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Difendere (ma come?) le ragioni della scuola
di Adolfo Scotto di Luzio
Dei riti superstiti della modernità, la scuola è di sicuro il più imponente. Solo la fabbrica fordista ha avuto una capacità paragonabile di istituire il cosmo sociale circostante. Nonostante la sua crisi conclamata, la scuola conserva una forza residua nel modellare secondo le proprie esigenze il tempo e lo spazio della città: regola i flussi del traffico, determina il sistema dei trasporti, richiede una vasta organizzazione logistica. A causa sua si spostano uomini, merci, derrate alimentari. Attorno alla scuola e alle necessità del suo funzionamento si organizzano le energie materiali e psicologiche di una comunità civile. Beni, servizi, affetti: tutto ruota attorno a questa istituzione, che quotidianamente movimenta milioni di persone, ne desta l’attenzione, cattura e mette in forma le loro aspirazioni. Le traduce in uno spazio linguistico più ampio. La scuola è un vasto deposito di beni spirituali che costantemente ricolloca l’esperienza del singolo in un orizzonte culturale meta-locale.
Si può parlare della scuola in molti modi, ognuno di essi rimanda al fatto che la scuola costituisce una potente struttura del significato dell’esperienza umana.
Per queste ragioni appare molto promettente il titolo del libro che Salvo Intravaia, professore di liceo a Palermo e collaboratore del quotidiano «la Repubblica», dedica all’istruzione nel nostro paese, L’Italia che va a scuola (Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 205). Ogni mattina, scrive l’autore, «un italiano su quattro […] si alza per recarsi a scuola […]. Il computo del movimento giornaliero di persone creato dalla scuola non è semplice, ma si può stimare che si tratti di almeno 15 milioni di individui di ogni età» (p. V).
Di fronte ad un esordio del genere, il lettore pensa che stia per cominciare un viaggio che lo porterà dentro questa grandiosa esperienza collettiva. Chi sono i professori, quali e quante generazioni si avvicendano in cattedra, quali segni culturali le distinguono. Cosa studiano i loro allievi e come, su quali libri. Come sono cambiati in questi anni i programmi e i manuali scolastici. Com’è cambiato il rapporto con le famiglie, cosa chiedono oggi i genitori, come concepiscono la scuola dei loro figli.
E invece, niente di tutto questo.
Le attese destate sulla soglia del testo sono presto deluse, e il lettore per duecento pagine è condotto attraverso un paesaggio arido, fatto di cifre e di percentuali, quanti sono gli insegnanti, quante ore dura il corso per diventare preside, quali e quanti livelli istituzionali sono coinvolti nel processo decisionale dell’istruzione pubblica in Italia, il Ministro, gli Enti locali, gli Uffici scolastici regionali, gli organi collegiali. In quanti, poi, vanno a votare per il rinnovo di questi ultimi e come è difficile trovare qualche padre o madre ancora disposto a farsi eleggere: per incentivare la partecipazione l’autore pensa addirittura alla concessione di un gettone di presenza. Come per i consiglieri circoscrizionali scrive (p. 105). E ancora, lo stato dell’edilizia scolastica e i costi veri e presunti della scuola, l’immancabile polemica sui tagli, quante sono le scuole private in Italia e quanti gli studenti che le frequentano.
È bene intendersi. Non è che questi numeri siano privi di interesse (sebbene, come vedremo tra breve, l’uso che ne fa l’autore è piuttosto arbitrario). L’aspetto rilevante qui è un altro.
L’Italia che va a scuola restituisce essenzialmente un’immagine della scuola come esperienza burocratica dell’insegnante. Non è solo la routine che appanna lo sguardo dell’autore. Intravaia vuole spiegare la scuola ai profani, a quelli che la scuola la conoscono solo perché ci sono andati tanti anni fa, ma non ne sanno gli ingranaggi attuali, le norme che ne regolano minutamente l’esistenza, i fattori tecnici del suo funzionamento. Sul banco del professor Intravaia siedono le famiglie e i politici. È a loro che direttamente si rivolge l’autore, con una lezione un po’ pedante, per la verità, e che alla fine risulta molto noiosa.
Nel libro di Intravaia agisce una convinzione più profonda che non la stanchezza del professore impiegato e il complesso dei suoi riflessi difensivi. Una convinzione ampiamente diffusa in questi anni e rispetto alla quale il nostro autore non fa eccezione. È l’idea che la scuola appartenga senza ombra di dubbio ad un universo dell’esperienza pienamente standardizzato, e che per parlare della scuola in maniera oggettiva ci vogliano numeri e statistiche. Con quali implicazioni?
Il punto è che questa modalità di formalizzare il proprio tema capovolge completamente i termini della questione. Un insieme di pregiudizi convenuti sulla scuola prende il posto di un qualsiasi serio tentativo di penetrare l’esperienza concreta dell’educazione oggi nel nostro Paese. Il paradosso del libro che vuole parlare dell’Italia che va a scuola è che nel libro non ci sono né gli italiani né tanto meno la scuola. Una facciata composta di dati classificati, un cliché fatto di numeri condivisi, ma non la scuola. Se i numeri sono oggettivi, allora bisogna dire che questa oggettività cancella completamente l’oggetto che pretende di rappresentare. Intravaia vuole spiegare la scuola a chi non la conosce, ma il libro procede per allusioni e domande retoriche, un modo per ammiccare ad un lettore che in realtà condivide lo stereotipo dell’autore. La scuola cioè scompare dietro la risoluzione della maggioranza. In che consiste questa risoluzione? Nella convinzione che la scuola sia in crisi perché vittima dei tagli. Senza risorse finanziarie e con un personale fortemente ridotto. Professori, bidelli e segretari.
A questo servono i numeri nel genere di pubblicistica scolastica a cui appartiene il libro di Salvo Intravaia, a sostenere la pretesa di sottrarre la difesa di interessi particolari in una sfera di indiscutibile oggettività.
Esemplare è, a questo proposito, la questione del dimensionamento delle aule scolastiche. Questione quanto altre mai rilevante in questi anni, per i molti fenomeni sociali e demografici di cui bisogna tenere conto e per i processi politici che mette in gioco dopo la riforma del titolo V della Costituzione. Qual è il numero auspicabile di alunni per classe (e dunque quante classi si possono costituire e quanti insegnanti impiegare)?
Intravaia lo calcola a modo suo, con un procedimento veramente singolare (pp. 151-153). Mette in fila tre provvedimenti legislativi sull’edilizia scolastica, tra il 1975 e il 2009 e sceglie quello che a suo dire fissa il numero più basso di alunni per classe: il decreto del ministero dei Lavori Pubblici del 18 dicembre 1975, che detta le norme tecniche «ivi compresi gli indici di funzionalità didattica, edilizia ed urbanistica, da osservarsi nella esecuzione di opere di edilizia scolastica». Il numero fatidico è 16 e il criterio della cifra più bassa si giustifica in base ad una sorta di minimo comune denominatore tra tutte e tre le disposizioni legislative.
Ma come si arriva a 16?
Il decreto stabiliva nella misura di un metro quadrato e ottanta centimetri lo standard di superficie netta da mettere a disposizione di un alunno impegnato in un’attività scolastica normale, e cioè seduto al banco ad ascoltare la lezione in un’aula di scuola elementare o media. Stabilito che una classe misuri trenta metri quadrati, il numero di alunni che ne risulta è appunto sedici. Così la dimostrazione di Intravaia.
Ma chi lo stabilisce?
Il decreto del ’75 non diceva questo e soprattutto non serviva a predeterminare sulla base di un qualche standard il numero degli alunni. La preoccupazione della norma non era la difesa dei livelli occupazionali e le dimensioni fisiche dello spazio educativo non erano determinate da problemi di carattere sindacale. Il ragionamento era semmai inverso a quello di Intravaia: dato il numero degli alunni, che il decreto individuava in venticinque per classe, si otteneva la superficie minima necessaria dell’aula al netto degli arredi, e cioè la cattedra e gli eventuali armadi. In questo caso quarantacinque metri quadrati.
Il decreto del 1975, come tutti i provvedimenti di questo genere, rispondeva a criteri di razionalizzazione e di concentrazione della popolazione scolastica. Serviva cioè alle esigenze di una gestione efficiente del sistema scolastico, a partire dalla sua infrastruttura. Pianificava uno sviluppo della rete scolastica nazionale fondato sull’impianto di unità pedagogiche rigidamente predeterminate nelle loro dimensioni minime e massime, in grado di ospitare fino a 1500 allievi nel caso di istituti di istruzione secondaria superiore: edifici di nuova progettazione fatti di 60 classi di 25 studenti ciascuna; scuole elementari oscillanti tra i 125 e i 625 bambini; scuole medie di 600 allievi.
In nessun caso si immaginavano classi di 16 studenti.
Governare il sistema per mezzo del controllo centralizzato dello spazio. È stato sempre questo il nucleo centrale del problema scolastico moderno. Il provvedimento del 1975 non rappresentava da questo punto di vista una novità, in nessun senso. Nel quadro fissato dalla legge Coppino e dei regolamenti che ne erano derivati, tanto per fare un esempio sufficientemente remoto che risale ai primi anni Ottanta dell’Ottocento, la planimetria delle scuole elementari torinesi obbediva, almeno in teoria, ai criteri centralizzati dell’amministrazione civica, la quale aveva cura di prescrivere dimensioni del cortile e caratteristiche dei diversi ambienti destinati a funzioni specializzate, gli uffici di segreteria, le sale di disegno, il gabinetto scientifico, il lavabo, le singole classi. Alla stessa maniera i regolamenti comunali si preoccupavano di fissare lo spazio minimo per ciascun alunno, che all’epoca era determinato nella misura di un metro quadrato. Le scuole, poi, dovevano sorgere lontano «dagli opifizi rumorosi e insalubri, dalle vie di maggior commercio» e comunicare «almeno per due lati con grandi e tranquille vie pubbliche e con giardini e corsi alberati». Nel 1975, il decreto del ministero dei Lavori pubblici stabilirà che le nuove scuole vengano ubicate «in località aperta, possibilmente alberata e ricca di verde, che consenta il massimo soleggiamento e che sia comunque una delle migliori in rapporto al luogo; lontana da depositi e da scoli di materie di rifiuto, da acque stagnanti, da strade di grande traffico, da strade ferrate e da aeroporti con intenso traffico, da industrie rumorose e dalle quali provengano esalazioni moleste e nocive, da cimiteri e da tutte quelle attrezzature urbane che possano comunque arrecare danno o disagio alle attività delle scuole stesse; in località esposte a venti fastidiosi e non situate sottovento a zone da cui possano provenire esalazioni e fumi nocivi o sgradevoli».
Da sempre, lo Stato, nell’allestire la rete delle sue scuole, tutela gli interessi degli allievi e fissa i criteri per una gestione razionale del sistema di istruzione. Garantite le condizioni per un esercizio efficace della didattica in un ambiente salubre e sicuro, attraverso il controllo dello spazio dell’educazione lo Stato tutela al tempo stesso i propri interessi unitari, in termini di mezzi profusi e di fini perseguiti.
È singolare che nella pubblicistica sulla scuola questo secondo aspetto venga sempre rappresentato in termini polemici e oppositivi. In fondo è lo Stato che garantisce la scuola finanziandola e i cosiddetti diritti sociali, in cui una cultura pedagogica sempre più incline a ragionare per sofismi fa rientrare cose piuttosto vaghe e ambigue come il diritto al successo educativo, questi diritti dicevo, proprio per la natura instabile e incerta del loro contenuto, sono contrattabili e possono perciò venire rinegoziati se le condizioni economiche appaiono tali da renderli finanziariamente insostenibili. Senza che questo significhi la distruzione della scuola pubblica, come si ripete puntualmente con voce tanto catastrofica quanto conformista.
Accade così che nel 2011, il decreto legge numero 98, che detta «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», stabilisca all’articolo 19 nuovi parametri dimensionali della popolazione scolastica. Il limite ordinario del dimensionamento delle istituzioni scolastiche è innalzato a mille allievi, il doppio rispetto ai parametri fissati nel 1998, ma non molto distanti dalle previsioni del 1975 come si è visto, che contemplavano la possibilità di istituti di 1500 studenti.
È fin troppo evidente che tutta questa faccenda si porti appresso una infinità di conflitti istituzionali, in un Paese come il nostro in cui l’autorità del governo centrale è stata ridotta in frantumi. La definizione della rete scolastica; la decisione, ad esempio, che tutte le istituzioni scolastiche del primo ciclo, scuola elementare e scuola media, debbano essere istituti comprensivi invece che direzioni didattiche o istituti principali di istruzione secondaria di primo grado è, come è noto, materia contesa tra Amministrazione centrale e Regioni: a chi appartiene la potestà relativa? Rientra nella sfera delle norme generali, ed è dunque oggetto della decisione dello Stato oppure è legata all’autogoverno degli interessi locali e di conseguenza alla competenza delle Regioni, alla loro legislazione esclusiva come si dice? Fino a poco fa i conflitti non sono mancati e la conferenza Stato-Regioni più che una camera di compensazione di interessi molteplici, è stata il campo di battaglia di gelose rivendicazioni particolaristiche.
A questo proposito si può far notare a Salvo Intravaia, il quale oppone alla scure di Tremonti il rispetto dei parametri fissati nel 1998 (cinquecento studenti e non mille come livello minimo), che dieci anni dopo quel regolamento una quantità significativa di istituzioni scolastiche, oscillante tra il 15 e il 20% del totale, non era legittimata a funzionare come organismo autonomo, e ancora che quasi il trentasei per cento dei plessi scolastici aveva meno di cento alunni. Non c’è numero che tenga di fronte all’indisponibilità politica della periferia. Oggi Intravaia protesta contro i mille studenti, ma per anni si sono boicottati i parametri del dimensionamento a base cinquecento della rete scolastica. Il punto che Intravaia trascura nella sua polemica è la sistematica opera di demolizione condotta in questo Paese nel nome di interessi particolari contro qualsiasi tentativo di governare la scuola.
Con i numeri insomma si può giocare, e chi vuole li può far parlare a proprio piacimento. Anche se in questo modo non si rende un buon servizio alla comprensione della nuova questione scolastica.
Ci sono altre considerazioni, tuttavia, che si possono aggiungere alle precedenti. Intravaia riduce tutto ai numeri.
Ora, a me pare abbastanza significativo che sia proprio un professore a riprodurre i termini del linguaggio massificato di questi anni, a rinunciare cioè a spezzare la facciata rappresentativa della scuola. Più interessante però è indagare le radici ideologiche di questo atteggiamento. La cosa infatti singolare della standardizzazione dell’esperienza della scuola è il paradosso di chi vuole difenderne le ragioni, in particolare della funzione educativa della scuola pubblica, come sicuramente è il caso di Intravaia, sulle basi di una retorica che contiene, invece, gli elementi concettuali di una radicale confutazione del modello della scuola di tutti.
Colpisce, ad esempio, del libro di Intravaia, l’indifferenza per i contenuti dell’insegnamento. La didattica non compare mai nelle duecento pagine del libro. Non c’è un cenno al problema degli standard, del canone culturale, che cosa devono studiare e che cosa devono sapere gli studenti italiani. Le uniche materie di cui si fa parola sono quelle oggetto di valutazione e di test. Sempre e immancabilmente, lettura e comprensione di un testo quale che sia e, poi, il grande feticcio ideologico della scuola di questi anni, la matematica. I numeri, insomma, tanto cari all’autore, che sono poi la forma rappresentativa del suo libro.
Colpisce, in altri termini, l’indiscutibilità del modello attuale di scuola, in un libro per altri versi attraversato per intero da una vena acrimoniosa e polemica. Questa vera e propria soggezione ideologica di fronte al discorso ricevuto della scuola spiega il sentimento di cattività dell’autore in quanto insegnante, quel suo restare imprigionato dentro la scuola come di chi non sa vedere altro se non il muro che gli è stato costruito tutto intorno in questi anni. In questo senso il libro di Intravaia costituisce un documento significativo dello svuotamento delle culture politiche degli insegnanti italiani.
Senza mostrare nessuna consapevolezza critica, Intravaia sposa un discorso della scuola che ne risolve interamente i problemi in termini di organizzazione. L’Italia che va a scuola è, sotto questo aspetto, il prodotto intellettuale tipico di una stagione di riforme apertasi a metà degli anni Novanta e che, lungo tutto il ventennio successivo, ha insegnato a pensare l’istruzione in termini esclusivi di ristrutturazione della governance. Le matrici di questa cultura sono come è noto anglosassoni, hanno un inedito tratto politico ideologico left-right, e riflettono trasformazioni più generali nella sfera dell’economia e della produzione della ricchezza. Per quello che qui ci riguarda, queste trasformazioni si sono trasmesse alla cultura pedagogica in termini di primato del modello manageriale e di forte spinta alla privatizzazione. Più in generale si può dire che negli ultimi venti anni si è imposto alla scuola un modello fondato sulla presunzione che la nuova impresa capitalistica e soprattutto le sue tecniche di gestione potessero valere da metafora generale dell’istruzione e del successo educativo. È derivata da qui, sostanzialmente, l’idea della scuola come processo standardizzato orientato allo scopo e al risultato e valutabile quantitativamente.
L’applicazione italiana di questi principi è stata spesso risibile, ma la loro diffusione nella cultura pedagogica media non per questo è stata meno significativa. Il discorso pubblico sull’istruzione, soprattutto quello condotto en professionnel, ne è stato totalmente pervaso, senza nessun serio tentativo di analisi critica dei molti assunti ideologici di cui è portatore. Si prenda ad esempio il caso del fallimento scolastico. Intravaia non fa che ripetere un luogo comune di questi anni: il rigore scolastico è illegittimo perché genera costi aggiuntivi per la collettività: i ripetenti pesano sul bilancio della scuola perché gonfiano le classi e dilatano i ranghi del personale (pp. 45-47). Sono un difetto dell’output di sistema. Ma in questo modo la scuola diventa poco più di un apparato di smaltimento dell’eccedenza sociale. Viene spontaneo, allora, chiedersi perché un professore debba parlare della scuola in questi termini e, soprattutto, come pensa di difenderne la funzione politica e civile su basi concettuali che non solo gli sono estranee ma, ad una considerazione un po’ meno superficiale, si rivelano ad essa profondamente ostili.
Per comprendere infatti la portata delle politiche dell’istruzione degli ultimi venti anni e il loro modo di concepire la scuola bisogna tener presente che la assoluta centralità che vi assumono i temi dell’organizzazione e della governance sono l’esito dell’affermazione di un modello culturale nato non solo dalla spinta egemonica dei nuovi protagonisti dell’economia globalizzata, ma da una vera e propria dismissione, dalla incapacità del mondo della scuola di elaborare i contenuti di un nuovo e rigoroso paradigma culturale. Analizzare le radici di questa incapacità richiederebbe uno spazio ben più ampio di queste note. In termini molto schematici si può però affermare che la fine della guerra fredda e la ristrutturazione conseguente della sfera pubblica in molte democrazie occidentali apre una frattura sul terreno della legittimazione dei rispettivi sistemi educativi. Questa frattura si rivela nel corso degli anni Novanta nella incapacità crescente della cultura pedagogica di elaborare un’immagine condivisa di ciò che gli studenti devono apprendere. L’esempio più eclatante in questo senso è la furiosa polemica sull’insegnamento della storia scoppiata negli Stati Uniti nel 1994, sulla quale conviene leggere il libro molto bello scritto da Diane Ravitch [The Death and Life of the Great American School System, New York, Basic Books, 2010].
Come racconta la Ravitch, il fallimento del progetto governativo di elaborare standard nazionali per la scuola americana, e più in generale la riluttanza a porsi il problema dell’insegnamento in termini di ripensamento del canone, danno la stura a partire dalla seconda metà degli anni Novanta ad un movimento per la riforma che pretende di conseguire sul terreno delle tecniche di gestione della scuola quello che sembra impossibile raggiungere sul terreno dei contenuti dell’istruzione.
La nuova scuola che sorge da questa rinuncia gira attorno alle categorie della decentralizzazione, della gestione manageriale, della privatizzazione. Entra subito in rotta di collisione con il vecchio apparato burocratico e amministrativo e genera i molti conflitti a cui abbiamo assistito in questi anni, primo fra tutti quello che riguarda le politiche del personale, che sono le uniche che veramente qualificano l’autonomia di un sistema scolastico: la piena disponibilità di un corpo insegnante pronto ad essere plasmato secondo la volontà e le esigenze ideologiche dei nuovi decisori della scuola.
Intravaia lamenta l’incompiutezza dell’autonomia scolastica e i tagli, vuole il ringiovanimento degli insegnanti e maledice il ministro che non assume i precari. Ha occhi solo per l’organizzazione e per i test della valutazione internazionale e piange sullo stato della preparazione degli studenti.
L’inconcludenza del libro, quel suo tono querimonioso, in fondo stanno in questa contraddizione di fondo che deriva all’autore dall’aver introiettato un modello di comprensione della scuola e nel non volerne poi accettare le implicazioni.
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