*Viviamo, a quanto si dice, nell’epoca del mutamento termico globale. Il riscaldamento dell’atmosfera terrestre è spiato con meticolosa minuzia, e ben lo si comprende. Da questa vicenda dipende in una misura che non siamo ancora in grado di precisare, ma che potrebbe essere davvero cospicua, addirittura il grado dell’abitabilità della terra per il genere umano. Vero è che si tratta di materia che è oltremodo ardua e discutibile. Abbiamo spesso l’aria di chi sappia sulla storia del clima del nostro pianeta molto di più di quel che in effetti sappiamo. Se solo si pensa che, nel migliore dei casi, e per aree alquanto ristrette, le rilevazioni statistiche attendibili su temperature e altri elementi climatici risalgono ad appena un po’ più in là degli inizi del secolo XVIII, si può facilmente avere l’idea di quanto sia aleatoria e discutibile ogni estensione di quel che se ne apprende a deduzioni di grande portata e significato. È vero pure che del riscaldamento, di cui si sospetta e si teme un galoppante e catastrofico epilogo, i documenti statistici li dovremmo avere tutti sotto gli occhi, poiché si tratta di un fenomeno che sembra svoltosi per intero dalla fine del secolo XIX e, soprattutto, nel corso del secolo XX. Converrebbe, tuttavia, crediamo, tenersi alquanto più prudenti nelle previsioni a più lungo termine e di maggiore portata, come insegna l’intero complesso delle indicazioni di pari rilevanza che si sono volute trarre dall’osservazione statistica dei fenomeni negli ultimi due o tre secoli, come si è visto comprovato dalle previsioni circa l’incremento della popolazione mondiale fino a dieci miliardi di uomini entro un termine che abbiamo già largamente superato, trovandoci solo al 70% di quella cifra.
In un’epoca dominata da problemi di tale dimensione e portata il tema del paesaggio può apparire di un rilievo tutt’altro che primario. E tanto più lo si può pensare se del paesaggio si abbia la concezione che nella stragrande maggioranza dei casi si riscontra. In tale concezione il paesaggio è la pura e semplice fisionomia del luoghi, un insieme di linee, articolazioni, colori, elementi vegetali e di altro ordine che appaiono che vediamo – o, almeno, così ci sembra – riprodotti in una fotografia, un quadro, un disegno. Una fisionomia che possiamo anche imbellettare o, all’opposto, deturpare, ma che non tocca il profondo della realtà naturale nella quale viviamo.
Non è così, è appena il caso di notarlo. Ma, se anche così fosse, ugualmente sarebbe errato pensare che la presunta marginalità del paesaggio nel quadro della realtà naturale possa esimere da qualsiasi considerazione a suo riguardo. Nel libro forse più pionieristico a proposito della
physical geography as modified by human action, ossia in
Man and Nature, che George Perkins Marsh pubblicò a New York nel 1864, la conclusione ultima era che «nel vocabolario della natura il piccolo e il grande non sono che termini comparativi; essa non conosce nulla di minimo o di insignificante, e le sue leggi sono inflessibili tanto se si tratta di un atomo quanto di un continente o di un pianeta». E, a rifletterci, la stessa regola dovrebbe essere considerata pienamente valida anche per la vita morale e sociale dell’uomo.
Marsh ne traeva anche l’ulteriore considerazione che delle azioni umane modificatrici di condizioni o cose della natura noi non potremo forse mai calcolare l’effettiva incidenza in quanto «perturbatrici delle disposizioni naturali», ma che questa non è una ragione per ignorare l’esistenza di queste perturbazioni. Abbiamo, perciò, torto «quando asseriamo che una forza è insignificante perché non ne possiamo accertare la misura o anche perché nessun effetto fisico può ora essere indicato come originato da essa».
La lezione deducibile da Marsh è, dunque, che il paesaggio, quale che ne sia la rilevanza nel quadro delle condizioni naturali in cui l’uomo vive, non può mai essere considerato come elemento secondario o trascurabile di tali condizioni. Al contrario, è un dato permanente, che incide con una sua specificità ineludibile nel complesso sistema delle forme reali, materiali, in cui intorno a noi si presenta la natura. La fortuna di Marsh, nonostante l’importanza del tema da lui trattato, non fu pari ai suoi meriti. Sul paesaggio prevalse una considerazione o filosofica o estetica o estetico-filosofica, che, sia pure illustrata da nomi di grande rilievo (basti citare Georg Simmel e la sua
Filosofia del paesaggio), risolveva il paesaggio nella veduta, ossia, di fatto, nella rappresentazione soggettiva che l’uomo si fa dell’aspetto dei luoghi che ha intorno e vede.
È questo il paesaggio che da tempo immemorabile è oggetto delle arti figurative e della letteratura, così come della geografia intesa nel suo senso etimologico di descrizione delle forme che presenta ai nostri occhi la terra. Ne risultava non solo fatale, ma dominante una implicazione estetica, nel periodo in cui la bellezza venne elaborata come categoria estetica in tutte le sue possibili variazioni tipologiche (dal sublime all’orrido, dal bello ai suoi contrari), e, in questo quadro, fu costantemente tributaria della riflessione sul paesaggio, cioè dovette anche al tema del paesaggio molti degli approfondimenti teoretici e rappresentativi che ha ricevuto nel pensiero europeo almeno dal XVIII secolo in poi. Approfondimenti che diedero anche luogo a uno sviluppo di filoni ispirati a varii simbolismi, che hanno formato via via una parte tanto importante quanto interessante nella storia del concetto di paesaggio.
La prevalenza della considerazione estetico-filosofica non ha tolto, peraltro, assolutamente nulla alla maturazione di una concezione del paesaggio non solo, nelle sue punte più alte, di notevole livello speculativo, ma anche di grande efficacia nel sollecitare, se non nel formare una sensibilità più moderna, più varia, più interiorizzata e dinamica, che rifletteva l’analogo, più generale percorso della
sensibilité nel mondo moderno dal Barocco al Romanticismo. È, anzi, il caso di notare che la parte del paesaggio come oggetto, tema e percorso di rilievo nella storia della sensibilità moderna non ha ricevuto, crediamo, finora, tutta la dovuta attenzione. La storiografia in questa materia, lanciata e sollecitata da Lucien Febvre in uno dei più begli articoli,
Sensibilité et histoire, del 1941, non si è sviluppata, infatti, secondo i suoi auspici. Sul punto del paesaggio ha trovato, in particolare, pochi cultori, anche se di rilievo (e ricordo, in particolare, fra gli altri, Georges Duby), e soprattutto ci si è dedicati – e la preferenza è significativa – al paesaggio rurale.
Proprio la storia di un paesaggio rurale, quello italiano, di Emilio Sereni, che ha goduto di larga e meritata rinomanza, attesta, peraltro, a sua volta, fino a qual punto il paesaggio in quanto problema non solo storico, ma di concetto e di metodo abbia continuato a essere prevalentemente risolto, come ho già detto, nella veduta. Risolto, cioè, nella visione ottica e nella rappresentazione estetica o descrittiva, che non solo consentiva, ma, a ben vedere, esigeva quegli sforzi di concettualizzazione che hanno costituito la filosofia del paesaggio nel pensiero europeo dell’età moderna. Nello stesso Sereni c’è, sì, uno sforzo di legare la rappresentazione del paesaggio alle strutture produttive e tecniche delle campagne, ma è uno sforzo debole, troppo inferiore a quello compiuto dall’autore, con mano assai spesso felice, nel tradurre in dati o elementi storici le rappresentazioni di quadri, stampe, incisioni, piante, carte e altro analogo materiale di cui egli si servì.
Quando Sereni scriveva la sua storia, era stato, peraltro, già mosso il passo decisivo per una diversa concezione del paesaggio: una concezione lontana da filosofie, estetismi, simbolismi e altre forme di teorizzazione o di rappresentazione. Eccellente esemplificazione e compendio di tale svolta può essere certamente considerato l’articolo, ancora pionieristico, di Herbert Lehmann,
Die Physiognomie der Landschaft, apparso nel 1950. «Il paesaggio – egli scriveva – è, in senso oggettivo, la somma delle condizioni naturali in una determinata area». La definizione proseguiva con l’inclusione in quella somma di condizioni anche della percezione soggettiva che se ne aveva, e questo contribuì a far sorgere intorno a questo nuovo punto di vista un’accesa discussione, ma il passo decisivo era stato fatto. Era stato introdotto nella considerazione del paesaggio – come base primaria, qualificante e determinante – la struttura fisica della geografia dei luoghi. Permaneva, invero, anche in Lehmann, l’elemento della percezione del paesaggio da parte delle popolazioni residenti
in loco, e, è ovvio, da parte di coloro che dello spettacolo paesistico si trovavano a fruire; e questo elemento lasciava sussistere una nota forte di soggettività , ma il rinvio all’oggettività delle condizioni geografiche sulle quali la percezione si fondava aveva individuato un criterio ormai indiscutibile di analisi e di valutazione.
Che vuol dire, tuttavia, “soggettività â€, e che vuol dire “oggettività †in una materia come questa? Tutto quel che l’uomo fa, sente, pensa o dice è soggettivo, ed è soggettivamente rappresentato ed espresso. Ecco qualcosa che si può dire, senza tema di cadere in una disperata e disperante discussione sulla “cosa in séâ€. In questa soggettività prende, però, piede, col criterio di Lehmann, un elemento diverso da quelli consueti in materia di paesaggio, ossia, come si è detto, le condizioni geografiche che il soggetto si rappresenta come naturali e oggettive; e queste condizioni determinano un piano nuovo di considerazione e valutazione del problema. Entra in gioco non più la fisionomia del paesaggio, ma la sua struttura materiale, orografica, idrografica, marina, rivierasca, urbanizzata, non urbanizzata, del
plat pays, degli insediamenti accentrati o sparsi e delle loro disposizioni topografiche, le reti visibili delle comunicazioni stradali o di altro tipo, insomma il tessuto concreto e complesso della più corposa materialità del territorio.
Diventava questo punto di vista strutturale, ora, l’elemento fondamentale di considerazione nella valutazione dei problemi del paesaggio: un criterio severo al di là di quanto possa apparire di primo acchito. Tanto severo che, a fare un bilancio a poco più di sessant’anni dalla sua formulazione a opera di Lehmann, si può agevolmente constatare che la sua ricezione nei termini e sul piano del governo del territorio è ancora lontana dall’essere generale e soddisfacente. Ancora nella Convenzione Europea sul Paesaggio, che è del 2000, si ripete che «paesaggio designa una determinata parte di territorio così come è percepita dalla popolazione, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». I termini sono quasi letteralmente vicini a quelli dello stesso Lehmann, ma non colgono davvero fino in fondo, lo spirito della innovazione di cui parliamo, dal momento che poi ci si rimette alla percezione della popolazione come determinante della situazione paesistica.
Al contrario, pur indulgendo anch’egli al momento percettivo e rappresentativo della fisionomia del paesaggio, Lehmann aveva chiaramente posto al centro il «senso oggettivo» dei suoi elementi costitutivi. Aveva fatto, cioè, del paesaggio un interlocutore autonomo e diretto dell’uomo, certo attraverso la percezione e rappresentazione umana, ma anche con una sua personalizzazione, con una sorta di sua ipotiposi, e con una derivata
fictio iuris, che, nel fare i conti col paesaggio, costringeva a trattarlo, per così dire, da pari a pari.
Occorreva, peraltro, da questo livello di considerazione, passare alle politiche di conservazione e di tutela del paesaggio, di cui in Europa si sentì tra il XIX e il XX secolo, dove più e dove meno, un diffuso bisogno. L’emergere di una specifica considerazione e politica del paesaggio nell’ambito della più generale politica del territorio fu ovunque lenta. La politica del territorio comportava la difesa dai danni che potevano derivare da eventi naturali o dall’attività degli uomini. Si sa che azioni contro frane e smottamenti del terreno, l’interesse per i boschi e le foreste, i problemi delle acque dalle alluvioni alle irrigazioni, determinate regole edilizie, regolamenti per la pastorizia e per lo sfruttamento del terreno agricolo così come per le attività di cave e miniere, l’attenzione alle riserve di caccia o ad altre riserve pubbliche o semipubbliche, insomma una serie ampia e varia di punti di una politica del territorio si ritrovano in ogni età e contesto storico, almeno in Europa. Il delinearsi di una vera e propria politica del paesaggio nell’à mbito di tali politiche del territorio si profila, però, in effetti, solo nella seconda metà del secolo XIX e viene poi sempre più incrementandosi nel secolo XX.
Intorno al 1950, quando Lehmann scriveva il saggio che abbiamo accennato, una politica del paesaggio nel senso specifico e proprio del termine era, ormai, già presente, con diversa corposità e con diversa incidenza, nell’azione della maggior parte degli Stati europei e consentiva istruttivi raffronti internazionali. Il criterio direttivo era, ovunque, quello estetico. Interesse, interventi, tutela erano previsti e riservati alle zone belle, ai punti di eccellenza di panorami e di siti particolari: elementi che spiccassero nell’insieme del territorio, considerato, più o meno, come una grezza materia prima, nella quale porre in evidenza e privilegiare le perle, le gemme (questi erano termini del lessico in tale materia), in cui la bellezza naturale si manifestasse con più immediata incidenza di visioni e di emozioni.
In Italia l’esigenza di una tale politica si era già chiaramente delineata agli inizi del secolo XIX e aveva trovato intelligenti anticipazioni o vere e proprie sporadiche, ma talora significative applicazioni. Ciò era dovuto anche alla presenza nella amministrazione dello Stato di una serie di funzionari, non solo soprintendenti del ramo, colti, attivi nella vita culturale del paese: basti pensare a un Adolfo Venturi o a un Corrado Ricci, benché la loro attività si svolgesse soprattutto nel campo dei beni culturali e nelle sistemazioni di gallerie e di musei o biblioteche. Dopo la prima guerra mondiale i segni dell’avanzamento di questo percorso si fecero più frequenti e più intensi e trovarono un’eco forte e importante nel convegno tenutosi a Capri nel 1922 sul paesaggio, per l’appunto, così come avevano ricevuto una certa attenzione nell’attività di Benedetto Croce quale ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-1921. E che non si trattasse di indizi casuali è provato dal progressivo incremento dell’azione pubblica in questo settore, culminata nella legge Bottai del 1939, che, insieme con la parallela e contemporanea legge sui beni culturali, resta uno dei testi di legge migliori e più duraturi e memorabili nella storia dell’Italia unita.
La portata di quel testo era, però, limitata. Il suo carattere era del tutto estetico. Era quello della protezione dei luoghi ritenuti di particolare bellezza e valore paesistico. Prevedeva piani paesistici limitati a tali zone, fatalmente assai ristrette: e, infatti, in circa un cinquantennio non si ebbero in Italia che una diecina di tali provvedimenti, che coprivano una frazione assolutamente esigua del territorio nazionale.
Solo poco meno di mezzo secolo dopo la sua promulgazione la benemerita legge del 1939 venne superata nei suoi criteri e nella sua estensione logica e normativa grazie alla legge del 1985. Può essere superfluo ricordare qui i tratti di originalità di questa legge. Il suo fondamento per una nuova considerazione della politica del paesaggio era nel passaggio dal criterio estetico a quello strutturale, e quindi da una tutela puntiforme a una tutela generale del territorio, nonché nell’azione di programmazione che la legge imponeva a questo riguardo. La legge è stata poi recepita nel Codice dei beni culturali del 2004, sia pure con qualche lieve modificazione non migliorativa, ed è rimasta e rimane il più saldo, specifico e moderno presidio normativo nel suo campo.
Fu, indubbiamente, un tratto di originalità della legislazione italiana, che ha trovato una vasta eco Oltralpe, e fino in paesi lontani come il Giappone. Le obiezioni che a suo tempo furono avanzate sono andate via via perdendo di risonanza e di interesse. Al contrario, le obiezioni di ordine giuridico per cui Regioni e altri Enti territoriali ricorsero alla Corte Costituzionale, trovarono nella memorabile sentenza della Corte, redatta dal giudice Corasaniti, una risposta che, a norma del testo costituzionale, riconosceva all’obiettivo specifico della legge il valore di una piena rispondenza ai dettati costituzionali relativi a valori primari, da anteporre perfino a interessi di natura economica e sociale. Balzana è poi sempre più apparsa l’idea che la legge, essendo assai spesso violata, si potesse tranquillamente opprimere: quasi che anche il codice penale non sia ogni giorno violato in lungo e in largo, e che perciò si possa mai pensare che tanto vale sopprimerlo. E, quanto alle violazioni, esse sono e saranno numerose, ma non hanno intaccato la sostanziale efficacia preventiva e repressiva della legge nelle materie da essa regolate, come si evince anche dall’intenso contenzioso che ne nasce continuamente in sede giudiziaria.
Quel che qui vorrei, tuttavia, brevemente sottolineare è la delineazione di alcuni aspetti del compito di tutela del paesaggio imposto dalla legge alla pubblica amministrazione. Si tratta, in particolare, della concezione del piano paesistico. La legge prevede, infatti, che, a scelta dei poteri competenti, tale piano possa essere surrogato anche da piani urbanistico-territoriali. Pone, però, in termini rigorosi, la condizione che il piano urbanistico (o anche qualsiasi altro strumento di pianificazione territoriale si preferisca) tenga conto in modo specifico e nella misura dovuta dei valori propriamente paesistici da tutelare nell’ambito di un territorio.
La
ratio di tale disposizione è molteplice. Essa esclude, intanto qualsiasi idea di musealizzazione del territorio, di sua imbalsamazione in una staticità dai mal definibili contorni, di paralisi delle esigenze di trasformazione e di uso del territorio che qualsiasi civiltà , ma in particolare quella dell’età industriale e già , come dicono alcuni, dell’età post-industriale impone di continuo. Legare la tutela del paesaggio alla dinamica della vita operosa delle popolazioni, ma anche fare in modo che questa dinamica non schiacci esigenze di tutela e di conservazione di determinati valori territoriali è, per questo verso, una finalità primaria della legge. Ma ciò significa precisamente che la responsabilità del paesaggio non può essere isolata e sclerotizzata in una concezione ristretta e settoriale del problema, e tanto meno burocratizzata e ghettizzata in determinate competenze amministrative. Significa che la responsabilità del paesaggio può essere integralmente concepita e praticata solo in una visione ampia dei problemi del territorio, in cui l’emergenza paesistica campeggi a pieno titolo, ma non come un’isola concettuale e normativa nel
mare magnum dell’intorno.
A vietare una tale, per così dire, insularità della tutela del paesaggio è, del resto, la logica stessa del testo della legge. Il passaggio dal criterio estetico a quello strutturale comporta, infatti, che nessuna parte, anche la più selvaggia, deteriorata e remota è esclusa a priori dall’intervento legislativo di tutela, perché quel che alla legge interessa è, per l’appunto, la struttura fisica del territorio, non una particolare
qualité préalable, che lo qualifichi degno o non degno di tutela in una sua parte.
La responsabilità del paesaggio è, per ciò, una responsabilità generale, che, a ben vedere, riguarda poi, a tutto campo, non soltanto il territorio, ma l’intera vita presente della popolazione insediata sul territorio e le sue prospettive. E da questo punto di vista può essere più che mai opportuno notare e porre nella massima evidenza possibile che quella del paesaggio non è per nulla una scienza.
Non è una scienza – sia detto qui per inciso – neppure la più vasta disciplina dell’ecologia, nella quale sono di solito comprese quelle riguardanti il paesaggio e il territorio. Gli indici che noi fissiamo di impatto ambientale sono fissati obbedendo a una regola empirica, alla quale possiamo dare (e siamo, infatti, soliti dare) una espressione aritmetica, ma solo in rapporto a esigenze di vivibilità umana che noi fissiamo, in fondo, e come è naturale, con criteri dettati, nella sostanza delle nostre consuetudini, idee o ideali del vivere associati. Che sono poi i criteri, per l’appunto, detto altrimenti, coi quali interpretiamo, consapevoli o non, i dati di qualsiasi ordine che abbiamo a disposizione.
Nel caso del paesaggio tutto ciò è ancor più, anzi è del tutto evidente. Il paesaggio dei cui problemi parliamo è sempre il paesaggio che ci hanno consegnato, insieme, la natura e la storia; e anche la natura che abbiamo di fronte a noi è, a sua volta, una formazione storica. Il paesaggio non è configurato soltanto dal profilo delle coste marittime e delle montagne o colline, dalle rive dei fiumi e dei laghi, dalla vegetazione e da tutti gli altri elementi di geografia fisica del territorio che conosciamo, bensì anche da tutte le emergenze storiche e culturali presenti sullo steso territorio. È bello, perciò, il termine di
patrimoine o
heritage con cui in altre lingue viene designata questa realtà .
Un principio, questo, invero tanto elementare da apparire addirittura banale, ma gravido di conseguenze teoriche e pratiche. E questo perché lo spessore storico del territorio costituito dalla presenza umana e dalle opere e dalle tracce o beni di vario ordine che gli uomini lasciano e si accumulano nel corso del tempo varia da parte a parte del mondo, e certamente nel Sahara non è quello della penisola italiana o delle valli del Gange e dell’Indo o della Mesopotamia e di tante altre parti del mondo; e dove questo spessore storico è massimo, come per l’appunto in Italia, le questioni che si pongono di compatibilità paesistica e di individuazione e definizione dei valori paesistici presentano problematiche di un ordine molto complesso.
La responsabilità del paesaggio si estende, infatti, appieno a tutto lo spettro della vita civile. Non può avere nulla di specifico isolante e irrelato. La sua specificità , irrinunciabile, è di ordine sempre qualitativo e relazionale. Deve entrare – se necessario, con prepotenza – in ogni prospettiva di assetto del territorio, e vi deve garantire la tutela del bene singolo come del contesto in cui il bene è inserito. Deve guardare al passato e al presente, ma anche avanti, dove tirano le esigenze e i problemi che ci sono davanti, dove giocano i condizionamenti ineludibili delle preesistenze storico-naturali e storico-culturali, ma giocano anche le sfide del presente e del futuro. Una tutela immobilistica, chiusa nella sua specificità facilmente definibile ed esibibile, cade fatalmente in una dogmaticità che si risolve nel drastico dilemma del potere o non poter fare. Non c’è bisogno che formuliamo noi i dogmi del conservare o non conservare. Ce li impone, a patto che abbiamo conoscenza di un elementare catechismo al riguardo, la realtà stessa, e con evidenza; e su questi dogmi ogni transazione è impossibile. Ma ritenere che il compito della tutela si esaurisca in questa intransigenza è errato. Una tutela siffatta tradirebbe e condannerebbe, alla fine, se stessa sotto il peso di una sostanziale inadeguatezza ai suoi effettivi compiti, che comprendono col presente anche il futuro. Ogni tutela seria impone un certo immobilismo vincolante, senza del quale, di tutela è impossibile parlare. Perciò, anche, ogni tutela comporta fatalmente un costo, sociale, progettuale, che, volenti o nolenti, si deve pagare. Compensare queste necessità ineludibili di vincoli e di costi con un raccordo funzionale e garantista, dal punto di vista paesistico, alle esigenze e alle sfide del presente, al diritto dei contemporanei di godere di possibilità di trasformazione e di innovazione pari a quelle di cui hanno goduto le generazioni passate: ecco un compito e un dovere a cui non ci si può sottrarre quando si parla di responsabilità del paesaggio.
In altri termini, la tutela deve assicurare una guardianìa affidabile, integrale, ed efficace al massimo, del patrimonio paesistico e dei valori che ad esso sono legati, ma non può risolversi in una passiva e inerte vigilanza su un qualsiasi vallo o muraglia su cui si fermi l’orologio della storia. Deve entrare nel pieno della vita, farsi dinamica e progettuale, affinché l’irrinunciabile conservazione del patrimonio che tuteliamo sia vita attiva e feconda, accettata e riconosciuta come tale. Il che è, certo, più facile a dirsi che ad attuarsi, ma non è, altrettanto certamente, una sia pur giusta considerazione di questo genere a poter rompere il filo che cerchiamo di seguire.
Tutto questo può fare meglio capire – crediamo – perché abbiamo detto che quella del paesaggio non è una scienza. È, infatti, piuttosto, una cultura, ossia una visione, riflessione, elaborazione, proiezione propositiva di un ordine più generale e più impegnativo di quel che si possa immaginare, pensando che tutto stia nel rimettersi alla oggettività e certezza di una diagnosi scientifica di problemi e soluzioni (e ciò a prescindere da ogni riflessione sull’oggettività e certezza della scienza, sulla quale, peraltro, sono gli scienziati per primi ad avere loro cose da dire). E può fare meglio capire, tutto questo, come e quanto occorra essere molto vigili nel parlare di etica a riguardo del paesaggio. Non è un dovere generico o generale verso il mondo, la natura, la storia a costituire una tale etica; non è la particolare
pietas verso ciò che ci circonda di natura e di storia a doverci spingere e motivare in questo campo; e tanto meno è la retorica ambientalistica, ecologica, paesistica, la retorica del “verde†o delle “vestigia del passatoâ€, della “terra madre†o del “buon tempo antico†o del “mondo che abbiamo perdutoâ€. Non possiamo che ripetere qui che tutto il passato e tutta la
facies della Terra ci deve riguardare e deve coinvolgere la tutela.
Contrariamente a quel che pensa e fa l’UNESCO, non ci sono luoghi e cose che nel mondo siano patrimonio dell’umanità e cose e luoghi che non lo siano. Il patrimonio dell’umanità è universale nel senso letterale del termine. Figuriamoci in un paese come l’Italia, di antichissima antropizzazione e di mai interrotta vicenda storica. Ma l’etica che si configura rispetto a tutto ciò non è un’etica particolare. Detto in breve, l’etica che è comportata dalla responsabilità del paesaggio è nient’altro che l’etica della vita civile in cui viviamo e operiamo, analogamente a quella generale responsabilità civile in cui – come ho cercato di dire – la responsabilità del paesaggio consiste. E se, lasciandomi gonfiare un po’ le gote, mi fosse permesso di lanciare qui, in conclusione, un messaggio, direi che più immergiamo la responsabilità del paesaggio e le cure, le tutele e i doveri che ne conseguono nella pienezza del corso della vita civile; più ne facciamo un elemento attivo e imprescindibile della vita civile nella densità del suo svolgimento; più leghiamo la causa del paesaggio a tutto quanto di alto e di bello, di buono e di utile, di meglio moralmente e materialmente emerge dalla vita del nostro tempo e dal nuovo che essa comporta, più abbiamo dato alla causa del paesaggio le sue autentiche e più forti coordinate per tutelare e conservare il patrimonio in questione. Senza ridurlo, quindi, a oggetto di museo, senza farne soltanto un ostacolo al nuovo, senza pensarlo come un oggetto di pura contemplazione, e facendone, invece, quale è e può essere, un fattore vivo e vitale, un fattore attivo e potente, un fattore partecipato e irrinunciabile della vita, che è sempre in moto al ritmo inarrestabile delle onde che si susseguono senza tregua sul mare della storia degli uomini e delle cose.
NOTE
* È, questo, il testo della
lectio magistralis letto in occasione del conferimento all’autore della laurea
honoris causa in Conservazione e restauro dei Beni culturali da parte dell’Università Suor Orsola Benincasa, Napoli, il 5 aprile 2012.
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