portatore la realizza in forme che tengono conto del pubblico e della situazione, abbreviando o allungando un episodio, aggiungendone o sottraendone un altro, inserendo ciò che ritiene possa piacere all’ascoltatore o togliendo ciò che gli dispiacerebbe, e così via. La struttura discorsiva astratta della trama viene poi realizzata in una sequenza di topoi ed infine il discorso effettivo (il livello superficiale) viene realizzato adoperando le formule e gli stilemi acconci. In questo modo, come è stato provato sperimentalmente, non accade mai che due performances producano testi identici, ma essi non sono neanche radicalmente diversi.
Queste procedure implicano una specifica accezione di cosa sia originale: nessuno di questi testi si presenta come nuovo, esso ripete un testo precedente, spesso già noto anche agli ascoltatori; ma nessuno è identico ad un testo precedente e spesso il portatore rivendica che il suo testo sarà ‘migliore’ di quello analogo di altri portatori. Egli infatti non solo non ripete a memoria ma modifica, anche se la sua intenzione esplicita è quella di restaurare, e quindi migliorare. La sua originalità consiste, teoricamente, nel fatto di tramandare la tradizione meglio di altri.
La formalizzazione maggiore della letteratura eroica ha permesso analisi più approfondite di questo aspetto fondamentale della tradizione orale, fino al punto di imporre un modello che è stato accolto ottimisticamente come universale. Mi sembrano opportune le critiche di Finnegan:
There may be a number of different ways of composing orally, corresponding to the different social circumstances of the literary piece involved or the vaying ways in cultures and periods17.

Chi ha trasferito nell’ambito delle letterature medievale romanze le teorie dell’oral literature si è occupato di preferenza della Chanson de Roland o dell’epica castigliana, con risultati che hanno trovato scarso consenso. A case in point è invece quello del romance spagnolo, indagato con genialità da Ramón Menéndez Pidal ancor prima delle indagini sull’epica serba18. Questi testi poetici narrativi castigliani, di dimensione varia ma in genere limitata, come le ballate scozzesi, erano noti da manoscritti o stampe tardo-medievali, ma la tradizione sembrava morta. Una ricerca sul campo di incredibile tenacia permise verso il 1900 a Menéndez Pidal di accertare che la tradizione cantata era ancora perfettamente viva non solo in Castiglia ma in gran parte del mondo ispanico, anche americano. La raccolta paziente di decine e decine di repliche dei singoli testi gli permise di elaborare una teoria della diffusione della tradizione che molto deve alla teoria della diffusione areale dei fenomeni linguistici. Il portatore di romances lavora come il singer of tales serbo, ma con sensibili differenze rese anche possibili dalla brevità del suo testo. Anch’egli ha un repertorio di temi ed un repertorio di formule, nonché un repertorio di modalità di canto; ma costruire il suo testo ex novo non è necessario, perché il poemetto ha dimensioni che permettono la memorizzazione. Non esiste però nessun obbligo al rispetto di un testo: la sostituzione di una formula ad un’altra, di un sinonimo ad un altro, di un giro di frase ad un altro è sempre possibile. Un testo ne varietur non esiste, come non c’è un originale19.
Basti un esempio, tratto dal lavoro citato. Nel romance di Gerineldo, quando il re scopre gli amanti, ha l’impulso di ucciderli. Secondo una stampa della fine del medioevo, egli dice:
Mataré yo a Gerineldo el que cual hijo he querido?
¡Si yo matare la infanta, mi reino tengo perdido20!
Nelle versioni orali raccolte all’inizio del Novecento il re dice:
El quisiéralo matar, mas crióle de chiquito21.

oppure:
Si yo mato a la princesa, queda mi reino perdido;
y si mato a Gerineldo, que lo crié de chiquito22

oppure:
Yo, si mato a la princesa, mi reino ya va perdido;
y si mato a Gerineldo, le he criado desde niño23.

Nelle differenti versioni non solo rimane identica la situazione narrativa (l’impulso omicida del re è frenato dall’affetto per la figlia e per il suo giovane amante e da considerazioni politiche) ed è conservata l’assonanza i: i, ma ritorna lo stesso materiale verbale, anche se adoperato in modo assai libero24.
Nell’epica serbo-bosniaca, come nel romance castigliano ed in tanti altri casi, uno dei principali vincoli della tradizione è quello metrico. Ma è sbagliato credere che tradizioni letterarie orali apparentemente in prosa siano sempre e del tutto prive di caratteristiche del genere. Ricordo gli esempi studiati con grande finezza da Dell Hymes, per il quale, almeno nella tradizione narrativa chinook, «the constraint» che nella poesia è «a metrical line» invece «in oral narrative […] is commonly a relation among lines»25. La relazione si esprime in termini di equivalent units, repetition, parallelism e succession. Nella performance queste relazioni sono espresse anche in modalità non linguistiche (gesti, pause, etc.), che si cancellano nelle trascrizioni a stampa, se gli editori ad esse non attribuiscono peso. Riprendo un minimo esempio da un racconto chinook su cui Hymes è tornato più di una volta, la storia di The Deserted Boy, raccolta e pubblicata a suo tempo da E. Sapir. Il paragrafo di Sapir è:
Some long time ago the (people) said to the boy: “Now let us go for reeds.” The boy was (considered) bad. So then they said: “Now you people shall take him along (when you go for) reeds.” And then they said to them: “You shall abandon him there.” So the people all went across the river. They went on and arrived where the reeds were. And then they cut off the reeds and said (to them): “If the boy says, ‘Are you people still there?’ you shall answer him, ‘Ùuu’.

Esso diventa sulla pagina di Hymes:
Now then they told a boy, / “Now let us go for reeds.”/ Long ago the boy was mean, / Now then they said, / “Now you /will take him for reeds.” / Now then they told them, / “You shall abandon him there.” / Now then the people all went /across the river, / they went on, / they came to the reeds. / Now then they cut them off. / Now then they said, /“If the boy should say, / ‘Are you there?’,/ you shall answer, / ‘Uuu’26.

L’analisi della performance è naturalmente, in questo come in altri casi, molto più complessa di quanto qui si possa riassumere. Mi sembra essenziale che la ricostruzione trovi riscontro, come in questo caso, nelle note di lavoro di chi ha raccolto i testi oppure, oggi, nel riascolto della registrazione o nel riscontro del video.
La tradizione chinook è diversa da quelle europee o asiatiche o africane ed è quindi ovvio che risultino diversi i procedimenti di formalizzazione del testo. Non è verosimile che esistano procedimenti universali. È invece probabile che non si dia il caso che tradizioni orali di livello alto non siano vincolate da constraints formali. Questi devono essere volta a volta individuati e descritti.
Ricerche del genere non sono state mai fatte, che io sappia, per la fiaba. Ma fin dalla classificazione dei tipi27, fatta un secolo fa da Aarne28, è ben chiaro che lo stesso tipo si realizza in innumerevoli forme diverse, corrispondenti anch’esse alle performances, e che i tipi possono combinarsi, sommarsi, suddividersi. I tipi si possono analizzare in sequenze di motivi, che nel loro insieme costituiscono un universo molto ampio, ma non infinito29,
In questo campo, l’analisi ha avuto uno sviluppo che sarebbe da tenere in maggior conto anche in altri campi dello studio delle tradizioni orali. La geniale ricerca di V. Propp sulle fiabe russe di magia30 gli ha permesso di individuarne e descriverne la morfologia. Egli distingue nel racconto orale due diversi livelli, il più profondo dei quali è costituito da funzioni astratte la cui successione in questo caso obbedisce ad una sequenza costante. La infinita varietà della fiaba nelle sue performances è dovuta al fatto che quelle che Propp chiama «le dramatis personae» e le funzione si possono realizzare nel racconto in innumerevoli forme differenti. La dramatis persona the helper può essere un individuo, un animale parlante o no, una pianta. La funzione F (XIV. The hero acquires the use of a magical agent) dà luogo secondo lo studioso a questa casistica: «the agent may be a reward or pointed out or prepared ol sold and purchased or eaten or seized, etc»31. Il livello al quale si colloca la morfologia di Propp è molto astratto e lo studioso non pretendeva che esso avesse validità al di là delle fiabe russe di magia32.
Si può formulare l’ipotesi che le procedure di realizzazione delle tradizioni orali siano sempre meno formalizzate man mano che si scende nella gamma tipologica. Quelle che abbiamo citato sono forme alte, a codificazione forte. Altrettanto codificata è probabilmente la genealogia, soprattutto là dove ha una importante funzione sociale, quella di stabilire l’appartenenza o l’esclusione dal clan, l’esercizio o meno di certi diritti e doveri33. Molto formalizzato è anche il canto lirico o corale, sia per i condizionamenti della interfaccia musicale che per il ricorso a forme metriche chiuse, a differenza dalla narrativa, che anche quando ha forma poetica opta per strutture aperte, come la lassa antico-francese, e quando è cantata, lo è con modalità semplici e ripetitive.
La saga, probabilmente, è già più elastica ed ancor più la barzelletta, l’aneddoto, il si dice.


5. I temi e le funzioni (What and What for)

L’articolazione tematica delle tradizioni orali è infinita e corrisponde agli interessi di ciascun gruppo sociale. Ai livelli alti si constata però che sono in genere presenti alcuni temi fondamentali, a cominciare dal racconto della creazione del mondo e delle (non sempre da essa distinte) vicende costitutive del gruppo sociale interessato, incentrate sulle imprese degli eroi fondatori. La domanda essenziale cui le tradizioni orali rispondono sembra essere: perché noi siamo e siamo qui e siamo così.
La distinzione tra racconto eroico e romance sembra sostanzialmente secondaria e quindi più recente. Il racconto fondante può avere aspetti per niente guerreschi e per niente eroici. Basti pensare allo spazio che spesso vi ha la figura del trickster34. Ingannare un nemico può essere altrettanto importante, ed altrettanto celebrato dai discendenti, di uccidere un drago o un gigante oppure affermare con le armi in pugno le ragioni della nostra società contro un’altra. In ogni caso, però, la tradizione orale di questo livello definisce la natura del nostro gruppo e del nostro mondo, la rende cosciente ai suoi membri. Essa determina anche i fini essenziali della nostra società e le modalità approvate per raggiungerli, che a volte possono essere appunto tutt’altro che eroiche.
Non diversa è la funzione del genere narrativo che predomina nell’Africa nera, il panegirico. La celebrazione delle virtù o il vilipendio dei vizi di colui di cui si parla è implicitamente una riaffermazione dei valori positivi e negativi del gruppo sociale in questione. Questo aspetto è ancora più evidente nelle tradizioni orali di tipo storico, il cui massimo indagatore è stato negli ultimi decenni Jan Vansina, che ha lavorato soprattutto sull’Africa. Lo studioso belga è interessato soprattutto al valore storico della tradizione orale e quindi alla individuazione di regole di critica analoghe a quelle da tempo in uso per le fonti storiche scritte. Ma il suo panorama35 è impressionante nell’analisi delle performances di testi di questo tipo ed in quella dei contenuti culturali dei messaggi. Per quanto la forma sia del tutto diversa e molto meno formalizzata, anche in questo caso la tradizione orale esprime la memoria del gruppo e quindi i suoi valori.
A livelli più bassi, giù fino all’aneddoto ed al “si dice”, la pluralità tematica si allarga all’infinito, ma la finalità sociale, per quanto attenuata, non scompare. Quando il poilu nella trincea francese della prima guerra mondiale dava per ovvio che il cadavere di un tedesco fosse potenzialmente un minaccioso vampiro36, non solo riprendeva inconsciamente temi documentati almeno a partire dalla tradizione medievale, ma razionalizzava un suo terrore profondo e riaffermava una opposizione assoluta tra i suoi ed i nemici, sulla quale si basava in quel momento tutto il suo comportamento.
Ad un livello più elaborato, è evidente quanto la diffusione delle fiabe tra i bambini di un gruppo ne plasmi il senso dei valori e dei pericoli, ne esprima i terrori, ne confermi le speranze, li costruisca insomma come membri del gruppo sociale. Voglio dire che, nel campo delle tradizioni orali, la sostanza tematica è tutto sommato secondaria rispetto alla funzionalità. Ciò spiega come mai la tematica delle tradizioni orali sia spesso trasferibile senza difficoltà da una società all’altra (sia dunque intrinsecamente internazionale), mentre la loro funzionalità è diversa.


6. Conclusioni

Torniamo ancora sul problema formale delle tradizioni orali perché ci resta da constatare per che via esse, malgrado la loro identica natura orale, differiscano dal discorso normale, quotidiano. Ripeto che l’estensione della gamma delle tradizioni orali non va mai dimenticata e che ci riferiamo in primo luogo a quelle più alte. La codificazione della forma delle tradizioni orali è quella che ci si attende considerando che esse sono un’attività sociale così vicina al sacro ed al rito, così legata a tempi modalità e situazioni specifiche, riservata a portatori abilitati. Nulla è meno affidato al caso. Ciò vale già a distinguere la tradizione orale dal discorso quotidiano.
La performance dell’aedo greco, nel palazzo del re, davanti ad un pubblico scelto, con il canto accompagnato dalla musica delle cetra, non ha nulla in comune con il discorso normale. In grado diverso ciò è vero della maggior parte delle tradizioni orali. La forma linguistica è naturalmente condizionata dalla specificità della singola lingua ed è più difficile distinguervi delle costanti più o meno universali. Si ha però l’impressione che tecniche come la ripetizione e la variazione, il parallelismo, il chiasmo, possano essere rinvenute nella maggior parte delle tradizioni orali complesse.
Esse possono essere qui esemplificate con qualche esempio dai canti epici serbo-bosniaci citati da Lord37. Un esempio minimo di ripetizione con variazione in versi immediatamente successivi è il seguente:
Nit’ mu porez ni vergiju daje, / nit’ mu asker ni mazapa daje.
(‘Neither tax nor tribute do they give him, / Neither soldier nor sailor do they give him.’)

Un altro esempio è a distanza:
v. 795 Ne znam dadu / ka Kajnidi gradu
v. 799 Uze dadu / ka Kajnidi gradu
(‘I know not the road to the city of Kainida’, ‘And took the road to the city of Kainida’)

Ecco un caso più complesso di paronomasia:
De sedimo, da se veselimo, / E da bi nas i Bog veselio, / Veselio, pa razgovorio!
(‘Where we sit, let us make merry, / And may God too make us merry, / Make us merry and give us entertainement’)

A differenza di quanto accade con la letteratura scritta, il rapporto tra il portatore della tradizione e il pubblico è sempre in praesentia ed è quindi condizionato fortemente dalla situazione specifica. A differenza però di quanto accade nel discorso quotidiano, il discorso della tradizione orale, a livello alto, ha riferimenti deittici limitati (in quanto non è mai un discorso sull’hic et nunc) e conserva per converso un alto grado di ridondanza, che ne assicura la comprensione ad ogni membro del gruppo.
Quando la forma di questi livelli tradizionali alti è la prosa, essa come abbiamo detto conserva caratteri specifici. In ogni caso il testo si realizza nella performance. Ciò ci permette anche di sottolineare l’importanza, nella trasmissione delle tradizioni orali alte, della gestualità e più in generale dell’essere nello spazio (in quello spazio) del corpo del portatore. Il cantastorie palermitano accompagnava il suo dire con i movimenti di una canna, tenuta nella mano destra; questi movimenti diventavano ritmici e solenni, come se avesse brandito una spada, nei brani essenziali. Ma lo stesso avviene altrove. Niles scrive:
oral performance has a corporality about it, a sensibile, somatic quality, that derives from the bodily presence of performers and listeners. […] Literature that is performed aloud in a traditional setting depends on a visibile, audible, olfactory, and sometimes tactile connection between performers and their audiences38.

Il discorso delle tradizioni orali non è mai, per definizione, identico a quello quotidiano, anche se la distanza può essere più o meno grande a seconda del livello della tradizione performed. Esso obbedisce ad una serie di écarts dal discorso normale, a cominciare dall’obbedienza ad una propria retorica. In generale esso si connota come volutamente arcaizzante sotto vari profili, soprattutto lessicali, ma anche morfologici e sintattici ed a volte perfino fonetici. Ne discende che è stato un grave errore che parecchie indagini linguistiche del passato abbiano utilizzato come materiale per la descrizione della lingua proprio questo tipo di discorsi, senza accorgersi della distanza che essi avevano rispetto agli usi quotidiani.




NOTE


1 «Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, graecis litteris utantur» ‘And they not think it proper to commit these utterances [i.e. great number of verses] to writing, altough in almost all other matters, and in their public and private accounts, they make use of Greek letters’, Caesar, De bello gallico, 6, 14, ed. Loeb, transl. H.J. Edwards.^
2 Mi riferisco naturalmente a H.M. Chadwick & N.K. Chadwick, The Growth of Literature, 3 vols., Cambridge, Cambridge University Press, 1932-1940.^
3 Cfr. S. F. Sanderson, The Modern Urban Legend, London, Folklore Society, 1982 ca., p. 14 (si noti che lo studioso ammette senz’altro che i portatori della tradizione siano literate). Un caso significativo, in cui la tradizione orale è addirittura in statu nascendi, è quello delle tradizioni nate nelle trincee della I guerra mondiale, segnalate dal grande storico M. Bloch, Réflexions d’un historien sur les fausses nouvelles de la guerre [1921], nel suo volume Mélanges historiques, I, Paris, SEVPEN, 1963, pp. 41-57.^
4 Cfr. J. Vansina, Oral Tradition as History, Madison, University of Wisconsin Press, 1985, p. XI. Il libro ha una ricca bibliografia.^
5 Delle quali un primo panorama sistematico si è avuto nel volume di C.M. Bowra, Heroic Poetry, London, Macmillan, 1952. Esso va integrato per l’Asia ex-sovietica con V.M. Zhirmunsky.^
6 Lo stesso del resto avveniva, nella letteratura scritta, per molte tradizioni medievali, come il cursus.^
7 Cfr. R. Schenda, Von Mund zu Ohr. Bausteine zu einer Kulturgeschichte volkstümlichen Erzählens in Europa, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1993 (con ricchissima bibliografia).^
8 Il termine, che riprendo da studiosi precedenti, è opportuno rispetto a quelli di produttore o di diffusore di tradizioni orali perché i due aspetti, facilmente distinguibili nelle tradizioni scritte, tendono a confondersi in quelle orali, dove il produttore si dice sempre diffusore ed il diffusore è spesso tutt’altro che passivo. Questa identificazione è criticata da Ruth H. Finnegan, che ricorda casi in cui il poeta è distinto dal recitatore: cfr. R.H. Finnegan, What Is Oral Literature?, in J. Miles Foley, New York & London, Garland ed., Oral-Formulaic Theory. A Folklore Casebook, 1990, pp. 243-282, a p. 275 (il libro è ricco di indicazioni bibliografiche). In effetti gli esempi contrari di Finnegan possono essere moltiplicati, ma il caso più frequente è quello in cui il portatore della tradizione nega di essere il produttore, anche se di costui non si sa nulla.^
9 V. Zhirmunsky, Epic Songs and Singers in Central Asia, in N.K. Chadwick & V. Zhirmunsky, Oral Epics of Central Asia, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, pp. 269-339, a pp. 332 e 334.^
10 Cfr. B. Connelly, Arab Folk Epic and Identity, Berkeley-Los Angeles-London, Univ. of California Press, 1986, p. 148.^
11 Cfr. K.H. Jackson, The International Populat Tale and Early Welsh Tradition, Cardiff, University of Wales Press, 1961, pp. 51-52: «What kind of people are these story-tellers [in western Ireland and Scotland]? They represents the intelligentsia of the old rural Gaelic tradition. […] They play, or used to play, a highly important part in the life of their community because they were the focus ofits intellectual activity».^
12 Op. cit., p. 55.^
13 Cfr. V.V. Radov, Proben der Volksliteratur der türkischen Stämme Südsibiriens, St. Petersburg, Kais. Akademie der Wissenschaften, 1866-1896, vol. V, 1885, pp. xvi-xix, citato da Zhirmunsky, op. cit., pp. 323-324.^
14 Del suo classico The Singer of Tales bisogna ormai usare la seconda edizione (A.B. Lord, The Singer of Tales, ed. by Stephen Mitchell and Gregory Nagy, Cambridge, Mass, - London, Harvard Univ. Press, 2000) che ha un prezioso CD con le incisioni dei testi orali e altre utili integrazioni. Importante anche il successivo libro, postumo ed incompleto: The Singer Resumes the Tale, ed. by Marie Louise Lord, Ithaca and London, Cornell Univ. Press, 1995. Una esposizione sistematica della teoria è in J. Miles Foley, The Theory of Oral Composition. History and Methodology, Bloomington & Indianapolis, Indiana University Press, 1988; dello stesso autore cf. anche The Singer of Tales in Performance, Bloomington & Indianapolis, 1995.^
15 Op. cit., p. 245.^
16 Homo Narrans. The Poetics and Anthropology of Oral Literature, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999, p. 153 (il libro ha una bibliografia ricca e aggiornata).^
17 Op. cit., p. 262.^
18 Di questo grande studioso spagnolo si cita nella bibliografia delle tradizioni orali il tardo volume su La Chanson de Roland y el neotradicionalismo, Madrid, Espasa-Calpe, 1959 (e la sua traduzione francese del 1960). Ma le sue idee si erano formate parecchi decenni prima constatando le modalità di esistenza del romancero, come è chiamato il ricco insieme della produzione di ballate: è questa, per lui, la poesia «que vive en variantes». Si veda R. Menéndez Pidal - D. Catalán y A. Galmés, Como vive un romance. Dos ensayos sobre tradicionalidad, Madrid, CSIC, 1954 (lo studio di Menéndez Pidal era apparso sulla Revista de Filología Española del 1920); più in generale cfr. R. Menéndez Pidal, Romancero hispánico. Teoría e istoria, Madrid, Espasa-Calpe, 1953.^
19 Rispetto agli studi su altre tradizioni, quelli sul romancero hanno permesso, come si accennava, l’esame delle modalità di dispersione nello spazio delle varianti, esempio importantissimo per una futura analisi della diffusione delle tradizioni orali.^
20 Ucciderò io Gerineldo, che ho amato come figlio? / Se uccidessi la principessa, il mio regno ho perduto.^
21 Egli avrebbe voluto ucciderlo, ma lo allevò da bambino.^
22 Se uccido la principessa, resta il mio regno perduto; e se uccido Gerineldo, che lo allevai da bambino.^
23 Io, se uccido la principessa, il mio regno va perduto; e se uccido Gerineldo, l’ho allevato da bambino.^
24 Le citazioni provengono da Como vive cit., p. 16.^
25 Cito dalla esposizione riassuntiva nel paper Ethnopoetics, Oral-Formulaic Theory, and Editing Texts, in Oral Tradition, 9/2, 1994, pp. 330-365, a p. 330. Questo articolo è arricchito da una bibliografia in cui sono inclusi tutti i lavori di Hymes fino a quella data.^
26 Op. cit., pp. 335-336. Ma cfr. in primo luogo il volume di D. Hymes, “In vain I tried to tell you”. Essays in Native American Ethnopoetics, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1981, pp. 141-183.^
27 Il tipo è la struttura astratta della fiaba ed è a sua volta costituito da una serie di motivi, definiti come «the smallest element in a tale having a power to persist in tradition»: cfr. S. Thompson, The Folktale, Berkeley – Los Angeles – London, University of California Press, 1977, p. 415.^
28 A. Aarne, The Types of the Folktale. A Classification and Bibliography, ed. by Stith Thompson, Helsinki, Accademia Scientiarum Fennica, 19612.^
29 Esso è stato rilevato sistematicamente da S. Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, 6 vols., Copenhagen, Rosenkilde and Brugger, 1955.1958.^
30 Cfr. V. Propp, Morphology of the Folktale, Bloomington, University of Indiana Press, 1958 (Austin & London, University of Texas Press, 19682). C’è una edizione russa recente: Morfologiía volshebnoi skazki, Moskva, Labirint, 2001.^
31 Op. cit., pp. 79 e 43 ss. ^
32 Una applicazione della morfologia proppiana alla storia della "Birth of Abû Zayd" è in Connelly, op. cit., p. 76. ^
33 Cfr. Vansina, citato nella nota 4.^
34 Cfr. J. Campbell, The Hero with a Thousand Face, Princeton, Princeton University Press, 1949.^
35 Nel volume citato nella nota 4.^
36 Cfr. il mio volume Apparizioni fantastiche, Bologna, il Mulino, dove il tema è studiato nello scrittore anglo-gallese, in latino della fine del sec. XII, Walter Map.^
37 The Singer, cit., pp. 58, 46 e 32.^
38 Op. cit., p. 53. P. Zumthor ha dedicato due importanti libri a questo tema: Introduction à la poésie orale, Paris, Seuil, 1983, e De la ‘littérature’ médiévale, ibidem, 1987.^
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