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L’esperienza De Magistris a Napoli: verso un nuovo “partito dei sindaci”?
di Aurelio Musi
Partiamo dalla febbrile vigilia elettorale, che ha portato Luigi De Magistris al governo del Municipio di Napoli.


Napoli e Milano

Napoli e Milano facevano paura a Berlusconi. Erano due competizioni elettorali strategiche: il loro esito poteva convalidare o mettere in discussione quella “nazionalizzazione” del comportamento politico degli italiani, che dal successo del 2001 aveva costituito il vanto del presidente. Pertanto, egli non poteva consentirsi il lusso di perdere il sindaco a Milano o a Napoli o in entrambe le città, cuore della politica italiana.
Due metropoli simbolo, in effetti, in cui la posta in gioco era la tenuta del partito di Berlusconi dopo gli smottamenti che ne stavano ridisegnando la stessa identità. Napoli risentiva moltissimo di questo processo. Lo spostamento di non pochi esponenti di punta dal PDL verso FLI; la sperimentazione di una nuova aggregazione come il Terzo Polo, cartello elettorale, che aspirava, a Napoli e in Campania come a livello nazionale, a costituire l’ago della bilancia di qualsiasi alleanza futura; le particolari fibrillazioni interne al PDL napoletano sulla presenza di candidati inquisiti, dotati di rapporti di forza elettorale tali da metterli al sicuro da qualsiasi provvedimento di partito; i malumori per la conduzione autoritaria del PDL da parte del coordinatore Cosentino, che impediva qualsiasi dialettica interna; l’ipoteca che lo stesso coordinatore aveva posto sul candidato a sindaco, Lettieri: erano solo alcuni elementi che giustificavano la paura di Berlusconi per un eventuale ballottaggio a Napoli, problematico e difficile per il suo candidato, Lettieri appunto, e la pressione che stava operando sui suoi uomini per chiudere la partita in prima battuta.
A rafforzare questi timori è stata, per la verità, anche la piega presa dalla campagna elettorale dei partiti avversari, che, iniziata in tono minore, assunse negli ultimi giorni caratteri decisamente più aggressivi ed efficaci. Il Terzo Polo con il suo candidato, il rettore di Salerno Raimondo Pasquino, privilegiava una campagna assai centrata sulla legalità e le competenze: di qui il documento per l’esclusione degli inquisiti dalle liste e incontri capillari per settori professionali. De Magistris, candidato delle sinistre, a parte il suo show personale e la demagogia, aveva incluso, comunque, personalità importanti nella sua lista civica di sostegno. Morcone, il candidato del PD, nella corsa contro il tempo per farsi conoscere meglio dai cittadini, conduceva una campagna elettorale fatta di luci e di ombre. Egli aveva intrapreso un’azione di integrazione di “pezzi” della cosiddetta “società civile”; cercava di far dimenticare la brutta pagina delle primarie del partito, recuperando, tuttavia, solo qualche candidato di area bassoliniana, che aveva riportato notevoli consensi. Al tempo stesso, otteneva il sostegno di personalità rappresentative della recente opposizione critica al ciclo politico bassoliniano e alla Iervolino, come Marco Rossi Doria. Ma questo tentativo di mettere insieme tutto e il contrario di tutto non era indolore, portando, alla fine, a una doppia cifra della composizione delle liste e della campagna di Morcone, giocata sulla difficile coesistenza fra continuità e discontinuità, guadagnando consensi presso nuove fasce di elettori, ma anche subendo emorragie tra le file della sinistra di partito e non. L’analisi del programma di Morcone consentiva, a sua volta, di identificare qualche novità significativa, ma vi faceva emergere la totale mancanza, comune, del resto, ai programmi degli altri candidati, di un obiettivo in grado di qualificare veramente l’azione del futuro sindaco, come la rivitalizzazione del consiglio comunale o il ripensamento delle funzioni delle municipalità.


Una “nota stonata”?

“Una nota stonata”. A metà degli exit poll, quando stavano comunque precisandosi le linee di tendenza di Milano e Napoli, il segretario nazionale del PD definiva con queste parole il risultato del primo turno napoletano. Il giudizio è suonato come una doppia offesa: ai cittadini elettori e alla logica del buon senso. Ai primi, perché essi si erano espressi in piena maturità; alla seconda, perché sia i risultati di Milano sia quelli di Napoli chiamavano in causa le responsabilità del partito di Bersani, che, a buona ragione, potrebbe definirsi esso “la nota stonata” di quella tornata elettorale.
La leadership nazionale del PD aveva, infatti, mostrato, ancora una volta, come in altre congiunture del passato, di non sapere o non volere cogliere i tratti caratterizzanti del primo turno elettorale napoletano. Vediamo, perciò, di analizzarli con una certa sistematicità.
1) Voto di protesta e sua articolazione. Le reazioni dei cittadini ai motivi di crisi e di insoddisfazione profonda per il governo della città sono state più che giustificate. Nel voto di protesta, come in una miscela esplosiva, esse sono andate fondendosi: la sfiducia totale nella Iervolino e nella sua squadra, che, soprattutto negli ultimi mesi, avevano accentuato un senso di destino di sconfitta, pienamente percepito dai cittadini, a dispetto dei continui tentativi di autodifesa d’ufficio degli amministratori comunali; il bisogno di chiudere definitivamente il ciclo politico bassoliniano; l’esigenza di reagire con lucidità alla condizione insopportabile della qualità della vita a Napoli. Così la protesta era andata orientandosi in tre direzioni. La prima è stata il non voto, particolarmente significativo sia per il considerevole aumento percentuale di ben 6 punti dell’astensione rispetto all’ultima tornata elettorale, sia perché, generalmente, alle amministrative i napoletani votano in misura più accentuata rispetto alle politiche. La seconda direzione è stata il voto massiccio a De Magistris, che non solo ha ottenuto uno straordinario successo personale che è andato ben al di là del consenso dato ai suoi partiti di sostegno, ma ha dimostrato di saper proporre in modo convincente il suo carisma, più che il suo programma, a strati borghesi e popolari: significativa la buona affermazione del magistrato sia in quartieri come quelli del Vomero e di Chiaia, sia nelle periferie, dove De Magistris è stato premiato perché ha saputo rappresentare e sintetizzare meglio di altri candidati i motivi della protesta sopra indicati. La terza direzione è stata la confluenza di una parte di elettori, non solo di destra ma anche di sinistra, su Lettieri: interprete, a modo suo, del bisogno di alternanza e di provare vie e alleanze di governo locale diverse da quelle espresse al Comune da quasi vent’anni.
2) Il mancato sfondamento della destra. Lettieri è uscito dal primo turno con 6-7 punti percentuali al di sotto delle aspettative e dei sondaggi della vigilia. Su questo esito hanno influito: le divisioni interne tra le molte anime del PDL; l’allontanamento di iscritti e simpatizzanti, espressione soprattutto del voto d’opinione, che, non accettando il modello di un candidato sotto tutela di Cosentino e di altri notabili “chiacchierati” del PDL, hanno preferito rivolgersi a Raimondo Pasquino e al Terzo Polo, espressione di un moderatismo più affidabile, e forse anche a Morcone e De Magistris; l’effetto controproducente, qui a Napoli come a Milano, del sostegno e della presenza di Berlusconi in campagna elettorale. L’immagine del PDL emersa al primo turno è quella di una formazione politica, il cui candidato a sindaco riceve meno suffragi del suo partito, dominato peraltro da figure super-votate, nonostante qualsiasi “chiacchiera” su di loro.
3) Il voto disgiunto. Al primo turno ha pesato, forse più che in altre consultazioni amministrative precedenti, il voto disgiunto, che ha finito per premiare ancora una volta De Magistris, figura trasversale in parte agli schieramenti.
4) La crisi del PD. Milano e Napoli – è stato detto da più parti – mostrano non poche analogie: ma il fattore di analogia più rilevante è la crisi del PD, a Napoli e in Campania, se possibile, assai più grave che a Milano. La “brutta figura” delle primarie, prima molto malpreparate, poi disastrosamente annullate, era solo l’ultimo stadio di decadenza di un partito, responsabile della nascita e del successo di partiti e partitini personali locali, e, da ultimo, della stessa affermazione di un nuovo partito personale, quello di De Magistris, destinato ad andare, probabilmente, in futuro, ben oltre la scena napoletana.
5) Morcone capro espiatorio. Il candidato del PD ha pagato un prezzo assai alto per tutte le ragioni enunciate in precedenza. Partito tardi, non è riuscito a dare l’impressione della discontinuità rispetto alle precedenti posizioni politiche e amministrative del PD. La sua strategia elettorale è stata alquanto contraddittoria sia nelle proposte di programma, ed è sorto poi anche il sospetto che Morcone non sia stato sostenuto dall’intero PD.


Il successo di De Magistris e l’alta percentuale di astensioni

«La politica non sa parlare alla metà degli elettori napoletani»: questo si è notato all’indomani delle elezioni indipendentemente dagli orientamenti e schieramenti politici, di destra, di centro o di sinistra. Questo dato di fatto è stato già molte volte ricordato. Ma non sono state date ancora risposte alla domanda: chi e perché non è andato a votare, e in modo particolare al secondo turno per il quale l’astensionismo è notevolmente cresciuto?
Una prima categoria, forse quella più numerosa, è costituita sicuramente da tutti coloro che, sull’onda della protesta e non riconoscendosi rappresentati in nessuno dei candidati sindaci, ha disertato le urne fin dal primo turno. Non partecipare ha potuto significare, così, reagire al possibile voto inquinato, ai modi di fare politica locale degli ultimi quindici anni, al bisogno di chiamarsi fuori, o con disperazione o con indifferenza, da un rito considerato ripetitivo e frustrante.
Una seconda categoria è rappresentata dall’astensionismo di destra, per cui nel passaggio dal primo al secondo turno il bacino dell’elettorato di Lettieri si è assai ristretto.
La terza categoria è formata dall’astensionismo moderato: la radicalizzazione dello scontro politico e il profilo stesso dei due candidati finali (Lettieri e De Magistris), dal marcato tratto populista e antipolitico, hanno pesato nel passaggio, in secondo turno, di un gruppo di elettori dal candidato del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, all’astensione.
Certo, quanto diciamo non si basa su una metodologia scientifica. Ma è altrettanto certo che il non voto, in questa tornata elettorale, soprattutto al ballottaggio, ha penalizzato Lettieri, non il suo antagonista. Il quale ha potuto godere di un successo straordinario, con il 65% dei suffragi dopo una campagna elettorale capillare e a tutto campo, senza nessun apparentamento formale con i partiti. Ciò ha fatto subito temere il rischio della formazione di un altro partito personale del sindaco, come dopo il 1993, con Bassolino, soprattutto se si tiene conto dello sfaldamento del partito democratico a Napoli; e, invero, a giudizio della maggior parte degli osservatori, le ragioni per temerlo sono andate crescendo a elezione avvenuta.
Intanto, una vera rivoluzione si è prodotta nella presenza dei partiti in Consiglio comunale. I consiglieri del PD sono un terzo circa di quelli dell’IdV, che con Sinistra SEL e Rifondazione comunista costituiscono una maggioranza schiacciante che sposta decisamente all’estrema sinistra l’asse della vita comunale napoletana. Per l’opposizione si sono subito annunciati tempi difficili, né si può fare a meno di notare che dal 1993 a oggi il centrodestra napoletano non è mai riuscito ad espugnare il Comune di Napoli, e questo, certamente anche perché non ha mai investito su personalità dello spessore e del rilievo necessari per raggiungere l’obiettivo.


Primi bilanci

Dopo il successo elettorale entusiasmante, cessato il senso di liberazione che si è avvertito in città, dovuto alla percezione della svolta, è andata prevalendo la preoccupazione per il difficile passaggio dalle promesse ai fatti e ai primi giudizi entusiastici è succeduto un atteggiamento più consapevole e riflessivo.
Dai commenti dei cittadini, incrociati con alcuni eventi o atti della nuova amministrazione, è potuta nascere, così, un’utile riflessione sulla fisionomia del sindacato De Magistris.
Il primo elemento, che appare con una certa frequenza, è l’ammirazione per il linguaggio chiaro, la competenza soprattutto giuridica e il decisionismo del sindaco: insomma, un’indubbia novità nello stile rispetto all’incomunicabilità che aveva caratterizzato soprattutto gli ultimi anni del precedente governo comunale. Apprezzato appare anche l’obiettivo dell’estensione della legalità, anche se appare probabile che su questo terreno, il rapporto con la comunità cittadina sia meno meno idilliaco sia per troppe e antiche incrostazioni culturali, per cui i comportamenti di micro-illegalità sono diventati comuni e quotidiani (e spesso addirittura inconsapevoli della violazione di regole banali ed elementari o di pretendere e godere piccoli privilegi come diritti acquisiti), sia perché nella stessa Giunta vi sono posizioni divergenti tra i fautori della legalità senza se e senza ma e chi, provenendo da esperienze di sinistra estrema, è portato ad indulgere, per esempio, su forme improprie di protesta.
De Magistris ha dato l’impressione di aver inaugurato, inoltre, un nuovo modello di collaborazione inter-istituzionale e nel rapporto tra enti pubblici e realtà diverse della società napoletana. E, tuttavia, anche a questo livello ci si scontra con critiche soprattutto nel passaggio dai programmi alle realizzazioni e in alcune pregiudiziali ideologiche, come per alcuni particolari della raccolta differenziata dei rifiuti o l’opposizione del sindaco al termovalorizzatore.
Insomma, il gioco di chiaroscuri non consente ancora di parlare di un’ormai definita “impronta De Magistris”. A sua volta, il meccanismo istituzionale appare inceppato: Consiglio comunale e opposizioni sono assenti: il che non è mai un buon segno per la salute delle istituzioni.


Un nuovo partito dei sindaci?

Si annuncia una riedizione del “partito dei sindaci”? La domanda è ricorsa spesso a proposito del nuovo sindaco di Napoli, ed è legittima anche alla luce dell’iniziativa promossa da De Magistris, ossia una convention che ha visto la presenza di numerosi sindaci, presidenti di regione e amministratori locali soprattutto del Mezzogiorno. Se la risposta è affermativa, vanno allora attentamente considerate le analogie e le differenze con quanto accadde all’inizio del secondo mandato dei nuovi sindaci, eletti dopo la legge del 1993.
Un obiettivo comune salda l’ieri con l’oggi: la fiducia in un’alternativa nazionale di classe dirigente a partire dal basso. Negli anni Novanta del secolo scorso, la “repubblica delle città” voleva significare che il sistema politico italiano non poteva più essere letto nei vecchi termini unitari, nazionali, ma andava guardato come un sistema plurale, un insieme di “sistemi politici locali”. Il centro non era più in grado di imporre un modello omogeneo alle periferie: così le città diventavano protagoniste dell’intera evoluzione del sistema politico centrale. Fu allora lanciata la parola d’ordine del federalismo e intorno ad essa si avviò l’esperienza del “partito dei sindaci” che come una meteora in poco tempo si dissolse. Oggi la stessa mitologia dei movimenti “dal basso”, del protagonismo dei governi locali che ambiscono a diventare alternativa nazionale, caratterizza il progetto di De Magistris e compagni.
La seconda analogia è la dichiarata autonomia dai partiti, spinta ancora oltre rispetto al progetto della fine degli anni Novanta, perché sono andate ulteriormente accentuandosi la crisi del sistema politico e la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti.
Le analogie tra ieri e oggi si fermano, però, a questo. Le differenze sono, invece, molteplici e di notevole spessore. Il “partito dei sindaci” alla fine del secolo XX ebbe un carattere e una dimensione nazionali: Castellani, Illy, Cacciari, Bassolino, De Luca, Bianco, per ricordare i sindaci più noti, furono espressione di una strategia, che almeno nelle intenzioni, doveva legare Nord e Sud. Oggi non può sfuggire la dimensione assai più circoscritta di un progetto tanto ambizioso quanto debole nella sua prospettiva strategica. All’appello del primo cittadino napoletano hanno risposto, in sostanza, il sindaco di Cagliari, Zedda, il sindaco di Bari, Emiliano, il “governatore” pugliese, Vendola. Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia e Virginio Merola, sindaco di Bologna, si sono chiamati fuori.
Poco chiara appare, inoltre, la piattaforma di questa convention promossa da De Magistris: i “beni comuni”, certo; la fondazione di un’entità che non può nemmeno definirsi di sinistra, dal momento che il sindaco di Napoli ha detto chiaro e tondo che devono essere superate le etichette di centrodestra e centrosinistra; il richiamo agli “eletti dal popolo” contro i “designati dai partiti”. Dei “beni comuni” alla convention si è parlato molto; e, ciò, anche perché uno dei protagonisti della giunta De Magistris, Alberto Lucarelli, nel suo volume Beni comuni ha chiarito i termini della questione e della lotta da promuovere al riguardo. Ma le perplessità, come hanno dimostrato non pochi interventi sulla stampa napoletana, non mancano. La frattura con il PD appare profonda, ma non è chiaro nemmeno il rapporto con SeL e IdV. De Magistris ha sostenuto che il nuovo soggetto politico da lui auspicato «deve andare oltre l’alleanza tra IdV, PD e SeL». Gli attuali partiti hanno la grave colpa di reggere – sono ancora parole sue – «un governo Monti che sta facendo le cose che faceva il governo precedente, anche se con volti diversi».
Insomma, la convention napoletana del gennaio 2012 è apparsa più un momento per gettare le basi di un cartello elettorale in vista del 2013 che una tappa verso la creazione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Ma, anche nella prospettiva di un obiettivo più limitato e meno ambizioso, è difficile poter credere che si possa creare qualcosa sulla base di parole d’ordine, che molti giudicano fumose e ispirate in buona parte a un populismo di pessimo conio.
La squadra del sindaco è apparsa allineata e coperta sulle sue posizioni. Ma al cittadino comune non può sfuggire un certo strabismo tra lo sguardo privilegiato alla prospettiva politica nazionale e il governo del territorio, regno delle molteplici contraddizioni in cui si dibatte, alla luce della cronaca quotidiana, la giunta De Magistris.
È probabile che all’origine di queste contraddizioni sia anche l’eterogenea composizione del blocco sociale che ha dato vita al successo elettorale di De Magistris: un blocco sociale composto da ceti marginali, cittadini delle periferie più o meno strutturati, ceti borghesi delle zone centrali di Napoli. È qui la differenza decisiva con il blocco artefice del successo di Pisapia a Milano. La giunta De Magistris è, in sostanza, uno specchio abbastanza fedele delle molte stratificazioni sociali, politiche, culturali, che hanno garantito il successo dell’“uomo nuovo”; ed è con queste difficoltà e contraddizioni che dovrà fare i conti fino in fondo il nuovo sindaco di Napoli.
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