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Storiografia risorgimentale e meridionalismo crociano
di Luigi Compagna
Non sempre accade che i modi e i tempi della storia politica di un paese consentano di riconoscere, nell’arco della stessa generazione, i meriti della storiografia nazionale. Questo, invece, è quanto accaduto recentemente in Italia, a mo’ di bilancio, del centocinquantesimo anniversario dello Stato unitario, Giorgio Napolitano sul «Corriere della Sera», in una lunga e distesa conversazione natalizia con Marzio Breda, individuava nel Cavour di Rosario Romeo l’opera che meglio ripercorrerebbe la trama della nostra Italia.
Considerazione peraltro non imprevista, dal momento che alla storiografia di Romeo il Capo dello Stato si era già riferito in un passaggio del suo interessantissimo discorso del febbraio 2010 all’Accademia dei Lincei. Ma considerazione che merita di venire ripensata e ripercorsa sotto due profili, per molti versi inseparabili e a loro modo complementari: storiografia risorgimentale e meridionalismo crociano.
A Napoli, insieme ai suoi amici Francesco Compagna e Vittorio de Caprariis, Romeo aveva fatto parte della primissima generazione di allievi dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici. E non c’è dubbio che l’aver varcato il portone di Palazzo Filomarino come “borsisti” dell’Istituto continuerà a pesare, nelle loro scelte, più di tutto quel che verrà dopo (dal meridionalismo della SVIMEZ alla fondazione di «Nord e Sud», dalla fedeltà all’ANIMI alla collaborazione con «Il Mondo» di Mario Pannunzio).
Più intensamente di Compagna e de Caprariis, i quali si sarebbero sentiti tocquevillianamente attratti pure dalla geografia, Romeo avrebbe esercitato esclusivamente il “mestiere di storico” del Risorgimento (dal pre-Risorgimento al post-Risorgimento, dalla Sicilia dei Vespri al Piemonte in Crimea, insomma della nazione Italia, del suo essere Europa, cioè Occidente). Quella generazione, la stessa di Gerardo Chiaromonte e di Giorgio Napolitano, discusse molto sul punto se l’antiCroce fosse stato Gramsci. Romeo, impegnato in prima persona ad esser lui l’antiGramsci, alla battaglia politica in senso stretto partecipò pochissimo, proprio perché le sue pagine parlavano per lui fin da quando aveva venticinque anni e contenevano, per il loro rigore storiografico, anche una nitida presa di posizione politica. Si pensi agli scritti su «Nord e Sud» nelle seconda metà degli anni Cinquanta che comporranno il volume laterziano Risorgimento e Capitalismo.
Alle approfondite e appassionate pagine della sua opera più importante, dedicata a Cavour, era come se in qualche misura Rosario Romeo si fosse predisposto e prenotato con più di trent’anni di anticipo. Da quando, giovane studioso di storia del liberalismo italiano, aveva deciso di risalire alla Costituzione siciliana del 1812. Suo obiettivo era già quello di arrivare poi un giorno a Gladstone e a Cavour: a quel che oggi si direbbe il national State building della nostra storia, onore e vanto di un liberalismo italiano, spesso ingenerosamente rubricato come appendice provinciale (“statual-hegeliana”) di altri liberalismi europei.
C’è antica sicilianità e, ad un tempo, moderna sensibilità nel mondo de Il Risorgimento in Sicilia di Romeo, libro del 1949, ricognizione cioè di quell’ambiente intellettuale che, fra il 1830 e il 1850, era andato «formandosi una coscienza di respiro europeo» su temi, argomenti, motivi culturali, appunto, di liberalismo europeo. Si pensi al liberalismo economico, ai lavori di Emerico Amari, Raffaele Busacca, Vito D’Ondes Riggio, Placido De Luca, Salvatore Marchese, Giovanni Bruno, il principe Lanza di Scordia, Mario Rizzari, Salvatore Majorana Calatabiano e soprattutto Francesco Ferrara, collaboratore del palermitano «Giornale di statistica». E si pensi pure a quella nuova concezione della storiografia (filologicamente riconducibile a La guerra del vespro siciliano di Michele Amari) storicisticamente ispirata all’interpretazione che del Vico aveva saputo dare Emerico Amari.
Romeo ricostruiva quel clima di straordinaria apertura, tutt’altro che periferico, subalterno, provinciale (come aveva suggerito nel 1924 la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero), nel quale avevano vissuto gli esponenti del liberalismo italiano in Sicilia. Stava il fatto che, mentre la storia dell’Italia settentrionale e centrale era stata principalmente storia di Comune, quella dell’Italia meridionale era stata storia di uno Stato: uno Stato nazionale, al tempo di Amari voluto pensato, inseguito, costruito soprattutto come Stato liberale. E il fatto che sui Vespri Romeo sembrasse, più che a quella di Croce, rifarsi alla lettura che ne aveva dato negli anni Venti Vittorio Emanuele Orlando, non cambiava le cose.
Il sentimento dello Stato nazionale come Stato liberale avrebbe sempre unito quei giovanissimi crociani. Non a caso, quando il libro di Romeo da Panfilo Gentile, che lo recensì su «Il Mondo», venne ritenuto para-marxista (non tanto perché vi fosse troppa attenzione alle condizioni economico-sociali, o troppo poca agli aspetti etico-politici, quanto perché agli occhi de «Il Mondo» il giovane storico era sospettato di inaccettabile equivicinanza fra Croce e Volpe), Compagna e de Caprariis ne rimasero molto male e si fecero con Pannunzio ambasciatori dell’amarezza “giornalistica” del loro amico. In realtà quella equivicinanza fra Croce e Volpe in Romeo c’era e si avvertiva.
Analoga equivicinanza non fra Croce e Volpe, ma fra Croce e Salvemini nel suo caso volle sempre mantenere Compagna che, accanto a Romeo, aveva scelto la “eresia” di un meridionalismo crociano contro le “ortodossie” del meridionalismo gramsciano. Sul liberalismo crociano la posizione comunista era allora dedotta, appunto, dalla “tesi” di Gramsci sulla questione meridionale come questione agraria, forzandone l’interpretazione nell’Italia meridionale (e perciò Compagna fu lietissimo di pubblicare nel n° 9 di «Nord e Sud» l’articolo di Giuseppe Galasso sul Meridionalismo di complemento, come vi si qualificava quello gramsciano e, poi, comunista, e se ne rallegrò con Compagna Pannunzio e se ne risentirono i comunisti di «Cronache meridionali»).
Da Mario Alicata a Giorgio Napolitano, dalle pagine di «Rinascita» a quelle di «Società», passando talvolta per quelle di «Belfagor», e poi di «Cronache meridionali», il martellamento era continuo. Ci si richiamava insistentemente a Gramsci: non solo per volgarizzare la sua interpretazione di Croce proprietario agrario, ma anche per svilupparla sulla base di esperienze successive a Gramsci e di opere crociane che al tempo di Gramsci non erano ancora state scritte. Le stesse obiezioni che Croce aveva mosso al determinismo dei meridionalisti venivano segnalate dai comunisti non già come critica ai loro eccessi di positivismo, ma come sorrette dal cinico intento di difendere, comunque, il “blocco agrario”, di mascherare e sottovalutare i problemi e le esigenze delle masse popolari, di sviare dalle questioni sociali gli interessi morali e politici degli intellettuali meridionali.
Sicché, poco dopo la morte di Croce, quando dall’«Archivio Storico delle Province napoletane» venne chiesto a Compagna un’analisi dei rapporti fra Croce e i meridionalisti, l’occasione parve all’autore la migliore per addentrarsi (con “civismo di tradizione risorgimentale” e con irriducibile spirito liberale) nel Labirinto meridionale (Neri Pozza, Venezia, 1955). I vari argomenti di quel libro ruoteranno tutti intorno al tema sul quale nel dicembre del 1954 si era avviata a Napoli l’esperienza di «Nord e Sud»: come mai, nel Mezzogiorno, a una così alta tradizione culturale, quella evocata da Croce a conclusione della sua Storia del Regno di Napoli, non avesse corrisposto che una mediocre tradizione politica, negazione del sentimento nazionale nella retorica nazionalista, impedimento alla coscienza civile di svolgersi e di maturarsi fra rissosi interessi particolaristici.
Riaffioravano, ma in diversa prospettiva, la memoria ed il significato del discorso pronunciato da Croce a Muro Lucano, Il dovere della borghesia nelle provincie napoletane, il 10 giugno del 1923, per la inaugurazione della biblioteca popolare “Enzo Petraccone”. In quel discorso Croce aveva notato come le province fossero state «inerti o avverse agli impulsi ideali e politici che provenivano dalla capitale» (cioè dalla grande cultura). L’antagonismo di giacobini e realisti, o di liberali e borbonici, si era convertito in provincia assai spesso in quello di «famiglie e di gruppi di famiglie, divise da gare economiche e più ancora da gelosie che si esasperavano in ferocie di odi», come avevano già notato Spaventa e De Sanctis.
Certo, nel rilevare questa malattia costituzionale della vita politica nelle provincie meridionali, Croce non negava come fosse proprio dalle province che si riversavano nella capitale e ancora si riversano «gli uomini migliori per la magistratura, per l’amministrazione, per la politica, per la scienza, per le lettere. Perché è questo fenomeno di progressivo depauperamento di una provincia già povera che contribuisce a spiegare l’altro».
Attaccare Croce perché estraneo alle idee gramsciane sui contadini nel Risorgimento era per Compagna soprattutto un espediente della propaganda comunista.
Chiedere [si legge in Labirinto meridionale (p. 37)] che i patrioti, fossero pure del Partito d’Azione, ponessero la questione agraria nel Risorgimento, significa chiedere che non si facesse l’unità d’Italia, data la situazione d’allora, il gioco di forze sociali e politiche d’allora, nazionali ed internazionali (ma a queste ultime non si pensa, quasi che l’Italia fosse un pianeta a sé stante e sulle sue possibilità di unificazione non avessero avuto peso decisivo le condizioni internazionali, quelle che avevano già fatto fallire, ovunque, la rivoluzione del ‘48 e consentirono, invece, a Cavour il ‘59!). Il cercare soltanto, o anche prevalentemente, quel che non è stato fatto nel Risorgimento e fino al 1915 è la proiezione politica immediata nel passato di un atteggiamento politico di oggi che ha un suo deciso programma d’azione per l’avvenire: è ancora, azione politica e non valutazione storiografica.

La rete abilmente tessuta dai comunisti prevedeva, nella generazione dei Romeo e dei Compagna, la formula di un “comunismo meridionalista”, imperniato sul massimo ascolto di Gramsci e di Dorso, il primo pubblica accusa e il secondo parte civile di un processo da istruire al Risorgimento per ottenere la condanna a morte della Storia del Regno di Napoli e della Storia d’Italia. In quel processo i Romeo, i Compagna (anche con la loro idea di fondare «Nord e Sud» come tribuna di “meridionalismo crociano”, dalla quale mobilitare nuove energie liberaldemocratiche, come di fatto avvenne) si sentirono schierati a difesa del Risorgimento, al mondo che era stato degli Omodeo e degli Chabod nella generazione precedente.
Malgrado la sua forte accentuazione antigiolittiana, anche la storiografia economico-giuridica di Salvemini e di altri collaboratori della sua «Unità» era tutt’altro che gramsciana o propensa al “meridionalismo comunista”. Per essa, lo “Stato storico” di Dorso, indipendentemente dalla sua insufficienza, è pur sempre lo Stato liberale, lo Stato moderno, lo Stato europeo.
A Salvemini, avrebbe, inoltre, notato allora Compagna, «i teorici dell’antimeridionalismo di Croce sembra diano scarso risalto, anche se Salvemini fu effettivamente numerose volte in polemica con Croce. Forse ciò deriva dal fatto che Salvemini, impenitente liberale, ha detto e continua a dire tutto quello che pensa sui fronti popolari e sulla coincidenza della causa contadina con la causa dello Stato-guida». Negli anni Cinquanta, del resto, Salvemini si era fatto insofferente rispetto al proprio classismo di un tempo ed era andato attenuando in una qualche misura anche i suoi antichi furori anti-giolittiani.
Io non ho più [si leggeva nella sua prefazione all’Antologia della questione meridionale, a cura di Bruno Caizzi (Milano, Comunità, 1950)] nella capacità politica dei meridionali quella baldanzosa fiducia che avevo quando i trent’anni erano ancora di là da venire. Per il contadiname meridionale ho lo stesso rispetto che avevo allora. Ma il contadiname, nel Mezzogiorno d’Italia, come in tutti i paesi del mondo, ha bisogno di guide. Queste guide non possono venirgli che dalla piccola borghesia intellettuale. Ora questa classe sociale è nell’Italia meridionale, nella sua immensa maggioranza, moralmente marcia.

Giudizio amaro, che Compagna in buona parte condivideva, attribuendone le radici alla fin troppo estesa diffusione del nazionalismo meridionale, la cui nascita era per lui ben anteriore al fascismo e a quella piccola borghesia meridionale aveva fatto assai male. Sicché, rispetto alla “immensa maggioranza” di cui parlava Salvemini, nella nuova generazione, ci sarebbe stata sicuramente per Compagna una minoranza meno esigua di una volta, in grado di interpretare il seme di un avvenire migliore. Forse non era un caso che nel Mezzogiorno gli abbonati a «Nord e Sud» fossero fin dalla metà degli anni Cinquanta più di trecento, mentre quelli all’«Unità» di Salvemini non erano mai stati più di cento.
L’importanza del nazionalismo [secondo Compagna] nella questione meridionale, come antimeridionalismo dei meridionali, sta a dimostrare che il cosiddetto rapporto Croce-Mezzogiorno non si è posto in termini gramsciani di vassallaggio, cioè, della cultura media alla egemonia crociana, che avrebbe spinto, appunto, gli intellettuali verso i diversivi eruditi, anziché verso la questione meridionale. Il rapporto è molto diverso. Croce ha considerato il problema della formazione di ceti politici e dirigenti, capaci di risolvere l’ondeggiante gruppo di problemi secondo lo spirito della tradizione risorgimentale del Mezzogiorno stesso: quella tradizione che, purtroppo, finora, non è riuscita a compenetrare di sé la nazione. Il ceto politico e dirigente è stato distolto da ogni serio impegno dall’artificiosa esaltazione nazionalistica che ha pervaso tutta la cultura media, isolando Croce e gli altri grandi intellettuali, alimentando l’antimeridionalismo dei meridionali.
Compagna fu sempre intransigente: PLI o PRI, il suo meridionalismo doveva essere non solo liberale, ma profondamente crociano. Le pagine di Labirinto meridionale tracciavano un programma di vita, un orientamento eticopolitico che mai sarebbe venuto meno. Ed è motivo non ultimo della maggiore continuità della stagione di «Nord e Sud» (cioè dei cosiddetti meridionalisti di città) rispetto alla stagione di «Cronache meridionali» (cioè dei cosiddetti meridionalisti di campagna). La rivista (durata quasi trent’anni); lo stesso farsi geografo in nome e per conto della cultura storica, ma ancor più ai fini di uno studio più ravvicinato e diretto dei problemi del Mezzogiorno; l’impegno parlamentare e di governo: tutto era già ampiamente prevedibile in Labirinto meridionale. Per molti versi esso è il libro che egli avrebbe riscritto e ripensato per tutta la vita: dall‘Autobiografia di Nord e Sud, scritta insieme a Giuseppe Galasso nel 1966, a quella toccante conversazione su La Nostalgia di Giolitti del marzo dell’82.
Uomo di città, Croce [si legge in Labirinto meridionale] poco conosceva la periferia del Mezzogiorno, scoperta, regione per regione, da Giustino Fortunato: poco la conosceva, se per conoscere s’intende appunto una competenza alla Giustino Fortunato. D’altra parte, Croce guardò sempre più ai vertici che alle basi; più all’opinione pubblica attiva che a quella, vastissima, passiva. Non si preoccupò gran che della nuova dimensione che poteva assumere la vita italiana con l’accresciuta influenza della base a determinare la politica dei vertici; dei pericoli cui il paese andava incontro, con la frattura fra opinione pubblica attiva nella quale si erano venuti smorzando gl’ideali di un tempo, mentre erano cresciuti i vecchi mali e opi nione pubblica passiva, non più tale perché risvegliata da nuove esigenze e nuove aspirazioni. Confidò nell’acquisizione di nuove basi mediante l’azione educativa e si illuse sulle capacità di recupero civile da parte della borghesia dirigente (della quale pure conosceva bene i limiti) di fronte ai nuovi problemi, che ne avrebbero risvegliato, sperava, le migliori qualità. E se il riscatto delle campagne meridionali rientrava nelle sue aspirazioni di uomo civile, non avvertì forse che quel riscatto, in sede politica, avveniva per processo spontaneo e, non incontrando sulla sua strada ceti dirigenti responsabili e consapevoli, determinava lacerazioni profonde nel tessuto politico e sociale del paese. Semmai un motivo di riserva è da sottolineare, per quanto riguarda l’atteggiamento di Croce di fronte al Mezzogiorno contadino, tale motivo non è quello di essere stato egli insensibile alla miseria delle plebi, né di aver operato da reazionario a conservarne le condizioni di immobilità; ma è nell’aver sottovalutato le già denunciate velleità reazionarie delle classi dirigenti e sopravalutato le riserve liberali della borghesia.

Pensatore e scrittore politicamente assai meno distaccato di Croce, cioè incessantemente proiettato sulle necessità e sulle finalità della politica organizzativa comunista, applicata alla società italiana contemporanea, Gramsci aveva sottolineato la debolezza delle tendenze «interpretative» del Risorgimento, rimasto «puro fatto intellettuale», incapace di tradursi in movimento politico nazionale. Assai più di Croce, però, Gramsci ed i gramsciani avvertivano precarietà ed instabilità liberali della piccola e media borghesia e, quindi, precarietà ed instabilità del Risorgimento.
Proprio per questo, nel secondo dopoguerra i Togliatti e gli Alicata si erano assunti il compito di mettere a una sorta di indice ideologico, non di rado insultante, il ruolo ed il significato di Croce, e, inoltre, non senza una particolare rozzezza anti-risorgimentale, che Gramsci mai si sarebbe concessa, con la quale immeschinire, ridimensionare, offendere l’anticomunismo liberale.
Nel governo di Salerno, secondo Togliatti, «il bravo don Benedetto, che sonnecchiava ai consigli dei ministri, stava sveglio da un capo all’altro quando si discuteva di contratti agrari». Oppure, secondo Alicata, Croce – quel «proprietario terriero che è sempre in fiero atteggiamento di avversione contro il contadiname nemico» – nelle pagine della Storia del Regno di Napoli dedicate al meridionalismo, aveva soprattutto voluto «annacquare il vino frizzante del meridionalismo di Giustino Fortunato».
In termini assai meno aggressivi e più meditati, sulle pagine di «Nord e Sud», nella seconda metà degli anni Cinquanta, Romeo avrebbe destituito di credibilità il Risorgimento “rivoluzione incompiuta” teorizzato da Gramsci. Si pensi a due suoi volumi in qualche modo complementari: Risorgimento e Capitalismo (Laterza, Bari, 1959) e Breve storia della grande industria in Italia (Cappelli, Bologna, 1963). Sono libri che testimoniano quanto la distinzione storiografica e metodologica fra crociani e volpiani (o salveminiani) attraversasse quella fascismo-antifascismo.
Senza però Labirinto meridionale di Compagna, sarebbe oggi difficile comprendere i lavori dedicati da Romeo alle vicende del capitalismo in Italia dal 1861 al 1887. Salveminiano quanto crociano, Compagna aveva guardato con diffidenza e spesso con insofferenza alla crescente influenza comunista sulla piccola e media borghesia. Vi ritrovava la tradizionale oscillazione tra il polo nazionalista e quello giacobino, che aveva già prodotto il fenomeno della «gente candida» che «fiancheggia» e «applaude» il fascismo, e che ora, «in un refoulement di delusioni e di giacobinismo, [produceva] il fenomeno degli utili idioti, gente candida che fiancheggia ed applaude il comunismo».
Mentre a destra declinava il nazionalfascismo stile «Giornale d’Italia», nella zona grigia della pubblica opinione meridionale si installava e si accreditava il radicalcomunismo stile «Paese Sera». Compagna vi scorgeva una nuova espressione del «complesso di fiancheggiamento», che rivangava motivi del vecchio radicalismo meridionale per giustificare e convogliare nuove adesioni alla politica dei fronti comunisti. Ed a maggior ragione gli sembrava, perciò, che la «sola» tradizione di cui l’Italia meridionale, quella evocata da Croce nella Storia del Regno di Napoli, «possa trarre intero vanto», fosse poi la sola che potesse condurre alla formazione di una moderna classe dirigente: l’unico «filo d’Arianna» che aiutasse a trovare lo sbocco del vecchio labirinto meridionale.
Quel filo d’Arianna andava dipanato secondo lo spirito di un «meridionalismo crociano». L’aggettivo non era incestuoso, anzi, per certi versi, era di gran lunga più importante del sostantivo, come poi spiegò assai bene Giuseppe Galasso, proprio risalendo ai primi tempi di «Nord e Sud», quelli appunto di Labirinto meridionale.
A Compagna quei tempi e quel labirinto da dipanare si sarebbero riproposti nell’esperienza di governo che gli capitò di fare negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta (sottosegretario al Mezzogiorno prima, alla guida di importanti ministeri di settore poi, come i Lavori Pubblici e Marina Mercantile, ed al fianco di Spadolini a Palazzo Chigi nell’ultimo suo anno di vita). Esperienza di governo, che mai era toccato fare ai Fortunato, ai Dorso e ai Salvemini, ma che a Compagna avrebbe fatto avvertire per certi versi, in corso d’opera, una «nostalgia di Giolitti».
Perché? Lo ricostruisce assai bene un suo scritto, così intitolato, apparso nel penultimo fascicolo di «Nord e Sud» (aprile-giugno 1982) e ricavato da varie considerazioni sulle difficoltà che intralciano i governi, sugli errori accumulati nella vicenda della Repubblica, sui colpi di piccone inflitti alle strutture dello Stato, sulle infeconde ritualità del sindacalismo e del regionalismo. Per Compagna l’esercizio non corretto o poco trasparente dell’autorità ministeriale, e quindi la sua frequente degradazione a mero esercizio di potere, è conseguenza di una impostazione viziata del rapporto che il ministro instaura con la burocrazia del ministero, così come la difficoltà di trasmettere alla periferia gli impulsi delle decisioni ministeriali dipende anche e spesso dall’indebolimento che hanno subito gli organi statali nei capoluoghi regionali e provinciali.
C’è, infatti, nel comportamento governativo [secondo Compagna] un peccato assai più grave di quanto non lo sia il clientelismo di cui tanto si parla, spesso a sproposito, con una indignazione che non tiene conto quanto si dovrebbe del rapporto di questo peccato di comportamento politico con la disoccupazione. Peccato più grave è comunque il nepotismo delle promozioni sollecitate da protettori prepotenti e praticate da compari conniventi. Una delle ragioni che più hanno concorso alla decadenza di una burocrazia che ha perduto molto del suo smalto giolittiano, anche se non lo ha perduto del tutto, è certamente la diffusione delle pratiche di comparaggio: onde molte carriere sono state ingiustamente favorite e altrettante sono state, di conseguenza, ingiustamente penalizzate.

C’è una maniera salveminiana di provare «nostalgia di Giolitti» e Compagna l’aveva trovata. Così come c’è un modo crociano di interpretare ruolo e rango dell’istituzione governo, aggredita e frantumata negli schemi del panregionalismo e del pansindacalismo.
Nella primavera del ’79 [racconta Compagna] mi pervenne un telegramma firmato da un presidente di Regione: autorevolissimo. Il telegramma protestava indignato perché avevo osato spostare un paio di funzionari. Mi si contestava la competenza a spostarli. E fin qui passi: ma lo si faceva, appunto, con insolenza e tracotanza. Risposi con fermezza: accerterò fondamento sua protesta; tuttavia, quale Ministro di questa Repubblica, considero del tutto inappropriato stile e tono suo telegramma. Ricordo che i miei collaboratori, a cominciare dal capo di gabinetto, entrarono in apprensione per me: era ormai acquisito nell’amministrazione dello Stato che un presidente di Regione potesse insolentire un ministro, ma era pure acquisito che il ministro se le dovesse tenere, le insolenze, senza rimettere a posto, come suol dirsi, il tracotante mittente del tracotante telegramma. Per di più seppi dopo che con un comune amico quel presidente di Regione si era giustificato dicendo che il tono, dispiaciuto a me, era da addebitare a un suo funzionario. Peggio che andar di notte: a insolentire i ministri della Repubblica sono i funzionari regionali; e i telegrammi, affidati alla redazione di funzionari, si conviene ormai, che in quanto indirizzati a chi rappresenta lo Stato, debbano essere tracotanti. I sindacalisti fanno scuola: loro poi ti danno subito il tu; e quando ottengono di essere ricevuti a seguito di un loro telegramma (e ormai lo ottengono quasi sempre) si presentano in 25 nella migliore delle ipotesi e tutti devono parlare, condizionati dalla presenza degli altri 24. E anche per questo l’incontro non approda mai ad una idea, e approda sempre ad un comunicato.

A Compagna proprio gli incarichi di governo avevano fatto ritrovare l’antica ansia di dipanare il vecchio filo d’Arianna. A suo modo pure il suo giolittismo era salveminiano e, insieme, crociano. Collaboratore di un presidente del Consiglio come Spadolini, il suo cuore di geografo era tornato alla storiografia risorgimentale. Come uomo politico, si era sentito smarrito, ma non per questo inutile.
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