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Un’epopea moderata. Alfredo Di Dio, la divisione “Valtoce” e la resistenza cattolica in Val d'Ossola
di Eugenio Capozzi
1. Partigiani cattolici in Ossola: un ruolo da protagonisti

Gli avvenimenti che ebbero per teatro la val d’Ossola sono tra i più noti nella storia della Resistenza italiana, innanzitutto per la singolare esperienza politico-istituzionale della Giunta provvisoria di governo costituita nei territori liberati dai partigiani tra settembre e ottobre del 1944, e per l’altissimo livello dei contributi politici ed intellettuali convergenti in quell’esperimento1.
Dal punto di vista dell’interpretazione storica della lotta partigiana e del dibattito politico-ideologico interno alle forze in essa coinvolte, la vicenda ossolana rappresenta poi un caso-studio particolarmente interessante per molti aspetti. Uno di questi è senza dubbio la peculiare dialettica che si viene a determinare in essa tra le diverse forze militari e politiche presenti sul territorio, e tra esse e i partiti antifascisti rappresentati nel Clnai2.
Nella Resistenza ossolana, infatti, i gruppi armati “autonomi” o ideologicamente non schierati hanno un peso maggiore che in altri contesti della lotta partigiana rispetto a quelli legati a partiti politici. Nei territori tra il lago Maggiore, il Sempione e il Canton Ticino alle brigate social-comuniste raccolte nella II divisione Garibaldi si affiancavano e giustapponevano formazioni autonome particolarmente consistenti, in grado di giocare un ruolo da protagoniste: la divisione “Beltrami” guidata da Bruno Rutto; la “Valdossola” capitanata dal leader più influente della Resistenza ossolana, Dionigi Superti; e, soprattutto, la divisione “Valtoce”, comandata dal tenente siciliano Alfredo Di Dio. Ciò soprattutto in quanto nell’Ossola e nelle valli adiacenti la Resistenza all’invasione tedesca e alla Repubblica di Salò aveva preso forma in maniera spontanea e multiforme, con limitati riferimenti politico-partitici diretti3. In particolare, poi, all’interno delle formazioni autonome assumeva un ruolo rilevante la presenza di partigiani provenienti dal mondo cattolico, mediata da organizzazioni ecclesiali o dal laicato4.
Il primo gruppo organizzato su quei territori era stato proprio una formazione autonoma composita, formata da militari e civili, e raccolta intorno ad una leadership personale: quella chiamata “Quarna”, guidata da Filippo Beltrami, “il Capitano”, che aveva cominciato ad operare con azioni di guerriglia nell’inverno 1943/44, dopo la repressione dell’insurrezione di Villadossola del settembre 19435.
Dopo la morte di Beltrami e del suo luogotenente Antonio Di Dio nella battaglia di Megolo (13 febbraio 1944)6 dalla formazione, che contava ormai circa 500 uomini, nacque un proliferare di nuovi gruppi: la già citata divisione “Beltrami”, la brigata “Strona” guidata da Alfredo Di Dio (“Marco”), fratello maggiore di Antonio, la “Cesare Battisti” del socialista Armando Calzavara, e nuclei più piccoli come quello organizzato dal giovane cattolico Eugenio Cefis – egli pure, come Beltrami e i Di Dio, militare di carriera – sul Mottarone e da Dionigi Superti, imprenditore repubblicano con simpatie azioniste, intorno a Intra. Successivamente la “Cesare Battisti” e gli uomini di Superti fondarono la “Valdossola”, e la fusione tra i gruppi di Di Dio e di Cefis originò la divisione “Valtoce”7.
I tre gruppi principali nel corso dell’estate 1944 si andarono infoltendo con l’afflusso di nuovi volontari. Tra essi, il più numeroso risultò essere allora la “Valdossola”, che schierava circa 500 uomini. Seguivano la “Valtoce” con 370 e la “Beltrami” con 200. Solo nell’estate di quell’anno si sarebbe costituita la II divisione Garibaldi, con un apporto di circa 400 uomini. Nell’agosto, poi, dalla “Valdossola” si scisse un gruppo di partigiani di ispirazione socialista, tra cui Calzavara, che fondò la divisione “Piave”8.
È interessante, però, confrontare questi numeri con la consistenza delle formazioni partigiane accreditata alla fine di ottobre del 1944 (cioè dopo la fine prematura della Repubblica ossolana e la altrettanto prematura morte di entrambi i fratelli Di Dio, Antonio e Alfredo) da un rapporto del comandante militare dell’Ossola. A quell’epoca, la “Valtoce” era divenuta la formazione più numerosa: 1000 uomini armati più 200 disarmati, contro i 900 più 250-300 dei “garibaldini”, i 770 più 500 della “Valdossola”, i 500 più 80 della “Piave”, i 500 più 70 della “Beltrami”9.
Lungo tutto l’arco della guerra partigiana, dunque, in Val d’Ossola un ruolo decisivo viene svolto da una formazione refrattaria alle ideologie, fondata da un ufficiale cattolico di fede monarchica, e guidata, dopo di lui, da altri esponenti cattolici che in vario modo nel dopoguerra continueranno la loro militanza all’interno del neonato partito democristiano. Significativamente, a partire dal 1953 molti tra questi militanti e dirigenti democristiani che avevano avuto in comune l’esperienza della Resistenza in Val d’Ossola confluiranno, insieme a parte della sinistra di derivazione dossettiana, in una nuova corrente della Dc, quella della “Base”: tra essi, Aristide Marchetti, Eugenio Cefis, Giovanni Marcora. E un autorevole appoggio alla nuova corrente verrà dal manager di Stato – che come leader della componente cattolica del Clnai era stato particolarmente legato al Cefis e agli altri membri del gruppo partigiano ossolano – Enrico Mattei10.
Uno tra i partigiani democristiani lombardi che in seguito svolgerà un ruolo non trascurabile nel partito cattolico, Piero Malvestiti, quando giunge a Domodossola dalla Svizzera per partecipare alla Giunta provvisoria di governo ha già alle spalle una lunga storia di militanza antifascista di cruciale rilevanza storica. Egli era stato infatti tra i primissimi animatori dell’antifascismo cattolico con la fondazione a Milano, nel 1928, del Movimento Guelfo d’Azione, ed aveva scontato cinque anni di carcere insieme a tutto il gruppo dirigente dell’organizzazione, dal 1933 al 193811.
Negli anni dell’opposizione clandestina Malvestiti aveva cercato di dare un’articolazione ideologica organica al progetto di una presenza cattolica tra le formazioni antifasciste, e, in prospettiva, nel quadro politico di un futuro regime liberaldemocratico. Un’attività di riflessione e di dibattito che si era andata infittendo a partire dallo scoppio della seconda guerra mondiale, man mano che sembrava profilarsi come realistica la fine della dittatura.
Nell’estate del 1942, proprio da colloqui tra i neo-guelfi e Alcide De Gasperi era nato il programma dei “Dodici punti”, poi diffuso nel luglio 1943, che era stato una delle basi a partire dalle quali si era costituito il nuovo partito cattolico12: sulla cui denominazione Malvestiti aveva giocato un ruolo determinante, prevalendo sulla tendenza di molti ex-popolari a riprendere il nome della formazione che era stata sciolta dal regime fascista13.


2. Conflitti strategici e ideologici nell’“esperimento” ossolano

La divergenza di ispirazioni ideali e di concezioni della Resistenza ai nazifascisti, fin quasi all’incompatibilità, tra gli “autonomi” (cattolici-nazionali, moderati, non aderenti a partiti) della “Valtoce” e, dall’altra parte, “garibaldini” social-comunisti e “giellini” impediva, in realtà, alle diverse formazioni di stabilire una piattaforma strategica comune, o una qualche forma di coordinamento. Sarebbero state soltanto le circostanze esterne della guerra e le pressioni del vertice politico partigiano del Clnai ad imporre sul territorio ossolano una collaborazione tra esse, e, successivamente alla resa, un comando unificato.
La lontananza tra i diversi punti di vista in merito si manifesta eloquentemente nella lettura proposta all’epoca, da parte delle diverse forze resistenziali, sulle modalità della liberazione dell’Ossola e sulla strategia da adottare per la sua gestione politico-militare. E, successivamente, sarebbe stata rispecchiata dalle differenti, contrastanti ricostruzioni memorialistiche e storiografiche di quella vicenda14.
Il dato fondamentale caratterizzante la vicenda ossolana, e sul quale vengono a definirsi le linee di frattura tra gli schieramenti coinvolti, è che la cacciata di tedeschi e fascisti avvenuta nel settembre 1944 dal territorio della Valle fu la conseguenza unicamente dell’azione delle due maggiori formazioni autonome.
I partigiani della “Valdossola” e della “Valtoce” avevano imposto un blocco sulla linea ferroviaria che univa Piedimulera, occupata dai repubblichini, a Domodossola e Gravellona Toce. Ciò convinse i fascisti ad abbandonare la cittadina: ma i loro camion furono intercettati da un posto di blocco di Superti, ed essi subirono gravissime perdite. Conseguentemente la stessa Domodossola rimase isolata, e i tedeschi stanziati in città chiesero una trattativa, tenuta dai partigiani attraverso la mediazione del sacerdote don Luigi Pellanda. Fu stipulato un accordo, firmato dai nazifascisti con Superti e Di Dio, in base al quale i primi lasciarono ai partigiani la città e tutte le armi di fabbricazione non tedesca15.
È importante ricordare sempre, tuttavia, che quella conquista fu in un certo qual modo fortuita, frutto di azioni improvvisate e non coordinate. Nel secondo volume del Dizionario della Resistenza, edito da Einaudi nel 2001, alla voce dedicata alla Repubblica dell’Ossola si sottolineava come la liberazione della valle fosse stata «un’occupazione non concertata fra le formazioni di diverso indirizzo operanti nel vasto comprensorio alpino, né frutto di un preordinato disegno, ma avvenuta essenzialmente sotto la spinta di un movimento partigiano in espansione e galvanizzato dalla prospettiva di una vicina fine del conflitto, almeno nell’area nordoccidentale del paese»16.
Si tratta di un giudizio sostanzialmente svalutativo su tutta l’esperienza del libero governo ossolano, ispirata alla tesi – veicolata dalla storiografia di orientamento comunista sulla Resistenza – secondo la quale le “zone libere” costituite dai partigiani durante la lotta contro i nazifascisti avevano svolto una funzione effettivamente costruttiva soltanto laddove la loro costituzione era stata il frutto di uno stretto coordinamento tra le formazioni partigiane sul territorio e il Clnai, e soltanto laddove all’interno di esse era assicurata una rappresentanza di tutti i partiti che lo costituivano.
Tale tesi si trovava del resto già esposta, con specifico riferimento (negativo) al caso della val d’Ossola, nella prima, fortunata opera storiografica di sintesi sulla Resistenza nata in quell’area politico-culturale, la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, la cui prima edizione era stata pubblicata nel 1953.
In quella sede Battaglia metteva a confronto due casi di “zone libere” formatesi nel Nord Italia durante il conflitto, l’Ossola e la Carnia, per sottolineare quella che a suo avviso era la differenza fondamentale tra esse:
La liberazione dell’Ossola, tutt’altro che essere un punto culminante, è piuttosto una eccezione al processo di liberazione delle altre zone, avvenuto per progressiva erosione politica e militare dal basso: è un fatto improvviso, determinato da un’azione fortunata dei partigiani che libera il maggiore centro della vallata, Domodossola, e convince il nemico ad abbandonare l’intero settore. Non ha la benché minima preparazione nella situazione locale dei CLN, ancora inesistenti, nelle Giunte comunali, ancora da costituire dovunque; tanto che sono gli stessi comandanti partigiani a designare e ad insediare ‘la Giunta provvisoria di 'governo’, costituita in gran parte da elementi rientrati dalla Svizzera.
Il libero governo carnico si delinea invece come un effettivo potere sorto dal basso, è il coronamento ‘legale’ all’impetuosa offensiva estiva dei partigiani veneti [...]. [...] lo stesso CLN, formato sulla base paritetica di tutti i partiti, che decide di assuemre le funzioni ‘di Giunta provvisoria di governo’ e si preoccupa subito di allargare la sua struttura inserendovi le organizzazioni di massa17.

Dal punto di vista di Battaglia, insomma, l’elemento decisivo della lotta resistenziale – e, più in particolare, quello dell’amministrazione autonoma delle zone liberate – era la rigorosa subordinazione gerarchica della leadership militare a quella politica, espressa dalla coalizione dei partiti antifascisti. Il suo schema storiografico-ideologico identificava la Resistenza come la transizione del potere – quanto più uniforme possibile sul territorio nazionale – dagli occupanti fascisti e tedeschi alle forze politiche rappresentanti effettive delle “masse”, destinate a costruire la nuova democrazia. In tale visuale, naturalmente, la costruzione di un soggetto istituzionale libero da parte di formazioni autonome, svincolate dai partiti e governate essenzialmente da una logica militare non poteva essere considerata che come una pericolosa “deviazione”, potenzialmente destabilizzatrice dello schieramento resistenziale e portatrice di risvolti anarcoidi o autoritari.
Ma la realtà sul campo era abbastanza più complessa di questo schema, non occorre dire quanto condizionato dal contesto politico e dagli obiettivi politici degli anni del dopoguerra.
È incontestabile il fatto che le formazioni “garibaldine” presenti sul territorio, quelle attive dall’estate soprattutto nella zona occidentale dell’Ossola e nel novarese, non fossero affatto favorevoli a trasformare un fortunato atto di guerriglia in un’occupazione stabile del territorio, con le relative conseguenze politico-istituzionali.
Nel loro approccio al problema si intrecciavano, in effetti, due motivi, entrambi collegati alla radice ideologica della loro partecipazione alla lotta resistenziale.
Per un verso, i partigiani comunisti e socialisti si dichiaravano in generale fautori di una “guerra totale” ai nazifascisti, senza compromessi né trattative, e si proponevano come obiettivo primario il pieno successo militare. Da questo punto di vista, il dissidio tattico-strategico tra le due ali della Resistenza ossolana era già venuto alla luce precedentemente, nell’agosto di quell’anno, quando la “Beltrami”, la “Valdossola” e la “Valtoce” avevano firmato con il comandante tedesco della città di Omegna un accordo per l’istituzione di una zona neutrale. Le formazioni garibaldine avevano criticato aspramente la tregua, richiamandosi alle direttive del Comando Volontari della Libertà, e rivendicando la priorità di una lotta senza quartiere contro il nemico. I partigiani “patrioti” e moderati opponevano a tali critiche l’esigenza, per loro prevalente, di evitare eccessive perdite di uomini e mezzi e inutili sofferenze alla popolazione civile della zona laddove l’esito dello scontro fosse incerto. Quando i tedeschi e i fascisti lasciarono Domo senza sparare un colpo a Superti e Di Dio, i social-comunisti rivolsero a questi ultimi critiche dello stesso segno: ma il Cvl approvò l’operazione delle divisioni autonome18.
Per un altro verso, però, proprio in base alla loro impostazione, che esigeva uno scontro frontale senza compromessi, i partigiani social-comunisti ossolani erano contrari a che le formazioni degli insorti, dopo la liberazione del territorio, assumessero su di sé la responsabilità di un’amministrazione “politica” dello stesso.
Ciò si evince chiaramente, tra l’altro, dalle valutazioni retrospettive offerte in merito nel volume memorialistico scritto dal vice-comandante della seconda divisione “Garibaldi”, Aldo Aniasi (“Iso”), che nel dopoguerra avrebbe proseguito la sua militanza politica lasciando il Pci per il Psi19.
Gli esponenti della sua formazione, sostiene Aniasi, non condividevano affatto l’opportunità di una stabile occupazione della zona, perché ritenevano che una difesa della Val d’Ossola fosse inutilmente dispendiosa, e militarmente quasi impossibile. Erano stati invece Superti, Rutto e Di Dio, i capi delle formazioni autonome, a spingere per la formazione della “repubblica” autonoma.
«È una strana vicenda», scrive Aniasi. «I garibaldini sempre attenti alle ragini politiche della guerra di liberazione assumono un atteggiamento dettato da ragioni esclusivamente militari», e in ciò «probabilmente commettiamo un errore di valutazione politica sul quale però convergono anche altri comandanti e commissari». Al contrario gli autonomi, «dichiaratamente apolitici, solitamente preoccupati solo da ragioni militari, compiono scelte che a posteriori si dimostrano dettate da ragioni politiche»20.
Per quanto riguarda la “Valtoce”, però, l’idea che Di Dio e gli altri componenti il gruppo giudicassero politicamente opportuna l’occupazione stabile dei territori è smentita da altre fonti documentarie, che mostrano invece una valutazione sostanzialmente convergente, da parte loro, con quella dei “garibaldini” sul campo per quanto riguarda l’inopportunità di quell’impegno.
È evidente, infatti, che l’occupazione stabile di Domodossola e del suo territorio non rientrava all’epoca nemmeno nella strategia della “Valdossola” e della “Valtoce”, che preferivano non impegnare una grande quantità di forze militari per stanziarsi in un territorio urbano, esposto alle reazioni nazifasciste, ma operare invece rapide azioni di guerriglia per infliggere il massimo dei danni al nemico, tornando poi subito a rifugiarsi in zone ben difese. Anche la trattativa con i tedeschi in quella occasione rispondeva più alla necessità di approvvigionarsi di armi che a quella di prendere il controllo di una zona urbanizzata come Domo e i suoi dintorni21.
A tale proposito, nello stesso volume di Aniasi figura una testimonianza resa da Eugenio Cefis, nella quale il vice-comandante della “Valtoce” afferma che all’epoca il suo parere in merito era assolutamente negativo, e fornisce una diversa spiegazione sui motivi per cui alla fine tra le formazioni partigiane ossolane prevalse la decisione di consolidare l’occupazione.
Secondo Cefis – allora, come si è detto, braccio destro di Di Dio – tale decisione fu dovuta all’entrata in campo dei vertici dei partiti a cui le brigate partigiane facevano riferimento. Nonostante la logica della guerriglia imponesse di prendere il bottino e abbandonare il territorio ossolano dopo la vittoria, «gli esponenti dei vari partiti politici, rappresentanti del CLN Alta Italia, giunti dall’esilio svizzero e da Milano, ritennero politicamente conveniente ed utile che fosse proclamata la ‘Repubblica dell’Ossola’ e come logica conseguenza ordinare di difenderla». Quindi «per la Valtoce il doversi organizzare a difesa ‘in fondo valle’ invece di ritornare ‘in baita’, fu un ribaltone di 180°, difficile da ‘digerire’ e realizzare in tempi brevissimi»22.
E il netto dissenso della formazione “azzurra” rispetto alla possibilità e utilità di consolidare l’occupazione del territorio ossolano attraverso la formazione di una vera e propria entità politico-istituzionale è ben sintetizzato da un’altra testimonianza retrospettiva dello stesso Cefis:
I nostri sono entrati in Domodossola e ci saremmo dovuti spartire le armi tra noi e Superti per poi tornare in montagna. Invece sono arrivati i politici, che noi vedevamo come fumo negli occhi, e hanno voluto formare la Giunta provvisoria di governo. La nostra prima reazione è stata: “Siete venuti fuori dalla Svizzera, adesso vi arrangiate!”. Per due giorni ci sono state discussioni a non finire, dato che ci hanno costretto a fare quanto non era in programma: per motivi politici, ci hanno cioè costretti a fare dal punto di vista militare e operativo un nonsenso, a tenere la vallata abbarbicati al territorio facendoci bombardare dai mortai da 8823.

Uno scenario, quello rievocato da Cefis, che sconfessa decisamente la tesi di Battaglia secondo cui la nascita della zona libera ossolana fu il frutto di una forzatura unilaterale da parte delle formazioni autonome.
Quella tesi implicava in realtà il corollario, ideologicamente fondamentale, secondo cui l’“insubordinazione” degli autonomi ossolani verso i partiti del Clnai nazionale era la conseguenza di un “vizio” che aveva un’origine di classe:
Fra gli esuli italiani in Svizzera, e anche fra gli esponenti politici dell’Ossola, ci sono coloro che sostengono l’idea di fare un governo “senza i comunisti” o dando ai comunisti un peso minimo nella sua costituzione24.

La testimonianza di Cefis fa emergere, piuttosto, soprattutto una tensione dialettica tra formazioni partigiane locali e partiti antifascisti sul piano nazionale. E, di conseguenza, la profonda ambivalenza nelle prese di posizione dei partigiani social-comunisti. Se sul campo essi privilegiavano una logica esclusivamente militare, i vertici dei loro partiti (ma, a quanto pare, anche degli altri) prendevano in considerazione essenzialmente la spendibilità politica delle azioni di guerra, e parallelamente l’obiettivo di ottenere un’egemonia politicoideologica sull’insieme della Resistenza. Per questo motivo, quando seppero della liberazione dell’Ossola, i partiti comunista e socialista fecero pressione sui partigiani aderenti alle loro formazioni affinché si insediassero sul territorio, rivendicando la propria parte di responsabilità nella vittoria, ed esigendo di partecipare alla gestione politica dei territori occupati25.
Sulla base della “ragion di partito”, dunque, i social-comunisti cercarono di recuperare il tempo perduto accorrendo in forze nella zona liberata, e rivendicando una rappresentanza politica corrispondente al ruolo centrale da loro giocato, a dir loro, nell‘insieme del contesto bellico della regione. Al contrario, le formazioni autonome (nonostante in esse non mancassero i militanti di partito, e, per quanto riguarda la “Valtoce”, soprattutto della neonata Dc) non erano sensibili all’esigenza primaria di un obiettivo politico da far pesare sul piano degli equilibri nazionali.
Da qui cominciarono le trattative che condussero alla formazione della Giunta provvisoria, con relative crescenti tensioni tra “garibaldini” e “Valtoce”, mediate a fatica da Superti e dal socialista Tibaldi, che era il leader partigiano esule in Svizzera in rapporti più organici con il Cnlai, e che non a caso, in una logica di equilibrio di coalizione, venne nominato capo della Giunta provvisoria26.
La posizione della “Valtoce” in merito alle rivendicazioni dei socialcomunisti viene espressa in questi termini da Aminta Migliari, allora coordinatore del Servizio informazioni della formazione di Di Dio, in una testimonianza del 1998-1999:
L’Ossola è stata presa da Di Dio e da Cefis, cioè da noi della “Valtoce”: avevamo 80 uomini, a noi si è affiancato Superti della “Valossola”. L’accordo di resa è stato trattato da queste due formazioni. Nell’operazione ossolana comunisti non ce n’erano, sono venuti dopo e hanno rivendicato di aver fatto tutto loro: ma è comprensibile, fa parte del loro modo d’impostazione della storia (se storia si può chiamare una bugia).27

Non sorprende, allora, che fin dall’inizio il lavoro della Giunta provvisoria di governo e la stessa tenuta militare della zona liberata fossero minati alla radice dalla fondamentale divergenza e diffidenza ideologica tra “garibaldini” (e rispettive direttive provenienti dai vertici dei partiti di riferimento) e “azzurri”28.
In tale contesto si inserisce la richiesta intransigente, posta dalla formazione di Di Dio attraverso il primo numero del volantino periodico “Valtoce” da essa pubblicato (26 settembre), che il governo partigiano fosse libero da intrusioni di interessi di partito ed unicamente devoto all’interesse nazionale29. E, successivamente, nello stesso solco si collocano l’opposizione alla presenza – ad avviso dei partigiani cattolico-moderati eccessiva – di comunisti e socialisti nella Giunta, e la protesta contro la autoreferenzialità dei commissari, “autonominati” e non rappresentativi della volontà popolare, veicolata dal volantino “Valtoce” del 2 ottobre, in cui si invocava che la Giunta stessa fosse espressione effettiva di tutti i partiti, e venisse democraticamente eletta30.
In tal senso vale la pena di ricordare anche che la sconfitta nel tentativo di conquistare Gravellona Toce (13-14 settembre), dovuta all’arrivo di rinforzi tedeschi, che cominciavano ad affluire nella zona in seguito all’arresto dell’avanzata alleata nella penisola, suscitò ulteriori, acerrime polemiche tra le formazioni partigiane. I “garibaldini”, infatti, attribuirono lo scacco a Di Dio e Superti per l’accordo da essi stipulato a Domo con i nazifascisti, che aveva lasciato a questi ultimi una certa quantità di forze militari, e per l’insufficiente contributo della “Valtoce” (30 uomini), dovuto secondo alcuni alla scarsa volontà dei suoi componenti di combattere con e per i comunisti31.
Come è noto, Alfredo Di Dio trovò la morte in un’imboscata poco dopo, il 14 ottobre, mentre a Finero stava cercando di tenere sotto controllo la controffensiva dei nazifascisti. Dopo la sua morte, la fine della giunta partigiana e la fuga in Svizzera dei suoi difensori, i suoi uomini si riorganizzarono con il nome di divisione “Di Dio” sotto la guida di Cefis, e come tali giunsero fino alla Liberazione, quando potevano contare ormai su 22.000 uomini.
La pagina gloriosa e tragica della zona libera ossolana era stata archiviata e già inserita nel “sacrario” resistenziale, assegnando in essa a Di Dio e alla sua formazione il ruolo fondamentale che spettava loro. Ma i conflitti interpretativi sugli eventi ossolani, e sulle cause della sconfitta, rimanevano “congelati” nella memoria dei protagonisti e dei testimoni, pronti a riproporsi nel dibattito politico e intellettuale dell’Italia repubblicana.


3. Alfredo Di Dio: un leader cattolico, moderato e anti-ideologico

Chi era veramente Alfredo Di Dio? Quale significato storico, al di là delle vicende contingenti della storia militare della Resistenza, assume la sua figura? Due fattori hanno fino ad ora impedito adeguate riflessioni storiografiche sul peso e sull’influenza di leadership partigiane come quella da lui incarnata. In primo luogo, la più generale damnatio memoriae, o sostanziale rimozione, subite nelle correnti dominanti della storiografia italiana in epoca repubblicana dalle figure della Resistenza moderata, militare, monarchica, liberale, cattolica: fenomeno ben noto, e di cui troppo si è dibattuto per dirne qui qualcosa di significativo32. In secondo luogo, più specificamente, la parabola molto breve della vita pubblica del comandante “Marco”, dalla giovanissima età e dall’assoluto anonimato di combattente al ruolo di comando in un contesto cruciale come quello ossolano, alla prematura morte nella difesa della “zona libera”.
A tutto ciò va aggiunto un temperamento particolarmente schivo e poco loquace, come emerge dalle testimonianze di chi lo conobbe: tanto carismatico ed autorevole quanto poco a proprio agio in una dimensione di leadership stricto sensu “politica”.
Alfredo e Antonio Di Dio erano nati a Palermo, rispettivamente nel 1920 e nel 1922. Il padre, brigadiere di pubblica sicurezza, venne trasferito a Cremona quando i figli erano ancora in tenera età. I due si formarono nell’Azione cattolica della città lombarda, e imboccarono la carriera militare frequentando l’Accademia militare di Modena33. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943 avevano il grado, rispettivamente, di tenente e di sottotenente. Per quanto le fonti biografiche sui Di Dio siano scarse e lacunose, non è difficile immaginare l’atmosfera ideale nella quale essi erano cresciuti. Saldi princìpi religiosi, patriottismo, obbedienza all’ordine costituito, un’atteggiamento via via più distante e ostile nei confronti del regime mussoliniano man mano che si delineava l’alleanza con la Germania di Hitler e la scelta bellicista.
L’8 settembre 1943, appena apprende dell’armistizio, Alfredo Di Dio si presenta in caserma ai suoi superiori, ponendosi a disposizione per organizzare la resistenza contro i tedeschi. Diffidato dal farlo, sdegnato si spoglia dell’uniforme e corre in montagna, seguito dal fratello, formando un primo gruppo di partigiani che si unisce nell’inverno 1943-1944 alla formazione autonoma comandata da Filippo Beltrami, che agiva tra la Val d’Ossola, la Valtoce e la Valstrona34. Dopo la morte di Beltrami e del fratello Antonio a Megolo, come si è detto, organizza un proprio gruppo di fuoco fondando la divisione “Valtoce”, che aderisce alla rete delle Fiamme Verdi cattolico-moderate, e sceglie come vice-comandante Eugenio Cefis.
Le descrizioni della figura di Alfredo Di Dio da parte dei partigiani che lo ebbero come capo e compagno d’armi convergono inequivocabilmente nel delineare un uomo di grande autorevolezza morale, e di altrettanta intransigenza.
Il primo, dettagliato resoconto sull’attività della “Valtoce” fu stilato da Aristide Marchetti, arruolatosi con Beltrami e poi associatosi, dopo la morte di questi, al gruppo dei fratelli Di Dio, nella sua memoria autobiografica Ribelle, pubblicata nel 1947.
In essa, tra l’altro, la personalità di Alfredo Di Dio viene descritta, in una delle prime occasioni di conoscenza diretta, con pochi, intensi tratti:
[Antonio] è un baldo ragazzone, schietto, esuberante, brioso. Il fratello Alfredo mi pare più chiuso, più rigido, direi quasi mesto, se gli occhi non rischiarassero quel viso severo di asceta, vibrando di una luce intensa, calda, sincera35.

In una pagina di diario datata qualche giorno dopo quella appena citata, poi, la descrizione del capo partigiano viene ripresa in questi termini:
Mi stupisce l’età di Alfredo, specie nei confronti del fratello. Come carattere e portamento, Alfredo dimostra venti anni di più: appartato, serio, riservato, tanto quanto Antonio è vivace, entusiasta, ciarliero. Uno attira il rispetto, l’altro la confidenza36.

La severità del carattere di “Marco”, e il rispetto che incuteva nei commilitoni, sembravano allora a Marchetti stridere in maniera particolarmente evidente con la giovinezza del comandante, che aveva allora soltanto 24 anni.
Quasi vent’anni dopo la fine del conflitto, un ritratto dai caratteri fortemente convergenti con quello tracciato “a caldo” da Marchetti veniva proposto da un altro ex-partigiano cattolico, oltre che commissario della Giunta ossolana: proprio quel Piero Malvestiti che, come abbiamo ricordato più sopra, era stato con il suo movimento “neo-guelfo” all’origine dell’antifascismo cattolico e della nascita della Dc, e che nel dopoguerra aveva poi proseguito il proprio impegno politico come deputato alla Costituente e alla Camera, sottosegretario e ministro (dei trasporti, poi dell’industria e del commercio) nei governi centristi De Gasperi e Pella, e infine come vicepresidente del Mercato comune europeo e presidente della Ceca. Così Malvestiti ricordava il comandante “Marco”:
Esile, con quel pizzetto nerissimo che avrebbe dovuto dargli importanza, con due occhi di fuoco in una faccia estremamente pallida, e due mani snelle, nervose, che “parlavano”. Era un silenzioso, ma aveva lo sdegno e il comando prontissimi. Qualcosa di femmineo in lui: l’involucro alabastrino. Dentro, il dominio di una ferrea volontà, e il prorompere di un furibondo amor di patria. Non molte idee politiche, forse nessuna; forse soltanto questa: “tutto per l’Italia”. Idea semplice, quasi infantile. Che cos’era l’Italia per questo giovanissimo? Gli avevano ucciso il fratello, vicino a quel magnifico soldato che era il capitano Beltrami; aveva schifo dei fascisti, bugiardi e ladri e traditori: adorava la montagna, così serena e buona e forte come avrebbe dovuto essere l’Italia. Credeva profondamente in Dio. Ufficiale effettivo, sapeva far la guerra, e forse questo terribile giuoco gli piaceva37.

Significativamente, quasi in contemporanea con la testimonianza di Malvestiti ed in un’analoga occasione commemorativa, il già citato Marchetti, a molti anni di distanza ed alla luce dei molti importanti eventi storici nel frattempo succedutisi offriva una riflessione più articolata sulla valenza storica della figura della formazione guidata da Di Dio, ponendo in evidenza soprattutto il peso determinante che l’intransigente richiamo al patriottismo su cui quest’ultimo fortemente insisteva – sintetizzato dallo slogan della formazione cattolica, “La vita per l’Italia” – aveva successivamente svolto nel far sì che la Resistenza antifascista, nonostante le sue varie e contrastanti motivazioni ideologiche, rimanesse ancorata all’idea dell’unità e della salvezza della nazione.
In una commemorazione del ventennale della Liberazione, nel 1965, l’expartigiano (che nel frattempo aveva intrapreso anch’egli una carriera politica nelle file della Democrazia cristiana prima come sindaco di Laveno Mombello, poi come presidente della Provincia di Varese), tracciava infatti un bilancio della collocazione dei partigiani “azzurri” nel quadro politico e culturale dell’epoca, che ne sottolineava soprattutto l’assenza di risentimento ideologico e la tolleranza, e individuava nelle loro posizioni alcuni fondamenti della cultura politica che sarebbe stata propria, nel dopoguerra, del partito cattolico:
Il nostro programma d’azione si riassumeva nel motto stesso di tutte le nostre formazioni: “La vita per l’Italia”. E in virtù di questo ideale, era tenacemente rifiutata ogni ingerenza di partiti. Non disturbavamo le varie tendenze e i vari colori politici. Per noi la lotta partigiana era una questione di serietà e di onestà. Ognuno era libero di pensarla come voleva; e ciò in ossequio ai principi di libertà e di democrazia nei quali credevamo e per i quali avevamo impugnato le armi [...]. Come si vede, si trattava di concetti semplici ma anche di una forza e di una umanità esemplari: ideali e posizioni democratici e cristiani, indubbiamente38!

Per Marchetti, insomma, l’ispirazione cristiana si intonava naturalmente con un atteggiamento patriottico che aveva come obiettivo primario l’unità e la concordia nazionale ritrovata contro la dittatura e l’invasione straniera, e che si traduceva altrettanto naturalmente nel rispetto del pluralismo e dei princìpi democratici.
Qui il richiamo all’intransigenza morale e al carattere schivo di Di Dio si unisce alla sottolineatura della nitida semplicità del suo ideale patriottico, senza considerare la quale non si comprenderebbe la sua ferma opposizione ad ogni fenomeno di intrusione partitica nella lotta resistenziale.
Una riflessione, quella di Marchetti sulle origini dell’antifascismo di “Marco”, fondata sull’idea più generale che la resistenza cattolica contro il fascismo e il nazismo traesse impulso non da un’impostazione ideologica, ma da una lunga tradizione di civiltà sedimentatasi nella cultura italiana. La quale anzi, a suo avviso, respingeva proprio l’aspetto disumanizzante delle ideologie in quanto tali, e generava in particolare un rigetto quasi istintivo per dottrine e regimi autoritari, inevitabilmente destinati alla mortificazione della persona umana. Un’idea che Marchetti sviluppava e ampliava in ulteriori considerazioni sulla lotta partigiana proposte un decennio dopo in un’analoga occasione commemorativa.
In quella sede egli sostiene la tesi che i partigiani cattolici non avessero una conoscenza approfondita dell’elaborazione programmatica che in quegli anni portava alla ricostruzione della Democrazia cristiana:
Non ci fu [...] una ideologia politica precisa o programmi di partito precisi, non ci furono come motivi ispiratori di questa scelta, di questa volontà di resistere, che influì molto sul clero più minuto, soprattutto, e sui cattolici democratici delle nostre regioni. Non ci fu nemmeno una teologia dell’insurrezione armata, della violenza rivoluzionaria, della legittimità del tirannicidio39.

L’elaborazione ideologica rivestiva infatti un’importanza preponderante, ad avviso di Marchetti, nella partecipazione alla Resistenza di comunisti e azionisti, ma non in quella dei cattolici.
E tuttavia, egli proseguiva, non a caso
senza studi, senza propaganda, senza organizzazione, clero e laici, uomini e donne, vecchi e giovani, uomini di cultura, professionisti, operai, contadini, montanari, studenti, capirono che non era una guerra civile, ma una guerra di civiltà, la resistenza.

Oltre alla verità storica e politico-giuridica sul fascismo e l’antifascismo, secondo il vecchio partigiano della “Valtoce”,
ci fu soprattutto la verità morale, umana e culturale, che impegnò masse imponenti di cattolici nella Resistenza. [...] Era la rivolta morale, la rivolta umana, la rivolta culturale, nei suoi aspetti anche politici, economici e sociali, che era nata, ripeto, dalla dimensione critica istintiva di ogni uomo che non fosse vile o ignorante40.

Ma proprio quel patriottismo senza etichette dottrinarie, che Marchetti aveva individuato come caratteristica positiva dell’impegno partigiano di Di Dio, e in seguito avrebbe posto alla base di una vera e propria teoria a-ideologica dell’antifascismo cattolico-moderato, nello stesso periodo dei medi anni Sessanta sarebbe stato giudicato in tutt’altro senso da un fortunato volume storico-giornalistico sulla repubblica ossolana, pubblicato nel 1965 nel clima di una riscoperta dell’epica partigiana come nuova base culturale della sinistra italiana dopo il 1960, ed ispirata principalmente al mito radicaleggiante di una Resistenza intesa come rivoluzione “incompleta” o “tradita” dall’opposizione degli angloamericani e delle classi dominanti italiane: quello scritto da Giorgio Bocca, allora giornalista de «Il Giorno» di Milano41.
Dal punto di vista di Bocca, è naturale che l’approccio patriottico, antiideologico e moderato di Di Dio apparisse come una nobile copertura di interessi economici e sociali ai quali si contrapponevano le correnti di sinistra della Resistenza, “garibaldine” o azioniste. Per il giornalista piemontese la “Valtoce” era «specchio delle grandi virtù morali e dei limiti culturali del suo fondatore e comandante». Quest’ultimo era descritto da lui come un anticomunista che sfiorava quasi l’odio religioso, e la sua formazione come il braccio armato degli industriali e dagli operai democristiani di Busto Arsizio e Legnano.
«Nel desiderio di apoliticità della ‘Valtoce’ come di altre formazioni similari», aggiungeva Bocca, «si esprimono anche le difese psicologiche di una borghesia media e piccola uscita dal fascismo impreparata alla battaglia ideologica». Dopo l’adesione al fascismo e il trauma della sua caduta, infatti, a suo avviso «non osando professare opinioni puramente conservatrici», la borghesia diviene politicamente molto cauta: essa «cerca di rinviare la lotta politica» e aspetta «giorni migliori». E «Di Dio ha caro fra tutti il motto “Tutto per l’italia”, che sembra sublime ed è infantile. Come il rifugio in un patriottismo astratto che piace anche ad alcune formazioni fasciste, quelle che si appellano alla patria piuttosto che al partito»42.
Un giudizio analogamente critico e riduttivo su Alfredo Di Dio e sulla “Valtoce” veniva espresso, circa un decennio dopo, da Michele Beltrami, figlio del “Capitano” Filippo, nella sua ricostruzione della vicenda ossolana. Ad avviso di Beltrami in linea generale in Ossola le formazioni partigiane autonome, a differenza dei “garibaldini”, erano «fortemente influenzate dalla personalità dei loro capi e animatori, e avevano prevalentemente un carattere […] apolitico e militare. Questa marcata impronta personale rendeva spesso difficili i rapporti tra le diverse formazioni e il loro inquadramento in azioni politiche e militari di larga portata su comando degli organi centrali, all’autorità dei quali i capi partigiani dell’Ossola cercheranno spesso di sottrarsi».
Sulla base di questo criterio interpretativo, che (tanto più significativamente in considerazione della provenienza familiare dell’autore) affermava decisamente la superiorità di un approccio partitico- ideologico alla Resistenza, Beltrami stabiliva poi un’ulteriore distinzione “gerarchica” tra le diverse formazioni autonome. In alcuni gruppi, egli affermava, tra cui quello di Beltrami, l’apoliticità aveva significato soprattutto l’apertura al pluralismo politico e un «vivace dibattito d’opinioni» utile a maturare le scelte politiche dei partigiani per l’avvenire. In altri, invece, tra cui la “Valtoce”, lo svincolamento dai partiti e dalle osservanze ideologiche assumeva la forma di «un’avversione generale e feroce per la politica, avversione che si sarebbe trasformata in un radicato conservatorismo».
Ad una Resistenza istradata all’interno delle organizzazioni partitiche ideologiche, ed in quanto tale naturaliter avviata verso la prassi della democrazia, insomma, si contrapponeva secondo Beltrami il serbatoio oscuro, e potenzialmente pericoloso e destabilizzante, di una Resistenza che si potrebbe definire “antipolitica”: cioè di un antifascismo negativo, condizionato prevalentemente da spinte individualistiche.
Michele Beltrami si spingeva poi a cercare una spiegazione di tipo socioculturale per questa differenza. Secondo lui essa era infatti dovuta al fatto che, «mentre Beltrami proveniva da una borghesia milanese colta e agiata che era sempre stata un po’ antifascista, Di Dio, militare di carriera, usciva da una piccola borghesia assolutamente impreparata alla battaglia ideologica e sulla quale il Fascismo aveva lasciato tracce profondissime come si vedrà drammaticamente nel dopo guerra»43.
Un profondo divario di classe e di cultura separava dunque ineluttabilmente, ai suoi occhi, due impostazioni non partitiche della lotta partigiana a prima vista quasi identiche: da una parte, l’antifascismo autentico, radicato, “naturale” e illuminato di una classe “colta e agiata” della quale il padre faceva parte; dall’altra, l’antifascismo superficiale, e in fondo non autentico, che era proprio di una piccola borghesia caratterizzata soprattutto da aspirazioni law and order, dalla quale provenivano i fratelli Di Dio.
Addirittura, in nome di una Resistenza autonoma ma compatibile con l’interpretazione ortodossa di una continuità tra lotta partigiana e battaglie “democratiche” (espressione con la quale si intendeva la linea politica dell’opposizione di sinistra) in epoca repubblicana, Beltrami riteneva che l’approccio di gruppi come la “Valtoce” alla lotta antifascista avesse prodotto nel dopoguerra esiti di sostanziale continuità con il fascismo: ricollegandosi, evidentemente, alle tesi ripetutamente sostenute in quell’area politica, secondo cui la Democrazia cristiana aveva costruito un “regime” cripto-autoritario che impediva la piena affermazione della democrazia in Italia.
Un giudizio più sfumato, ma nella stessa linea, sarebbe stato poi espresso nella ricostruzione, molto successiva, di un altro protagonista dell’epopea ossolana: quella già citata di Aldo Aniasi.
Tentando di dar conto delle tensioni politico-ideologiche tra i vari gruppi della Resistenza ossolana, Aniasi presenta le posizioni di Di Dio in questi termini:
Marco fa una scelta precisa: la sua adesione a quel filone di giovani che si riconoscevano nel cattolicesimo popolare; intrattiene stretti legami con i sacerdoti della zona e adotta come simbolo il fazzoletto azzurro. Marco ed alcuni suoi ufficiali non nascondono la mancanza di simpatia per le formazioni garibaldine che considerano comuniste e con le quali non ritengono di collaborare e si preoccupa di contenerne l’espansione.

Per Aniasi, insomma, la provenienza cattolico-popolare di “Marco” implicava un atteggiamento costitutivamente “divisivo” nei confronti dei partigiani di sinistra, che venivano tout court ridotti, nella visione degli “azzurri”, alle posizioni comuniste. Le ragioni di tale “divisività” in Aniasi, come in generale in chi da sinistra aveva sposato istintivamente nel dopoguerra la tesi “frontista” di un’automatica coincidenza tra coalizione antifascista e democrazia, non venivano ricondotte, nemmeno molti decenni dopo e al tramonto dei conflitti ideologici novecenteschi, ad un nucleo oggettivo di contrasto tra ideologia comunista e democrazia occidentale, o tradizione politica cattolica, bensì ad elementi psicologici o culturali soggettivi.
Nel caso specifico, la diffidenza irriducibile di Di Dio e dei partigiani della “Valtoce” verso i “garibaldini” veniva spiegata da Aniasi con la mentalità da loro acquisita nella vita militare:
Marco e i suoi ufficiali provengono dal disciolto esercito, sono ufficiali effettivi in prevalenza con una formazione culturale e una mentalità che attribuisce un significato negativo a tutto ciò che si suppone essere influenzato dalla politica.
Non è certo estranea la propaganda che negli anni precedenti considerava “comunista” tutto ciò che sapeva di antifascismo.
L‘identificazione antifascismo-comunismo è stata durante gli anni del regime la principale accusa rivolta a tutti coloro che non accettano la subordinazione alla dittatura44.

Nelle ricostruzioni scritte da punti di vista riconducibili alla sinistra a egemonia comunista, insomma, la “apoliticità” di Alfredo Di Dio viene considerata pericolosamente confinante con un’avversione nei confronti della democrazia in quanto tale, e il suo antifascismo viene derubricato ad astratto, romantico conservatorismo nazionalista, sorpassato dai tempi, se non potenzialmente foriero di un nuovo autoritarismo.
I sostenitori di questa interpretazione trascuravano, però, almeno due dati di fatto essenziali.
Il primo è che l’“impolitico” o “antipolitico” Di Dio veniva purtuttavia riconosciuto come leader incontrastato da parte di un’area della Resistenza ossolana-lombarda che nella fase del ritorno alla democrazia del dopoguerra non avrebbe affatto assunto atteggiamenti “antisistema”, ma sarebbe stata invece tra i protagonisti della costruzione dell’edificio politico-costituzionale repubblicano, dando ad esso un rilevante contributo in termini di classe dirigente.
Il secondo è che nell’atteggiamento dei partigiani della “Valtoce”, parallelamente a quanto era avvenuto nella formazione politica dei democristiani expopolari guidati da Alcide De Gasperi e nella riflessione dell’area “neoguelfa” di Piero Malvestiti, l’adesione totale ad un movente patriottico rappresentava soprattutto il definitivo superamento delle diffidenze cattoliche verso lo Stato nazionale, e sanciva l’identificazione della cultura politica cattolica con una lettura democratica del nation building italiano, dove nazione, princìpi universalistici cristiani e regime politico fondato sulla sovranità popolare venivano ormai considerati in organica continuità45.
È solo, in particolare, a partire dalla consapevolezza del compimento di questo decisivo mutamento di prospettiva politico-culturale avvenuto nel mondo cattolico attraverso il tornante dell’antifascismo e della Resistenza che è possibile comprendere adeguatamente la sostanza delle posizioni assunte da Alfredo Di Dio, e il fortissimo ascendente che esse suscitavano nell’ala cattolico-moderata della Resistenza ossolana: posizioni in cui si fondevano e sovrapponevano con naturalezza la tradizione morale e giuridica cristiana, la “religione” della patria fondata sul mito risorgimentale, l’avversione viscerale al dominio dell’ideologia, e più specificamente il rifiuto intransigente tanto del fascismo quanto del comunismo46.
Una tendenza che contemporaneamente si manifestava più in generale nelle “Fiamme verdi”, le organizzazioni partigiane cattoliche in Lombardia, e che sarebbe stata efficacemente descritta in sede di ricostruzione storiografica da Gianfranco Bianchi. Il quale, in un suo saggio sui cattolici nella Resistenza del 1971, sottolineava come quelle formazioni «vollero essere un esercito al di fuori dei partiti politici», concentrate sull’obiettivo della cacciata dei tedeschi e dei fascisti. Ma, parimenti, rilevava che la loro «apartiticità» non era un’«apoliticità»: e di ciò si rendevano conto anche i loro avversari, che le consideravano «democristiane». In realtà, concludeva Bianchi, «l’impostazione cattolica le rendeva contemporaneamente antinaziste e anticomuniste» secondo l’insegnamento delle encicliche di Pio XII, che condannava sia il neopaganesimo nazista sia il comunismo ateo di Stalin47.
La dichiarata estraneità alla polemica ideologica e l’identificazione della militanza partigiana con un servizio civico ed etico-religioso verso la comunità nazionale, proposte orgogliosamente come direttive programmatiche dalla “Valtoce”, venivano all’epoca accolte con sarcasmo da parte dei gruppi resistenziali “garibaldini” e azionisti, tra i quali circolò la definizione sprezzante di “opera pia”, riferita ai partigiani cattolici. Definizione che venne però invece rivendicata orgogliosamente, allora ed in seguito, dagli appartenenti alla divisione comandata da Di Dio, come espressione di un atteggiamento più alto, superiore appunto alle posizioni ideologiche a senso unico48.
Tra queste rivendicazioni vale la pena di ricordare, ancora una volta, un intervento rievocativo del già menzionato Aristide Marchetti. Il quale, sempre in occasione del ventennale dei fatti ossolani, ricordava che i partigiani della “Valtoce” facevano propria la taccia di “opera pia”, alludendo con quel nomignolo «alla dirittura morale del nostro Comando o all’assiduo interessamento e alla costante protezione che abbiamo esercitato verso la popolazione civile». Il contrasto radicale tra partigiani “azzurri” o autonomi e comunisti, secondo Marchetti, era dovuto in sostanza al fatto che «Alfredo Di Dio e gli altri Comandanti avevano chiaramente affermato di voler combattere per la democrazia e per la libertà contro l’anarchia, l’insubordinazione e la pretesa egemonia di un solo partito politico»49.


4. Dal conflitto ideologico a quello storiografico.

Conformemente a quanto accaduto per quanto riguarda la guerra di Liberazione nel suo complesso, anche a proposito del caso particolare della Val d’Ossola il dibattito storiografico sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta non ha del tutto superato le contrapposizioni ideologiche: ed anzi in una prima fase le ha accentuate e radicate.
In tal senso non è un caso che il primo volume compiutamente storiografico sulla Repubblica dell’Ossola – significativamente scritto non da un italiano ma da un giovane studioso tedesco, Hubertus Bergwitz, nel 1972 – avrebbe visto preposta alla sua seconda edizione, pubblicata in Italia dall’Istituto storico della Resistenza piemontese nel 1979, una severa prefazione del comunista Mario Pacor, presidente dell’Istituto storico sulla Resistenza di Novara, in cui veniva imputata all’autore una eccessiva equidistanza e neutralità tra le varie componenti e interpretazioni della vicenda ossolana, e venivano puntigliosamente riproposte, in merito alla vicenda, le tesi veicolate dalle componenti “garibaldine”.
In particolare, Pacor ribadiva che la liberazione dell’Ossola non doveva considerarsi il frutto della sola azione delle divisioni “Valdossola” e “Valtoce”, in quanto già nel luglio e agosto 1944 le brigate Garibaldi avevano liberato quasi tutta la metà della zona su cui sarebbe sorta la repubblica dell’Ossola (valli Anzasca, Antrona, Bognanco, Antigorio e Divedro)50. E, riguardo al dibattito politico nella zona liberata, egli sosteneva che mentre i membri della giunta erano animati da «spirito unitario volto esclusivamente al bene comune » non altrettanto si poteva dire di molti “capi” e “gregari” delle formazioni partigiane.
Ma ciò era a suo avviso il frutto non soltanto della competizione tra esse, bensì soprattutto di
due diverse concezioni della guerra di liberazione, che provocavano analoghi antagonismi anche altrove [...]. C’era chi vedeva nella Resistenza prevalentemente il movente patriottico, nazionale, l’esigenza di liberare il suolo patrio dall’invasore straniero, e perciò voleva che le formazioni fossero esclusivamente a carattere militare, che non vi si discutesse di politica, auspicando tutt’al più che la lotta sfociasse in un ritorno dell’Italia alla democrazia borghese prefascista, e chi invece sentiva quella lotta anche e soprattutto come una riscossa sociale oltre che nazionale, dalla quale doveva nascere un’Italia profondamente rinnovata, una democrazia non più solo formale ma sostanziale, economica oltre che politica, popolare e progressiva. Gran parte degli “autonomi” dai fazzoletti verdi o azzurri, erano orientati nel primo senso, specie quando subivano l’influenza del partito democristiano, meno quando li guidava il partito d’azione, mentre nelle file garibaldine prevaleva l’orientamento sociale51.

Insomma, per Pacor la conflittualità tra formazioni autonome e “garibaldini” rispecchiava quella tra Resistenza come “restaurazione” politica e sociale dell’equilibrio prefascista, e spinte alla trasformazione, alla creazione di una democrazia “autentica”, sostanziale e non solo formale.
Su una linea ben diversa, più recentemente l’introduzione di Marino Viganò alla nuova edizione della già citata memoria autobiografica di Marchetti cerca di ricontestualizzare il ruolo politico della “Valtoce” e di Di Dio superando le contrapposizioni ideologiche novecentesche. Egli rimarca, innanzitutto, il fatto che
parte della storiografia sulla Resistenza ha ignorato a proposito quella di orientamento moderato, l’ha cancellata esprimendo, ancora di recente, giudizi quantomeno arbitrari sulla combattività ed efficienza delle formazioni “azzurre”, soprattutto sulla loro attitudine, sottintendendo presunti compromessi con fascisti e nazisti al fine di contrastare un “avversario ideologico”: i “garibaldini” della Valsesia, del Cusio, della val d’Ossola52.

Per quanto riguarda l’orientamento politico delle divisioni autonome, Viganò sostiene che complessivamente esse «si presentano disomogenee così nella composizione come nella strategia e incorporano, di massima e quasi come ovunque, elementi che vi entrano a prescindere dal loro personale convincimento politico – ammesso vi fosse. Semplicistico così ridurre la dialettica alla contrapposizione fra “comunisti” e “anticomunisti”. Viceversa, continua Viganò, «gruppi e brigate cattolici, militari, apolitici sono mischiati e comunque popolati da socialisti, azionisti e persino comunisti di militanza»53.
Da questa ricostruzione emerge, dunque, un quadro più complesso e articolato della composizione delle divisioni “moderate”, che le configura soprattutto come ampi “collettori” di combattenti giunti alla Resistenza da percorsi vari e non riconducibili a matrici politiche unitarie.
Si potrebbe osservare però che se ciò è vero, proprio questo aspetto fa risaltare vieppiù la contrapposizione tra obiettivi e strategie diversi che inevitabilmente si venne a creare tra queste formazioni, appunto, a basso tasso di ideologizzazione, e quelle che invece erano prevalentemente cementate – come quelle garibaldine e, in parte, quelle azioniste – da una ben precisa formazione dottrinaria, e da un obiettivo politico di fondo di cui la guerra partigiana era vista soltanto come un passaggio ed uno strumento.
Un’interpretazione della storia della “Valtoce” che tiene conto di entrambi questi elementi è quella fornita recentemente da Giorgio Vecchio nel suo saggio su Marcora partigiano.
Nella visione di Di Dio – sostiene Vecchio – ogni caratterizzazione politica doveva essere esclusa essendo ora necessario concentrarsi sulla lotta armata unitaria. Da qui una rigida impostazione militare e un’altrettanto rigida disciplina che Di Dio cercava di imporre, ma anche lo scontro frontale con l’impostazione che i comunisti stavano dando alla Resistenza […]. Certo è che nella “Valtoce” la presenza di militari, di cattolici e di democristiani stava divenendo sempre più consistente, ma senza far venire meno le caratteristiche di apoliticità e quindi di pluralismo delle opinioni politiche dei suoi membri54.

Secondo questo schema interpretativo, si potrebbe insomma affermare che il pluralismo politico dei suoi aderenti, lungi dal poter essere considerato un fattore di incertezza politica della “Valtoce”, sarebbe al contrario il segno del convergere in essa di una sorta di “coalizione” antitotalitaria, in qualche modo anticipatrice rispetto al modello di alleanza centrista liberaldemocratica che si sarebbe formata negli anni del dopoguerra attorno alla Dc di De Gasperi.


5. Conclusioni

Considerando il problema in una prospettiva storica di più lungo periodo, credo si possa sostenere che intorno a formazioni partigiane come la divisione “Valtoce” si sia costituito uno tra i primi, embrionali nuclei di una opinione pubblica lato sensu moderata, non rigidamente inquadrabile entro riferimenti partitici, ma che nel dopoguerra avrebbe trovato la sua principale espressione politica nella Dc e negli altri partiti centristi, consolidandosi soprattutto intorno all’avversione al totalitarismo.
Ma le divisioni dottrinarie tra le formazioni partigiane in Ossola, e i loro strascichi politici e storiografici nei decenni successivi, aprono la strada a mio avviso ad una lettura più ampia per quanto riguarda l’identificazione del bacino di opinione che sosteneva le formazioni partigiane autonome, ed in particolare quelle cattolico-patriottiche come la “Valtoce”. Una lettura per la quale proprio la singolare figura di Alfredo Di Dio, con la sua fugace durata ma intensa forza di suggestione, può rappresentare un punto di riferimento.
Il ruolo giocato da Di Dio e dal suo gruppo nella vicenda resistenziale, e le reazioni polemiche suscitate da loro nelle altre componenti partigiane, sottolineano come nella Resistenza cattolico-moderata confluissero tre filoni importanti della cultura politica diffusa nel paese, rimasti sottotraccia o dissimulati durante il regime fascista: quello dell’universalismo cristiano nella sua versione democratica, quello lealista monarchico e quello dell’ideologia nazionale di origine risorgimentale.
Quando comincia la lotta armata contro il nazifascismo, questi tre percorsi si presentano, nelle figure dei fratelli Di Dio e in molti altri esponenti di punta di essa, già praticamente fusi in un solo blocco di opinione, che rappresenta una forza notevole di contrapposizione rispetto alla deriva pan-ideologica della lotta partigiana.
Ciò induce a chiedersi quale sia stato complessivamente lo sbocco politico conosciuto da quel “blocco” ideale dopo la fine della guerra, negli anni del ritorno alla democrazia pluralista e nell’epoca repubblicana.
È evidente che, nonostante a partire dal 1946-47 la Dc si imponesse come il perno indiscusso di uno schieramento politico moderato fondato sull’antifascismo e l’anticomunismo – e, a partire da ciò, come il partito egemone in un sistema politico a base centrista caratterizzato da un alto grado di delegittimazioni incrociate – tuttavia il nuovo partito cattolico non avrebbe assorbito, né avrebbe per sua natura potuto assorbire, in sé l’intera eredità dell’anti-ideologismo cattolico-moderato, quanto meno nelle sue componenti più inclinate in senso monarchico e conservatore.
Quella parte dell’opinione pubblica cattolica sarebbe rimasta, in misura rilevante, in una posizione di attesa, distacco e diffidenza verso la “repubblica dei partiti”. Avrebbe continuato, in gran parte, ad avere la Dc come principale punto di riferimento partitico, ma suscitando all’interno del partito una costante tensione, ed alimentando ai suoi confini una nebulosa moderata sempre più inquieta.
Proprio in quel contesto essa sarebbe divenuta spesso sensibile – allora sì – alle sirene di letture “antipolitiche” e “antipartitiche” (o quanto meno “antipartitocratiche”) della storia nazionale.
In tale nuova incarnazione, essa sarebbe venuta alla luce in misura più rilevante a partire dagli anni Sessanta, in corrispondenza con i primi sintomi di crisi strutturale del sistema politico-istituzionale nato tra la fine del fascismo e la Repubblica.





NOTE
1 Nella vastissima letteratura sull’argomento, ci limitiamo a ricordare G. Bocca, Una repubblica partigiana. Ossola 10 settembre - 23 ottobre 1944, Milano, il Saggiatore, 1964; H. Bergwitz, Una libera repubblica nell’Ossola partigiana, Novara, Istituto storico della Resistenza in Piemonte, 1979 (I ed. 1972); M. Pacor, La repubblica dell’Ossola (aspetti politici), in Istituto Storico della Resistenza in provincia di Novara e in Valsesia, Le zone libere nella Resistenza italiana ed europea. Relazioni e comunicazioni presentate al Convegno internazionale di Domodossola, 25-28 settembre 1969, Novara, Istituto Storico della Resistenza in provincia di Novara e in Valsesia, 1974, pp. 163-178; Comune di Domodossola. Comitato per il 45° anniversario della repubblica dell’Ossola. Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara “P. Fornara”, Il governo dell’Ossola..., Novara, s.e., 1999 (II ed. I, ed. 1974); F. Frassati (a cura di), Repubblica dell’Ossola. Settembre-ottobre 1944, Domodossola, Ambiente, 19842; M. Beltrami, Il governo dell’Ossola partigiana. Con una testimonianza inedita di Umberto Terracini, Roma, Sapere 2000, 1994; S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, pp. 93-101. Una rassegna bibliografica in prospettiva storica sulla vicenda ossolana, nel quadro più ampio della lotta partigiana, viene compiuta da M. Viganò, Lineamenti storiografici, appendice a A. Marchetti, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio (novembre 1943 - dicembre 1944), Riedizione critica a cura di Marino Viganò, Milano, Hoepli, 2008, pp. 297-303.^
2 Per quanto riguarda la varietà dei soggetti politici e i conflitti ideologici interni alla Resistenza italiana, tra i testi connessi più da vicino all’impostazione del presente discorso, si vedano innanzitutto L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Bologna, il Mulino, 1995 (ed. Orig. 1946); R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Torino, Einaudi, 1953; M. Salvadori, Storia della Resistenza italiana, prefazione di Riccardo Bauer, Venezia, Neri Pozza, 1955; G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza e altri scritti, con un saggio di Augusto Del Noce, Firenze, Vallecchi, 1973; G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana: settembre 1943-maggio 1945, Roma-Bari, Laterza, 19753; S. Cotta, Quale Resistenza? Aspetti e problemi della guerra di liberazione in Italia, Milano, Rusconi, 1977; R. Gobbi, Il mito della resistenza, Milano, Rizzoli, 1992; P.E. Taviani, Breve storia della Resistenza italiana, Roma, F.I.V.L., 19955. ^
3 Sulla dislocazione e composizione delle bande partigiane sul territorio ossolano nel 1944, cfr. H. Bergwitz, op. cit., pp. 43-47; M. Beltrami, op. cit., p. 37. ^
4 Per quanto riguarda la componente cattolica nella Resistenza si rimanda innanzitutto a Associazione Partigiani Cristiani, Il contributo dei cattolici alla lotta di Liberazione. Atti del 1° convegno di studi tenuto a Como nei giorni 8-9 dicembre 1962, Milano, a cura di G. Cavalli, Torino, Spinardi, 1964; M. Cocchi, La sinistra cattolica e la Resistenza, Roma-Milano, C.E.I., 1966; G. Bianchi, I cattolici, in L. Valiani, G. Bianchi, E. Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella resistenza, Milano, Franco Angeli, 1971, pp. 149-340; F. Marinelli, Cattolici e Resistenza: appunti per una ricerca..., Quaderni della F.I.A.P., 1977; B. Gariglio (a cura di), Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Bologna, il Mulino, 1997; G. De Rosa (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Bologna, il Mulino, 1997; W. Crivellin (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza: i testimoni, Bologna, il Mulino, 2000; E. Preziosi (a cura di), Ribelli per amore. I cattolici e la Resistenza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. ^
5 Su Beltrami cfr. soprattutto M. Macchioni, Filippo Maria Beltrami il Capitano. La resistenza nel Cusio dal novembre 1943 al febbraio 1944, Milano, Mursia, 1980. Sulla “Quarna” riferimenti in G. Bocca, Una repubblica partigiana, cit., p. 14; H. Bergwitz, op. cit., pp. 46-47. Sulle origini della Resistenza in Val d’Ossola v. la ricostruzione di P. Malvestiti, I quarantacinque giorni dell’Ossola, in Carlo Dané (a cura di), La Democrazia cristiana per la libertà. Cattolici, popolari e democratici cristiani nella Resistenza e nella lotta di liberazione. Prefazione di Dario Antoniozzi, Roma, Dc – Spes, 1975, p. 291. ^
6 Se ne veda la puntuale ricostruzione “in diretta” nella già citata memoria autobiografica di A. Marchetti, Ribelle, cit., pp. 96-103. ^
7 Sulla nascita e le vicende della “Valtoce” un resoconto puntuale è offerto ora da G. Vecchio, Giovanni Marcora. La formazione e la Resistenza, in E. Bernardi (a cura di), Giovanni Marcora. Milano, l’Italia e l’Europa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 26-44. ^
8 La ricostruzione più precisa in proposito è quella di H. Bergwitz, op. cit., pp. 46-47. ^
9 Sono le cifre fornite a ottobre 1944 dal comando partigiano dell’Ossola, riportate in ivi Bergwitz, op. cit., pp. 104-105. ^
10 Sui leader della Resistenza cattolica in Ossola successivamente esponenti della Dc, si veda almeno M. Viganò, Eugenio Cefis: note sulla Resistenza in Ossola, in «Verbanus. Rassegna per la cultura l’arte la storia del lago», 1996, n. 17, pp. 343-355; M. Ferrari Aggradi, Commemorazione di Enrico Mattei, in G. Cavalli (a cura di), Il contriibuto dei cattolici alla lotta di Liberazione. Atti del 1° convegno di studi tenuto a Como nei giorni 8-9 dicembre 1962, Milano, Torino, Spinardi, 1964, pp. 29-58; D. Guarnieri (a cura di), Enrico Mattei. Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, Pisa, BSF, 2007; N. Perrone, Enrico Mattei, Bologna, il Mulino, 2001. Su Giovanni Marcora, “Albertino“, cfr. L. Castoldi, Marcora. Storia di un leader, Milano, Giornalisti riuniti, 1986; G. Borsa, Giovanni Marcora. Un politico concreto, dalla Resistenza all’Europa, Milano, Centro ambrosiano, 1999; G. Di Capua, Albertino Marcora: politico del fare, prefazione di Giancarlo Galli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007; G. Borsa, G. Mainini, Giovanni Marcora. Un’esperienza che continua, Milano, In Dialogo, 2008; da ultimo G. Vecchio, op. cit., pp. 11-60; M. Pizzigallo, Le origini di una grande amicizia: Mattei e Marcora negli anni della Resistenza; A. Canavero, Le radici spirituali e politiche di Marcora, in E. Bernardi (a cura di), Giovanni Marcora, cit., rispettivamente pp. 51-60 e 61-73. ^
11 Sui rapporti tra le organizzazioni cattoliche e il regime fascista cfr. R. Moro, Afascismo e antifascismo nei movimenti intellettuali di Azione cattolica dopo il ‘31, in «Storia contemporanea», 1975, pp. 733-799; Id., La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna, il Mulino, 1979. Sulla genesi dell’antifascismo cattolico, ed in particolare sul Movimento Guelfo d’Azione, C. Bellò, Introduzione al “guelfismo” di Piero Malvestiti e G. La Pira, Piero Malvestiti nell’antifascismo e nella Resistenza, in Aa.Vv., Piero Malvestiti nell’antifascismo e nella Resistenza, Milano, Centro di cultura e stampa 2000, 1965, rispettivamente pp. 15-21 e 23-49; G. Malavasi, L’uomo Malvestiti e C. Bellò, Antifascismo e spiritualità del movimento guelfo, in Aa.Vv., Piero Malvestiti, Milano, Vita e pensiero, 1972, rispettivamente pp. 6-51 e 53-126; C. Brezzi, Il gruppo guelfo fra gerarchia ecclesiastica e regime fascista, in P. Scoppola, F. Traniello (a cura di), I cattolici tra fascismo e democrazia, Bologna, il Mulino, 1975, pp. 235-297; P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Roma, Studium, 1979; G. Malavasi, L’antifascismo cattolico. Il Movimento guelfo d’azione (1928-1943). Intervista di Giuseppe Acocella, Roma, Edizioni Lavoro, 1982; C. Bellò, L’onesta democrazia di Piero Malvestiti, Milano, NED, 1985; P. Malvestiti, Mia dilettissima... Lettere alla famiglia del guelfo condannato dal tribunale speciale, introduzione e commento di S. Antonioli e G. Cameroni, Milano, NED, 1989; P. Trionfini, L’“antifascismo cattolico” di Gioacchino Malavasi, Presentazione di G. Acocella, Roma, Edizioni lavoro, 2004. ^
12 Sui “Dodici punti” cfr. C. Bellò, L’onesta democrazia..., cit., pp. 81-86; G. Malavasi, L’antifascismo cattolico, cit., pp. 78-88; Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., pp. 51-52. ^
13 Per il ruolo giocato dai neo-guelfi nel dibattito politico della transizione dal fascismo alla democrazia, e nella genesi della Democrazia cristiana, cfr. P. Malvestiti, La lotta politica in Italia dal 25 Luglio 1943 alla nuova Costituzione. Testimonianze e contributi per la storia della Repubblica, Introduzione di P. Bondioli, Milano, Ed. Bernabò, 1948; Id., Lettere al presidente. Carteggio De Gasperi-Malvestiti: 1948-1953, a cura di Carlo Bellò, con una testimonianza su De Gasperi di Piero Malvestiti, Milano, Bonetti, 1964. Riferimenti significativi si trovano in S. Tramontin, La Democrazia cristiana dalla Resistenza alla Repubblica (1943-1948), in F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia cristiana. I: Dalla Resistenza alla repubblica, 1943-1948, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1987, pp. 27-29; G. De Rosa, Da Luigi Sturzo ad Aldo Moro, Brescia, Morcelliana, 1988, pp. 22-31; G. Formigoni, Alcide De Gasperi 1943-1948. Il politico vincente alla guida della transizione, in V. Capperucci, S. Lorenzini (a cura di), Alcide De Gasperi e la fondazione della democrazia italiana 1943-1948, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 11-147; V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 26-27, 50-55. ^
14 Una rilevante testimonianza memorialistica che sembra sfuggire al cliché delle “memorie divise” e alle strettoie ideologiche è quella, molto recente, di A. Realfonzo, I giardini rosminiani, prefazione di G. D’Agostino, Napoli, Dante e Descartes, 2008. ^
15 G. Bocca, Una repubblica partigiana, cit., pp. 39-41; H. Bergwitz, op. cit., pp. 52-53. ^
16 Ossola, repubblica dell’, in Dizionario della Resistenza. Volume secondo: Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, 2001, p. 253. ^
17 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 409. Un caposaldo nell’interpretazione comunista della vicenda ossolana, in cui veniva incorporata la memoria di uno tra i protagonisti della lotta, sarebbe stato rappresentato, qualche anno dopo, da P. Secchia, C. Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nel Biellese, nella Valsesia e nella Valdossola, Torino, Einaudi, 1958.^
18 H. Bergwitz, op. cit., pp. 43-47; A. Marchetti, I fratelli Di Dio, in «Il Popolo», 25 aprile 1965, poi in C. Dané (a cura di), La Democrazia cristiana per la libertà. Cattolici, popolari e democratici cristiani nella Resistenza e nella lotta di liberazione. Prefazione di D. Antoniozzo, Roma, Dc – Spes, 1975, pp. 289-290. ^
19 Sulla biografia politica di Aniasi dalla Resistenza ossolana alle cariche di sindaco di Milano, deputato e ministro, cfr. G. Morrone, G. Scirocco (a cura di), Grazie, Iso. Dall’Ossola a Palazzo Marino a Montecitorio. Atti della giornata di studio su Aldo Aniasi: il partigiano, l’amministratore, il politico, Milano, M&B, 2007. ^
20 A. Aniasi, Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione italiana, introduzione di L. Valiani, Milano, M&B Publishing, 1997, pp. 197-198. ^
21 Cfr. A. Azzari, I rapporti fra l’Ossola e gli alleati nell’autunno del 1944, in «Il movimento di Liberazione in italia», 1958, nn. 52-53; M. Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, Studio e documenti, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, [1968?], pp. 31-33. Non condivide la tesi della conquista frutto di circostanze occasionali, e ritiene che la liberazione dell’Ossola fosse stata in parte rilevante il risultato di un progetto del Clnai in accordo con gli Alleati angloamericani, Beltrami, Il governo dell’Ossola partigiana, cit., pp. 37-38. ^
22 Ivi, pp. 236-237. ^
23 Testimonianza di Eugenio Cefis (4 novembre 1992) raccolta da M. Viganò, Partigiani “azzurri” nell’Ossola, cit., p. 13. ^
24 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 410. ^
25 Per le confliggenti valutazioni e le tensioni tra le diverse formazioni partigiane in merito alla strategia da adottare dopo la liberazione della Valdossola, e sul compromesso politico raggiunto con la costituzione della Giunta provvisoria, cfr. Bocca, Una repubblica partigiana, cit., p. 43; H. Bergwitz, op. cit., pp. 52-54. L’argomento, cruciale per l’interpretazione storica della vicenda, viene ripreso da M. Pacor, Introduzione a H. Bergwitz, op. cit., per sostenere la tesi secondo cui i partigiani “garibaldini” agivano in base ad un lucido disegno politico, e quindi erano fautori di una guerra “totale” (includente anche l’autogoverno delle zone liberate) mentre quelli autonomi, proprio in contrasto all’inclinazione in senso accentuatamente democraticosociale dei partigiani di sinistra, erano più propensi a soluzioni attendiste (pp. 25-27). ^
26 H. Bergwitz, op. cit., pp. 54-57. ^
27 Testimonianza di Aminta Migliari (24-27 aprile 1988 e 1°-11 giugno 1989) raccolta da L. Viganò, in L. Viganò, Partigiani “azzurri” nell’Ossola, cit., pp. 13-14.^
28 Una vasta parte della documentazione dell’attività di governo della Giunta provvisoria è raccolta in Comune di Domodossola. Comitato per il 45° anniversario della repubblica dell’Ossola. Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara “P. Fornara“, Il governo dell’Ossola..., Novara, s.e., 1999 (II ed., I ed. 1974). Per una valutazione complessiva sull’esperienza del governo partigiano in Valdossola, e in particolare per la dialettica politica tra i gruppi che lo costituivano, nella vasta letteratura memorialistica e storiografica ci si limita a rimandare a M. Pacor, La repubblica dell’Ossola (aspetti politici), cit. (esalta la collaborazione tra le diverse componenti); M. Beltrami, op. cit., pp. 32-95 (enfatizza i conflitti e le differenze politicoideologiche); M. Legnani, op. cit., pp. 44 (sottolinea l’alto profilo dei provvedimenti della Giunta); S. Peli, op. cit., pp. 96-97 (distingue tra un bilancio positivo dell’esperienza ossolana dal punto di vista politico, e una sua insufficienza da un punto di vista strategico-militare). ^
29 H. Bergwitz, op. cit., p. 96. ^
30 Ivi, p. 112. ^
31 Ivi, pp. 109-110. ^
32 Ci si limita in questa sede a rimandare, tra la più recente letteratura storiografica, a T. Piffer, Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di liberazione, Milano, Mondadori, 2005; Id., Gli alleati e la Resistenza italiana, Bologna, il Mulino, 2010; G. Orsina, Quando l’Antifascismo sconfisse l’antifascismo. Interpretazioni della Resistenza nell’alta cultura antifascista italiana (1955-1965), in «Ventunesimo secolo», n. 7, aprile 2005, pp. 9-43; P. Varvaro, L’altra Italia della Resistenza liberale, in «Ventunesimo secolo», n. 8, ottobre 2005, pp. 65-91; G. Nicolosi, L’interpretazione liberale della Resistenza, in ivi, pp. 93-120. ^
33 Per qualche notizia si rimanda a A. Marchetti, I fratelli Di Dio, cit., p. 286; Viganò, Note biografiche, appendice a A. Marchetti, Ribelle, cit., p. 324. ^
34 H. Bergwitz, op. cit., pp. 109-110. ^
35 A. Marchetti, Ribelle, cit., p. 53. ^
36 Ivi, p. 63. ^
37 P. Malvestiti, I quarantacinque giorni dell’Ossola, cit., p. 296. ^
38 A. Marchetti, I fratelli Di Dio, cit., pp. 289-290. ^
39 A. Marchetti, I cattolici di fronte alla lotta armata (conversazione tenuta il 31 gennaio 1975 all’Università Cattolica di Milano), in 1945-1975 Italia: fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento. Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel Trentennale della Liberazione, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 279. ^
40 Ivi, pp. 280-281.^
41 Per un inquadramento storiografico della ripresa in chiave ideologizzata del mito della Resistenza dopo il 1960, e poi ulteriormente a partire dal neo-radicalismo sessantottino, come elemento caratterizzante della sinistra italiana di opposizione si rimanda, oltre che al già citato saggio di Orsina Quando l’Antifascismo sconfisse l’antifascismo, a E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta politica nell’Italia repubblicana, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 227-262. ^
42 G. Bocca, Una repubblica partigiana, cit., pp. 17-19.^
43 M. Beltrami, op. cit., pp. 32-33.^
44 A. Aniasi, op. cit., p. 194. ^
45 Su questo passaggio, cfr. tra l’altro S. Tramontin, La Democrazia cristiana dalla Resistenza alla Repubblica, cit., pp. 19-29; G. Malavasi, L’antifascismo cattolico, cit., pp. 56-88; L. Radi, La DC da De Gasperi a Fanfani. Introduzione di G. Quagliariello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 27-29. ^
46 Per la maturazione e la sedimentazione, attraverso il tornante resistenziale, di una nuova teoria universalistica della democrazia nella cultura politica cattolica, cfr. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, cit., pp. 187-189; G. Campanini, La democrazia nel pensiero politico dei cattolici (1942-1945), in G. De Rosa (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 491-511. ^
47 G. Bianchi, I cattolici, cit., pp. 202-203.^
48 Ivi, pp. 274-275.^
49 A. Marchetti, Le formazioni “Fratelli Di Dio”, in G. Cavalli (a cura di), Il contributo dei cattolici alla lotta di Liberazione, cit., pp. 171-172. ^
50 M. Pacor, prefazione a H. Bergwitz, op. cit., p. 19.^
51 Ivi, pp. 24-25.^
52 M. Viganò, Partigiani “azzurri” nell’Ossola, cit., pp. 7-8.^
53 Ivi, p. 8.^
54 G. Vecchio, op. cit., pp. 27-28.^
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