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Rigore e crescita: Thatcher o Roosevelt?
di G. G.
Le parole del presidente Monti in aprile sulle prospettive italiane del prossimo futuro hanno avuto il grandissimo pregio di essere franche e chiare, ma sono state così negative da far pensare che egli abbia ben riflettuto su di esse non tanto per il loro contenuto quanto per il tono del suo discorso e per i relativi effetti nello spirito del paese.
La sostanza è semplicissima. Per tutto il 2012 non solo non vi sono prospettive di avvio a una ripresa economica, ma è da prevedere un’ulteriore contrazione di produzione, occupazione, redditi e di tutti gli indicatori, quindi, del PIL. Viene poi prospettato che proseguirà l’aumento della pressione fiscale. Di un avvio di ripresa si parlerà solo nel 2013, ma il relativo indice sarà modestissimo, + 0,5%, e passerà nel 2014 a +1,0% e nel 2015 a + 1,5%. Pure nel 2013 si avrà un timido inizio di riduzione della pressione fiscale, che al termine del triennio 2013-2015 farà registrare un abbassamento di due o tre punti percentuali, per cui si manterrà pur sempre oltre il 40%, ossia su un livello molto elevato. Naturalmente, le previsioni per l’occupazione sono conformi a questo quadro. Appare, quindi, da prevedere un ulteriore contrarsi dell’occupazione per tutto il 2012 e un suo poco ampio incremento dal 2013 in poi, ma sempre nei limiti della crescita prevista per il 2014 e 2015.
Sono dati già commentati nei dibattiti svoltisi attraverso i media nei giorni in cui ne ha parlato Monti, ma senza, ci sembra, che, almeno nei primi giorni, ci si sia fermati molto sulle implicazioni sociali di queste prospettive. Le contemporanee statistiche sulla disoccupazione, innanzitutto giovanile e femminile, non sono meno allarmanti delle previsioni di Monti, e ciò soprattutto per l’impressionante numero di coloro che, pur disoccupati o mai occupati, si stima che abbiano ormai cessato addirittura anche di cercare il lavoro di cui mancano e hanno tanto bisogno. Vero è che Monti ci ha pure assicurato che non avremo in Italia l’alto numero di suicidi registrato in Grecia, ma è chiaro che a noi già bastano e avanzano i 20 o 30 avutisi finora, anzi ne basterebbe uno solo. Sicché non è un caso che per l’occasione si sia ricordato proprio un altro dato che ancora resta molto positivo della società italiana. Malgrado, infatti, l’incremento di divorzi e separazioni, la struttura familiare regge qui ancora bene a una crisi così profonda, ed è nelle famiglie e con le risorse familiari che la si sta fronteggiando al meglio possibile.
Quanto, poi, al Mezzogiorno, più che mai evidente è che resta del tutto problematico l’impiego di apposite risorse per investimenti in loco, e che bisogna giocare tutto sul piano della sollecitazione a investimenti privati e, più ancora, esteri. La linea del governo, finora limitata per la crescita quasi solo a misure normative e regolamentari, potrebbe, tutto sommato, ancora giovare a sollecitare simili investimenti. Potrebbe, inoltre, concentrarsi sul massimo uso possibile dei fondi europei o di quelli già stanziati e disponibili sul piano nazionale e regionale per favorire un certo incremento di attività nel settore delle opere pubbliche, oggi nel Sud ancor più necessarie che altrove al sostegno dell’economia. Senza trascurare che i ritardi nell’uso dei fondi disponibili, gli ancor più gravi ritardi della pubblica amministrazione nei pagamenti alle imprese, le difficoltà sempre gravi del credito bancario alle stesse imprese e varii altri elementi giocano contro un qualsiasi sostegno all’economia, e dovrebbero formare perciò un oggetto particolare di cura per il governo.
Al quale governo andrebbe anche ricordato che la politica per il Sud fu da esso lodevolmente impostata come “politica della coesione” nazionale; che Monti dichiarò a suo tempo di voler “portare il caso Sud in Europa”; e che il ministro della Coesione, Barca, enunciò alcune direzioni nelle quali si sarebbe orientata la linea governativa per il Sud. È indispensabile che questo triplice asse non solo sia confermato, ma anche fortemente realizzato. È, in pratica, quasi tutto quel che il Mezzogiorno può aspettarsi di buono o di meno peggio in questi anni bui; ed è anche urgente.
Intanto, si è posto non solo in Italia, ma anche in altri paesi il problema degli effetti impreveduti delle politiche di rigore finanziario e di risanamento delle finanze pubbliche, in cui sono oggi impegnati, in pratica, tutti i governi europei. Il timore è, in sostanza, che un buon successo delle politiche finanziarie sia accompagnato da conseguenze dannosissime delle vie e degli strumenti, di cui a questo scopo ci si è serviti, sul piano della vita economica e sociale.
Vie e strumenti si riassumono in una crescente tassazione di tutti i soggetti e gli oggetti possibili e nella riduzione della spesa pubblica. Ed è per ciò che si teme un continuo micidiale ritorno di fiamma della crisi che si combatte. La politica in atto significa pure meno lavoro, minori redditi, una consistente diminuzione degli affari dai maggiori livelli fino a quelli del commercio al dettaglio. Un quadro dal quale non può che derivare un perpetuarsi della crisi in atto o l’accendersi di una nuova crisi dalla coda della precedente. Di qui anche la discussione delle politiche di austerità seguite o consigliate in questi casi. Più austerità significa un minore movimento commerciale. Se si contrae il mercato interno, bisogna compensarne la contrazione con un maggiore attivo sul mercato estero, ossia con un forte incremento delle esportazioni: il che è molto più facile a dirsi che a farsi, vista l’estensione della crisi e la similarità delle politiche volte nei varii paesi a fronteggiarla.
Per di più, gli strumenti di politica finanziaria della tassazione e delle minori spese non sempre e non in tutto assicurano il successo della politica che se ne serve, e possono sorgere da un momento all’altro necessità tali da costringere a tornare sui propri passi. Al governo italiano è accaduto, ad esempio, di dover tagliare tre miliardi di euro di incentivi per le energie rinnovabili. Si contava di passare dagli attuali 9 miliardi a 15. Ci si fermerà, invece a 11,5 o 12 miliardi, divisi fra 6,5 miliardi per il fotovoltaico e il resto per altre forme di tali energie. Superfluo dire che cosa ciò significhi per le imprese attive e per l’occupazione in questi settori. E non è detto che non vi siano altri casi simili. I risultati conseguiti dal governo nei suoi primi sei mesi sono certo apprezzabili, ma ciò non ha tolto né che il debito pubblico continui a gonfiarsi, né che i titoli del debito continuino a fluttuare anche per un salire e scendere più frequente di quanto previsto dello
spread sui titoli tedeschi.
In generale, se si parla di dissesto delle finanze pubbliche, il modello che in Europa subito si ripropone è quello di Margaret Thatcher. Sarebbe il caso, piuttosto, di pensare, a nostro modesto avviso, al presidente Roosevelt e al suo new deal, quando nel 1932 prese la direzione della grande Repubblica stellata nel pieno di una crisi alquanto peggiore di quella odierna. È vero: le circostanze storiche non sono mai le stesse, e i problemi del presente non si risolvono col ricorso al passato. Ma parliamo di analogie suggestive e non senza senso. E nel new deal il sostegno del mercato interno e dell’occupazione rappresentava il primo e maggiore punto della politica che il nuovo presidente americano perseguì. Una semplice ripetizione, no. Ma qualcosa del genere, si, certamente.
Sono notazioni che si affacciano ormai da più parti, anche e specialmente da coloro che hanno a cuore il successo del governo. Da ultimo, e quasi insieme, la Corte dei Conti, la Banca d’Italia e la Banca Europea hanno rilevato che una politica della crescita non è assicurata dalle misure finanziarie e fiscali, e hanno espresso il timore che un eccesso di rigore finanziario e fiscale si traduca in una remora a qualsiasi crescita. Data l’autorevolezza di questi concordi pareri, molti si sono chiesti se in essi non sia da vedere una decisa critica al governo Monti. Per parte nostra abbiamo anche sempre richiamato alla necessità di assicurare alle imprese un supporto creditizio agevole e alle migliori condizioni possibili; e, come si sa, specie nel Sud, questo è uno dei punti più dolenti della questione.
Certo, anche il governo sa queste cose. Monti ha esplicitamente invocato per l’Italia un afflusso significativo di capitali stranieri. Sembra, però, che almeno per ora si voglia continuare sulla stessa linea, passando ad altre misure solo in seguito, forse anche perché il governo ritiene ancora insufficiente la salvaguardia dei conti pubblici. Se così fosse, sarebbe grave. E, in ogni caso, non si può più mantenere la distinzione fra tempo del rigore e tempo della crescita. Gli effetti di tale distinzione, finora non positivi, diverrebbero drammatici, come dicono ogni giorno le cronache sociali del paese (disoccupazione, perdita del potere di acquisto di salari e stipendi, accentuata inflazione, contrazione del mercato interno e del PIL, gravosità opprimente di un peso fiscale già molto alto in partenza, e simili altre note dolenti o dolentissime).
Il presidente Monti ha anche affermato di aver avuto l’impressione di essere riuscito a imporre ai colleghi europei la convinzione che è ormai tempo di non procedere più solo col criterio del rigore e di passare a una vera e propria politica anche della crescita. Detto con franchezza, è difficile capire fino a quale punto si tratti solo di una impressione di Monti o di un dato di fatto effettivo. Comunque sia, è chiaro che ciò dipenderà in grandissima parte dal corso che prenderà la politica francese dopo le elezioni presidenziali. Un corso che, a nostro modesto, avviso non è affatto garantito dal nome del vincitore. Sulla Francia si è addensata negli ultimi tempi l’ombra del timore di un declassamento del suo “rating” finanziario internazionale, e, soprattutto, timori simili sono diffusi in quel paese indipendentemente dall’andamento dei suoi casi politici per effetto dell’andamento dell’economia.
Si tratterà, in pratica, di vedere se reggerà o non reggerà ancora l’asse Merkel-Sarkozy, che, come si sa, negli ultimi tempi ha fatto in Europa il bello e il cattivo tempo. Nulla è scontato a questo riguardo, e ciò anche perché la Merkel non corre solo il rischio di un certo isolamento internazionale, ma anche quello, ben maggiore, di un insuccesso elettorale ai prossimi appuntamenti del voto tedesco, come si è visto già in quelli ultimi. Tutti, inoltre, pensano che la crisi politica olandese, con la convocazione delle elezioni in autunno, abbia anch’essa indebolito il Cancelliere. Ma un’Europa in cui si avesse questa così importante variazione sarebbe anche un’Europa più capace di unitarietà di indirizzo politico-finanziario di quella degli ultimi anni?
È chiaro che dallo scioglimento di questo e altri connessi interrogativi dipenderà quasi tutto del prossimo futuro finanziario europeo. Quello che per il momento si può escludere con sufficiente certezza è che l’asse Merkel-Sarkozy possa essere sostituito da qualche altro binomio. Non lo potrebbe essere neppure da questo stesso binomio nel caso di mutamento di linea di uno dei suoi due componenti. In Italia si è parlato di un “asse Roma-Berlino” che, appunto, sostituirebbe il precedente binomio franco-germanico. Ma non c’è bisogno di molta riflessione per capire quanto una simile ipotesi sia irrealistica. I mutamenti da fare nella direzione delle cose europee, nelle quali una prosecuzione del metodo dei binomi diventa ogni giorno più difficile, richiede purtroppo ben altri ragionamenti e comporta ben altre difficoltà.
Tutto ciò deve ora passare attraverso il crivello determinato in Italia e in Europa dagli eventi delle ultime settimane, a cominciare dal continuo aggravarsi della crisi politica in Grecia, dalla vittoria di Hollande in Francia, dai risultati delle elezioni amministrative in Italia, dal ritorno di Putin al Cremlino in Russia, dalla ininterrottamente crescente tensione dei mercati finanziari, dall’allargarsi progressivo della crisi economica a livello planetario, dai timori americani di essere contagiati dalle difficoltà europee, dal clima fatalmente di incertezza che si determinerà in attesa dei risultati delle elezioni presidenziali di novembre negli Stati Uniti, nonché da numerosi altri elementi in Italia e all’estero. E bisognerà, quindi, attendere gli sviluppi di una tale serie di così importanti elementi per potere affacciare qualche commento non puramente estemporaneo e qualche ipotesi non fondata del tutto sulla ancora dominante liquidità della situazione ovunque nel mondo.
Per l’Italia, aggiungiamo soltanto che, per quanto il governo abbia dato segno, con gli ultimi già accennati atteggiamenti del presidente Monti, di ministri come Passera e Fornero e in altri modi, di cominciare a rendersi conto che una scelta totalmente alternativa tra rigore e crescita diventa sempre più impossibile a praticarsi. Non si può, d’altronde, negare che il governo ha cominciato ad avvertire qualche difficoltà politica. Era utopistico ritenere che
la pax neapolitana, parte conseguita e parte meritoriamente imposta dal presidente Napolitano, potesse restare a lungo del tutto indisturbata. L’aggravarsi della crisi economica e finanziaria e, soprattutto, i risultati delle elezioni amministrative hanno cominciata a insidiarla, ma, tutto sommato, ancora soltanto marginalmente. Si è anche visto, però, che lo stesso ricorso ad elezioni anticipate, che si è preso a ventilare come opportuno o inevitabile, non è affatto più facile e promettente dello sforzo necessario a conservare l’attuale stato delle cose. Tutto sommato, resta tuttora molto probabile che la legislatura giunga al suo termine proprio del 2013. E dev’essere stata una constatazione di questo tipo ad avere spinto il presidente Monti, di cui si era insinuata una decisa volontà di dimettersi ad assicurare, invece, al presidente Napolitano di avere tutta l’intenzione di rimanere in carica fino al termine della Legislatura nel 2013.
Di conseguenza, è la crisi dei partiti ben più che quella del governo a doversi prevedere come dominante nei prossimi mesi. Crisi della politica, dicono tutti, e trionfo dell’antipolitica. A nostro modesto avviso, la crisi è piuttosto quella dei gruppi che dirigono e hanno in mano i partiti, e l’antipolitica è solo, un modo diverso di fare politica, che non promette nulla di certo e di risolutivo. Un vasto ricambio di questi gruppi sarebbe, a questo punto, più che mai opportuno, per non dire necessario. Ma le probabilità di averlo sembrano davvero poche. E fa perciò sorridere la proclamazione a ogni pie’ sospinto che si faranno le riforme, a cominciare da quella elettorale, di cui tutti parlano e che definiscono necessarie per la ripresa del paese. Quando le si farebbero queste riforme? Nei meno che sei mesi di tempo di lavoro effettivo di cui dispone il Parlamento?
Certo, come da ogni parte si dice, l’Italia può farcela. Ma sarà molto più dura di quanto si dimostri di percepire e capire negli ambienti politici di un paese, che, pure, la carretta sta continuando a tirarla.
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