LALLA ROMANO. RITRATTO PERSONALE
In occasione del decennale della morte di Lalla Romano (Demonte, Cuneo, 1906 – Milano, 2001) mi è stato chiesto di dire qualcosa su di lei: all’invito gentile avevo risposto in modo vago, perché non amo pestare l’acqua nel mortaio e, da quando scrissi di lei pittrice e del rapporto che la sua tela ha con la sua scrittura
1, non ho avuto occasione di tornare su di lei. Mi è mancata l’occasione, il tempo, e soprattutto qualcosa di nuovo da dire. Poi l’infaticabile Antonio Ria, vero sacerdote sull’altare della musa, è tornato alla carica: con il suo tono garbato e suadente. Gli risposi «Lalla mi manca come donna e come scrittrice», e, lui di rimando: «È un buon inizio… per un ritratto personale!». E solo questo intendo fare e di qui intendo partire, perché Lalla Romano anche come donna è stata una donna speciale, con la sua solidità piemontese, con quel suo portamento da eroina risorgimentale, con la sua vita difficile e per taluni versi crudele e felice allo stesso tempo, per il modo in cui ti guardava, e sembrava avesse nello sguardo una bilancia con la quale ti soppesava. Il rapporto che ho avuto con lei è stato episodico, distribuito nel tempo con lunghi intermezzi e silenzi, ma non superficiale. Punteggiato dai libri che mi inviava con la sua dedica e le sono grato per questa immeritata attenzione. Non so cosa sapesse di me, non ho mai avuto l’ardire di chiederle se avesse letto qualcosa di mio. Una prima volta sono stato nella sua casa di via Brera 17, dove Lalla Romano ha vissuto dal 1952 fino alla morte, assai bella con i mobili da lei disegnati quando sposò Innocenzo Monti nel 1932, e nei fui preso: stipata delle sue memorie, dei suoi libri, delle sue scartoffie distribuite ovunque, dei suoi quadrucci sui quali a lungo indugiai, con i contenitori delle sue foto e delle sue carte: una “casa d’artistaâ€, tipica di una pittrice e letterata. E mi sembrò di vederla giovane in un flashback, così come la vide e forse se ne invaghì il suo compagno di Università e grande letterato, quale divenne, Carlo Dionisotti. Le fece il ritratto in un modo impareggiabile, con un breve testo in cui compare con una lunga treccia nera, sulla quale erano appuntati gli occhi di molti coetanei, presi da lei, dalla sua austera bellezza, dal suo portamento da Kore arcaica che conservò negli anni. Ho riletto il testo dell’intervento di Dionisotti negli Atti del convegno del 1994
2, ed è assai bello e denso di riferimenti, per il modo in cui dice dei loro maestri e del clima austero che si respirava nell’Ateneo torinese. Della passione condivisa con Lalla Romano e con altri per la cultura francese fosse essa letteraria o artistica. Ma non c’è quel cenno alla treccia di Lalla, che credo di aver ascoltato, quando Dionisotti disse a braccio quel che pensava di lei, quel giorno in cui parlò a Milano nell’omaggio che fu reso a Lalla con due giorni di studi a lei dedicati. Se non erro, se non ricordo male, disse della treccia di Lalla, ma nella relazione l’ha rimosso: il vecchio professore anglicizzato con il suo
understatment non ritenne utile inserirlo nel testo dato alle stampe. Altrimenti io come mi sarei inventata la treccia di Lalla? Escludo che sia un parto della mia fantasia, perché è un tocco così personale e intimo, che solo un coetaneo e testimone di quegli anni poteva aver tratto dalla sua memoria.
Ci vedemmo, credo, l’ultima volta con Lalla Romano al convegno milanese:
parterre imponente di studiosi degnissimi, con Cesare Segre
3 a far da regista con la sobrietà del saggio che ne sa più di tutti, come s’evince dai Meridiani da lui curati. Nel corso di alcune sedute Lalla mi fece cenno di sedere accanto a lei e così potei notare gli impercettibili movimenti delle mani, i gesti contenuti delle spalle e delle braccia, osservai il suo volto apparentemente immobile mentre l’uno o l’altra parlava di lei: potei valutare così cosa pensava, e provai a capire cosa poteva passarle per la testa. Interesse e tedio, ammirazione e anche dissenso quasi risentito. Mi guarderò bene dal dire a chi li riservò.
Quando parlai, anch’io temevo i suoi muti commenti, i suoi sguardi, e la guardavo dal palco, seduta in prima fila: mi sembrò interessata, ma non era la mia una sciocca presunzione: quando finii, tornai a sedere accanto a Lei. Non mi disse nulla, mi lanciò un sorriso appena accennato e poggiò la sua mano sulla mia. Forse non la delusi, e non vorrei che queste poche righe le facciano cambiare opinione dall’Ade dove ci ascolta e ci vede. Non so quali sentimenti avesse dell’aldilà Lalla Romano, ho motivo di pensare che il suo aldilà l’immaginava come le marine che racconta in
Le lune di Hvar. Icona indimenticabile nella sua prodigiosa secchezza, nel rintocco della sua punteggiatura sincopata, nella sua scrittura atonale. Ezio Raimondi, presentando la mostra che si tenne al Castello malatestiano di Longiano, Forlì, nel novembre 1994, prefigurò, come è solo di un grande critico, quello che sarebbe accaduto alla sua prosa con
Le lune di Hvar e scrisse, alludendo esplicitamente al «dono di giuste parole» evocato dalla stessa Romano: «le parole giuste, le parole secche, le parole che hanno una risonanza stretta, che non tendono ad effondersi, che vogliono come restare nel loro controllo, un poco alla maniera del clavicembalo, senza l’effusione del pianoforte»
4. E Lalla Romano, suona proprio come un clavicembalo quelle tarde pagine: certamente il suo tocco inconfondibile si ascolta già chiaro in
Fiore fino a
Giovane è il tempo: e se si considera il tempo che è trascorso tra l’uno e l’altro testo poetico si ha la prova di una coerenza cristallina, non scalfita dallo scorrere dei decenni. Eugenio Montale aveva già scritto, nella stessa linea, quasi epigrammaticamente, di una poesia «contratta». E nella «Prima luna», quando principia il suo diario tra Istria e Dalmazia, ci offre una fulminante immagine risolutiva: «Vacanza come massimo impegno, cioè argomento
esclusivo. Forse anche – per me – “guardare†come “scritturaâ€Â». È una frase secca, «contratta», senza rimedio nella sua reticenza programmatica, e mi ha ricordato una risposta altrettanto secca di Henri Cartier-Bresson. Ero nel suo studio a Montparnasse, dove l’andavo a trovare di tanto in tanto, era sempre elegante, con occhiali spessi e scuri per problemi alla vista, lui tutto
visus. Da anni sempre più solitario era tornato al disegno, voleva tornare a fare il pittore come aveva incominciato a fare da giovanissimo, poi la foto ebbe la meglio su di lui, e le circostanze della vita anche. Gli chiesi con un pizzico d’impudenza: «Perché hai smesso di fotografare?», e, lui di rimando: «non ne ho più bisogno, guardo!» E fece un gesto con la mano, indicando un qualcosa. Il grande fotografo non aveva più bisogno dell’obiettivo e della camera per fissare nella sua testa un’immagine, a lui bastava guardare. Lalla Romano ad Hvar non rinunciò alla penna e alla pagina, ma scriveva a suo modo, guardando dentro di sé e intorno a sé quello che le offriva un paesaggio incantato e divenuto magico nelle sue mani.
Poco forse ho detto di
Lalla ed io, ed è bene che sia così: ma voglio
in limine ricordare la colazione che facemmo con molti amici ad un ristorante da convegno, cioè poco confortevole e con portate prestabilite, a poca distanza dall’Arengario: sedei vicino a lei e a Giulio Einaudi, che si amavano e si detestavano come tutti i vecchi amici con temperamenti forti e un po’ rancorosi. Non potei ascoltare tutto quello che si dicevano, perché c’era il frastuono di un ristorante di convegno e l’accavallarsi delle voci di noi italiani, ma quello che riuscii a percepire, le frecciatine che si lanciavano, i sorrisetti beffardi dell’Editore, le risposte laconiche di lei e i suoi sguardi come fendenti li ricordo bene. Ed è per me un bel ricordo di Lalla Romano, impietosa, severa, senza ammiccamenti neanche con gli amici di una vita. D’altronde in esordio al breve
Poscritto, al volume degli Atti, una sola paginetta, Lalla Romano così scrive: «Sono molto severa e magari ingiusta, non indulgente, nei giudizi, perciò dovrei fare una scala tra gli interventi che mi sono riusciti più utili, che sono stati più profondi, più nuovi. Certo ho imparato, particolarmente da qualcuno (ma non voglio fare nomi: tutti hanno dato un contributo) a convincermi che nella mia lunga strada, resa difficile dai miei molteplici interessi, ho seguito quello che sentivo di dover fare».
NOTE
1 Cfr. C. de Seta,
I “ritratti†e i paesaggi di Lalla Romano tra iconografia e testo letterario, in origine in
Intorno a Lalla Romano. Scrittura e pittura. Saggi critici e testimonianze, a cura di A. Ria, Milano, Mondadori, 1996, pp. 310-23, poi riproposto con lievi varianti e lo stesso titolo nel mio
Le Lettere e le arti. Un dialogo inquieto, Torino, Nino Aragno, 2006, pp. 69-86.
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2 Cfr. C. Dionisotti,
Ricordi torinesi: “Fiore†e Ferdinando Neri, in
Intorno a Lalla Romano, op. cit., pp. 8-20.
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3 Cfr. L. Romano,
Opere, voll. I-II, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1997
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4 E. Raimondi,
L’“integrità †di Lalla Romano, in
Intorno a Lalla Romano, op. cit., p. 24.
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