Fra storia e interrogazione: «Perché non possiamo non chiamarci cristiani?»
Ci sarebbe luogo, tutto ciò indagando e considerando,
a disperare, se il disperare fosse un partito, come non è.
B. Croce
È alquanto singolare, anche per la rarità dell’inquadratura, il racconto da Croce affidato ai
Taccuini di lavoro circa la genesi improvvisa e quasi necessaria, in una notte di insonnia, di
Perché non possiamo non dirci «cristiani», come riflessione la quale sia venuta innanzi alla mente con imperiosa autonomia, in forma di domanda non più eludibile: «Perché non possiamo non chiamarci cristiani?». Pollone, agosto 1942: il filosofo è impegnato ad incrementare rubriche di studi molteplici, smista saggi nei volumi già configurati –
Scrittori del pieno e tardo Rinascimento, Conversazioni di varia letteratura – scrive la prefazione per il libro sulla Pimentel Fonseca, corregge bozze di volumi già composti e di ristampe. Anche negli
otia literaria della villeggiatura, nella residenza che lo accoglie ogni estate dal 1938, i
Taccuini registrano il ritmo ineluttabile della sua amplissima giornata di lavoro, la tabella di marcia delle pagine da scrivere e poi effettivamente scritte. Ci sono inoltre le visite dell’
intellighentia antifascista piemontese, da Gioele Solari a Carlo Dionisotti, che restituiscono il senso della temperie politica, tra sospensione e presagio, di uno dei momenti più foschi della storia italiana. Accanto a lui la figlia Lidia sta preparando la tesi assegnatale da Adolfo Omodeo su di un tema scelto contro il consiglio paterno, la figura di san Pietro nel nuovo testamento e negli apocrifi. Il filosofo tiene a consegnare allo spazio autobiografico il sottolineato dissenso e il piccolo contrasto familiare – in realtà con Omodeo, il grande storico del Cristianesimo e del Risorgimento, allievo e reattivo interlocutore di Croce. Alla data 15 agosto Croce riassume la giornata di lavoro e infine aggiunge: «Ho letto poi libri di poesia e libri di storia. La sera, cascando dal sonno, mi sono addormentato sulla poltrona». Il 16 riprende a registrare:
Risvegliatomi dopo la mezzanotte, sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: Perché non possiamo non chiamarci cristiani? La mattina ho tracciato il disegno di un piccolo scritto sull’argomento; e poi la recensione di un libro recente del Cassirer. Letture storiche nella giornata.
Dopo giorni di «letture ed appunti», il 26 agosto interviene la stesura del saggio: «Per scuotere la malinconia ho meditato e scritto il saggio sul
perché non possiamo non chiamarci cristiani». E sarà questo il titolo, ormai senza punto interrogativo, del testo che ricompare nei diari, già dattilografato dalla figlia e sua stretta collaboratrice Alda, con la variante
chiamarci > dirci e l’aggiunta degli apici a
cristiani, e poi indicato semplicemente come «articolo sul
Cristianesimo»
1.
Da domanda pressante e tormentosa che gli si fa chiara nella sua urgenza, nella notte del ferragosto 1942, a questione articolata storicamente nella sua evidenza inoppugnabile – «questa denominazione è semplice osservanza della verità »
2 – il saggio apparirà sulla «Critica», in apertura del numero del novembre 1942. Esso va contestualizzato entro una rete di testi omogenei scritti fra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta e nella sequenza sempre significativa dei fascicoli della rivista, lungo gli anni bui del nazi-fascismo all’assalto dell’Europa, dell’antisemitismo e della
Questione ebraica nel mondo3, di cui Croce si fa tempestivo e coraggioso accusatore già nel 1934. Nel 1938, rispondendo a Federica Artom, una ebrea torinese che lo ringrazia per la battaglia contro le leggi razziali condotta dalla «Critica», scriverà con sorprendente intonazione biblica: «Sillaba di Dio non si cancella e la verità resta la verità »
4. Come si evince appunto dai
Taccuini di lavoro, sono questi gli anni più cupi, quelli in cui il vecchio Croce desidera di morire
5. La stessa poderosa macchina della scrittura crociana a volte si ferma, ad ascoltare le avvisaglie, indistinte ma tremende, del Male, della grande notte che incombe sull’Occidente. La riflessione del 1942, se per un verso possiede una sua peculiare imprevedibilità e, secondo taluni, un carattere di svolta, può essere peraltro ricondotta entro una griglia intertestuale molto estesa, che comprende interventi sul cristianesimo pubblicati nel primo Novecento, come
Cristianesimo, socialismo e metodo storico, recensione ad un libro di Sorel su Renan apparsa sulla «Critica» nel 1907
6, dove il filosofo hegeliano aveva definito l’avvento del Cristianesimo un «cominciamento» nella storia dell’Occidente. Così come appaiono fondamentali, in questa direzione, gli
Studi sulla vita religiosa a Napoli nel Settecento, pubblicati in due puntate sulla «Critica» del 1926 e poi confluiti l’anno dopo in
Uomini e cose della vecchia Italia. Non è da sottovalutare, insomma, la straordinaria capacità del vecchio Croce di riportare in nuova luce e di svolgere anche le sue idee più remote, quel che ciascuna pagina precedente portava in sé di non esplicito futuro. E una analisi diacronica delle occorrenze di parole-chiave come
fede, religione, religiosità , mostrerebbe con evidenza la polarizzazione, nell’opera di Croce dagli anni Venti agli anni Quaranta, fra l’attacco alla cultura clericale e neo-tomista e alla politica illiberale della Chiesa del Concordato da una parte e, dall’altra, la sempre più incisiva rivendicazione della forza liberatrice ed eversiva dell’immagine di Cristo. Già nel 1923 a proposito dell’insegnamento religioso nella scuola elementare, egli aveva ricordato, nel votare a favore di esso, che «ogni educazione, (anche quella che l’ateo e il materialista disegna in conformità dei suoi presupposti logici) è sempre educazione religiosa»
7. Tanto meno si può dimenticare, in questa battaglia volta a strappare ai cattolici gli emblemi della coscienza cristiana, a cominciare dal Manzoni, il valore della collaborazione con Adolfo Omodeo, il quale sulla «Critica» pubblica, fra l’altro, la serie degli studi
Cattolicismo e civiltà moderna nel secolo XIX e quelli sulla
Cultura francese nell’età della restaurazione. E sulla rivista, ad opera comune, si andò dipanando lungo tutti gli anni Trenta, attraverso saggi note e recensioni, una storia intera, aperta, assai prima del
Perché non possiamo non dirci «cristiani», alla visione laica di una Europa cristiana.
Nella prospettiva reticolare di una scrittura filosofica che tende costantemente a ripensarsi in situazione, ognora in vista di una rinnovata unità sinfonica dei temi messi in circolo, il saggio
Perché non possiamo non dirci «cristiani» si rivela dunque come punto di convergenza e di sintesi di un nucleo determinato di testi, pertinenti al passaggio tra il 1939 e il 1943, con riferimenti particolari a pagine non più antiche del 1930. Sulla sua elaborazione e ricezione, sul posto che occupa nella dinamica dell’opera crociana e sul complesso viaggio testuale – tuttora in corso – di un testo il quale viene spesso estrapolato e riattivato in modo più o meno legittimo, ha scritto pagine esaustive Gennaro Sasso
8. Sullo sfondo vanno considerate almeno la memoria letta al Congresso di Filosofia di Oxford nel settembre 1930,
Antistoricismo e, complementare, la memoria del 1931
Considerazioni sulla Storia d’Europa dal 1871 al 1914, poi parte conclusiva della
Storia d’Europa nel secolo decimonono9. Là si indicava nel Cristianesimo la nascita di un mondo effettivamente nuovo, «di nuovi concetti, nuovo sentire e nuove configurazioni sociali e nuove istituzioni». E si connetteva liberalismo, idea di Europa, storicismo e, in linea con l’educazione e la vita cristiana, «la religione della libertà ». È questa connessione semantica, è questa inclusione strategica del concetto di religione applicato ad un principio immanente (la libertà della coscienza morale, ma anche la libertÃ
della e
nella Storia), una delle ragioni della violenta reazione della Chiesa e della messa all’Indice di tutta l’opera crociana nel 1934. Croce avrebbe difatti, da parte sua, argomentato che proprio l’odio irremissibile della chiesa di Roma metteva in luce «il carattere religioso, di religiosa rivalità , del liberalismo». Nel
Perché non possiamo non dirci «cristiani», si afferma, conseguentemente, il carattere di rivoluzione operata dal Cristianesimo «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» e, per questa centralità dell’intimo dell’uomo, «una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità ». Croce, come ha messo in evidenza Sasso, riconosce l’azione della «verità (filosofica) del cristianesimo» fuori del cristianesimo, addirittura al centro del pensiero moderno, dal momento che «la rivoluzione cristiana fu
un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi»10. Sulla «Critica» il filosofo aveva preparato queste posizioni, anche avvalendosi di citazioni di scrittori e pensatori contemporanei, a configurare un fronte, minoritario ma prestigioso e resistente. Si rilegga questo passo di Thomas Mann, il più presente con pagine tradotte e semplicemente offerte senza commento dal direttore al lettore italiano:
Dite quel che volete: il Cristianesimo, questa fioritura del giudaismo, resta uno dei pilastri fondamentali su cui riposa la civiltà occidentale, e l’altro dei due è l’antichità mediterranea. Rinnegare uno di questi due fondamenti della nostra moralità e cultura, o rinnegarli tutti e due da parte di un gruppo qualsiasi della società occidentale importerebbe un uscir fuori da questa civiltà e uno strappo violento (che, del resto, grazie a Dio, non è eseguibile) dallo status umano verso non si sa che[…]11.
Proprio il riferimento di Mann ad «un gruppo qualsiasi della società occidentale» può rivelarsi utile per intendere il senso strategico-politico di quel
noi, che rinvia nel testo crociano ad un preciso anti-modello culturale, rispetto alle forze ideologiche in quel momento egemoni, segnatamente alla omogeneità discorsiva di una ristretta comunità intellettuale europea. In questo scorcio drammatico di anni, si deve registrare sulla «Critica», accanto ai temi propri del pensiero laico, l’attenzione costante per l’immaginario letterario del Cristianesimo, per la valenza poetica dei testi cristiani: l’episodio di
Gesù e l’adultera sollecita una delle interpretazioni più geniali del Croce lettore e viene accolto in
Poesia antica e moderna12, il suo libro di critica più libero e meno programmatico, solo inteso a illuminare, da Terenzio ad Hopkins, le gradazioni e le variazioni della «poesia eterna». Nel medesimo fascicolo del 1939 l’analisi dell’inno
Dies irae, si risolve in una raffinata lettura del testo-nel-testo, cioè dell’uso che ne fa Goethe nel
Faust. Lo stesso deve dirsi della interpretazione, che suonò come antifona, dell’inno latino medievale
Quid tiranne, quid minaris?, nel saggio anch’esso raccolto in
Poesia antica e moderna. È una vittoriosa invasione dei territori solitamente praticati con «pia unzione» e molta cautela politica dai letterati cattolici. In particolare la situazione poetica assoluta – raccontata con movenze, parole, fisionomie «definitive» secondo il giudizio di Croce – dell’episodio della vita di Gesù, «ha operato nei secoli sulle anime ed opera ancor oggi, col magico potere della poesia che ammonisce senza ammonire, che insegna senza insegnare, che svela all’uomo i recessi più profondi e le fibre più delicate dell’umanità ».
Sulla «Critica» del marzo 1940, si trova infine il saggio
«Il beneficio di Cristo» che del testo del 1942 rappresenta, sotto molti aspetti, il più plausibile antecedente. Il
Trattato utilissimo del beneficio di Cristo crocifisso verso i cristiani, è difatti un trattatello cinquecentesco, condannato come eretico dalla chiesa cattolica nel momento in cui cominciò ad essere letto alla luce della riforma luterana. In quel «libretto scritto col cuore» si affermava la verità cristiana della salvezza dell’anima attraverso la fede e il «bene operare» che è, agli occhi di Croce, verità filosofica che «non perde questa natura, perché si presenti avvolta nel mito del dio redentore, di Cristo figlio di Dio»
13. Probante della prensilità e finezza della lettura crociana, che non perdeva mai di vista la ricezione contemporanea, risultava la notazione su
come leggere, nei tempi illiberali, testi problematici e di per sé duplici, al confine fra due opposti modelli, tra ortodossia ed eresia: bisogna far attenzione, osservava Croce, «non soltanto a ciò che quei libri affermano, ma a ciò di cui
non si parla, e che è per tal modo tacitamente negato, trattato come se non avesse consistenza e realtà ». Potrebbe essere vantaggioso, allora, applicare al saggio
Perché non possiamo… proprio un siffatto metodo di scandaglio, forse adatto a farcene comprendere l’effetto, in sincronia – di sconcerto e di sorpresa – e la lunga serie di ritorni e riscoperte di esso nel tempo, come di un testo
aperto. Quale è la parte che manca? Che cosa viene taciuto? Non è agevole, qui, affrontare la questione. Certo, vien fatto di suggerire, Croce vi appare non come era, in quell’anno e in quella estate, accerchiato e attaccato, bensì solo,
in più spirabil aere, nel vibrante corpo a corpo con l’immagine di Cristo, irresistibile e irreversibile, possesso certo di chiunque vi aneli, liberamente. E c’è, soprattutto, la Storia grande, di lunga durata, ci sono i secoli («il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito»), in uno spazio dove il fascismo non esiste, è già un breve passato. A considerare la strategia della reticenza, lo stesso spostamento del contenzioso politico sul tavolo del cristianesimo fuori del cattolicesimo reificato, restituisce profeticamente una temperie postuma, dopo il massacro, molto avanti rispetto all’effettivo presente e alla guerra che qui trapela come già perduta. Ebbene, se si tiene presente l’inarcatura interrogativa della prima formulazione, come domanda che lo arrovella, «Perché non possiamo non chiamarci cristiani?», ci si mette sulle tracce dell’altra domanda, quella che ne costituisce il rovescio: «Possiamo (ancora) chiamarci cristiani?». In questa direzione ci conduce lo stesso Croce, nella veste di organizzatore di cultura e di puntuale consigliere dell’editore Laterza. Difatti, nel luglio 1933, nel sollecitare l’editore a pubblicare il libro di Piero Martinetti su Gesù, aveva notato che si trattava di un «lavoro serissimo, informatissimo e limpido», dal carattere non solo storico. E aveva aggiunto: «Ha un chiaro fine attuale, espresso nella domanda di uno dei capitoli:
Possiamo oggi essere cristiani? Io l’intitolerei:
Gesù Cristo, e come sottotitolo
Possiamo oggi essere cristiani?»
14. Si tratta forse di un passaggio non trascurabile nella storia della formula, e di quella domanda polemica, che nell’opera del filosofo antifascista Martinetti introduceva una durissima requisitoria contro il cattolicesimo fascistizzato della neo-scolastica di padre Gemelli.
Qui importa, però, l’interrogazione crociana e il ricorso alla modalità peculiare del
verbum dicendi, chiamata a dissociare le due nozioni, quella convenzionale e comunemente accettata e quella invece da ridiscutere nel suo significato proprio. Chi abbia esperienza testuale e formale della scrittura di Croce sa che la discussione della denominazione – in questo caso il dirsi e l’essere detto
cristiano – è sempre preliminare allo smantellamento del vecchio senso e alla configurazione di un nuovo significato. Sul fronte opposto, c’erano infatti i «cosiddetti
cristiani», sedicenti «uomini di fede» che non ripugnavano ad «accettare alleanze di briganti e di peggio»
15. E toccò invece a spiriti religiosi come Croce combattere, ad esempio, il «Neopaganesimo della gioventù hitleriana»
16. Di qui le virgolette
17, sin dal primo dattiloscritto, di qui l’originario carattere interrogativo, e di interrogativo non retorico, del testo che conserva infatti, nella redazione finale, la felice ambiguità del
perché. Nel numero precedente della «Critica», del settembre 1942, il filosofo aveva scritto una nota
Sulla parola e sul concetto di fede, per questo verso rivelatrice:
fede è termine che ha luogo solo nella discussione delle testimonianze e della loro maggiore o minore autorità ; al di fuori di questo campo ha valore solo come, si direbbe oggi, performativo, ad indicare il passaggio da pensiero ad azione. E «genii della profonda azione», portatori del VERBO come
δυναμις, sono definiti nel testo del 1942, Gesù e Paolo.
Dopo aver letto il saggio, l’amico Vossler, in una delle sempre più rare lettere permesse dalla situazione bellica e dalla censura militare, gli scriveva dalla Germania: «quel
nome che tu ora rivendichi, io te lo dava da sempre in cuor mio»
18, mostrando di avere bene inteso la sostanza della questione del
nome. Ma è il letterato Pietro Pancrazi ad offrirci, nella lettera di ringraziamento a Croce, una importante chiave di lettura del saggio: «Stupendo, rivela, chiarisce e approfondisce un sentimento che era in tutti noi. E dentro ci dev’essere un nucleo poetico, un nucleo lirico, perché io poi sono andato a rileggere la
Pentecoste»
19. In effetti, il saggio possiede una quota di letterarietà cospicua che deve far riflettere: pari almeno a quella che informerà il dialogo immaginario con Hegel del 1949, anch’esso balenatogli in mente come
rêverie, nel dormiveglia di una notte inquieta, intorno a quell’Hegel suo «eterno amore e cruccio»
20. Là dove non arriva l’argomentazione logica, nelle zone non ancora pienamente concettualizzate, giunge la poesia, la metafora, anche in uno scrittore sobrio e riluttante alle immagini come Croce. Si vuol suggerire che l’estetizzazione del cristianesimo, chiarissima nelle pagine di
Gesù e l’adultera, agisce come un approfondimento narrativo, testuale, e quindi, per questa via, tale da attrarre nella concreta dimensione storica l’elemento che appare per sua natura refrattario alla storia, vale a dire il Mistero. È significativo che per mostrare la pienezza di esistenza del cristianesimo Croce ricorra ad un argomento di solito da lui adoperato in sede di critica per le grandi opere d’arte, per Dante e per Shakespeare, che cioè esso ha inventato una nuova qualità , una nuova tonalità spirituale, che prima non c’era, in questo caso
l’interiorità . Non solo, ma all’evento del Cristianesimo si attribuisce, proprio come alla poesia, una temporalità più profonda, accanto al tempo storico, la capacità di fondare quello che Croce definisce «il sovra-mondo»
21.
È infine di qualche interesse, a questo punto, verificare come Croce, sempre impegnato a raccogliere i propri saggi, a ricombinarli e così a ri-eseguirli, abbia ripreso questo saggio subito notissimo. Sarà raccolto nei
Discorsi di varia filosofia, nel 1943, in seconda posizione, insieme con pagine scritte «negli ultimi tre anni», al fine, scrive nell’
Avvertenza con citazione alfieriana, di «vieppiù radicarsi». È presente nell’antologia inglese
My Philosophy and other Essays on the moral and political Problems of our Time pubblicata a Londra nel 1949
22; manca all’appello dell’auto-antologia che inaugura la Collana dei classici Ricciardi nel 1951
Filosofia. Poesia. Storia. Qui nella prima sezione
Logica della Filosofia c’era invece un testo omogeneo,
L’ombra del mistero, splendido e di taglio più ampio (a semplificare il discorso: non è l’uomo a trovarsi dentro il cono d’ombra del mistero, ma è il mistero, come esigenza attivatrice di progressiva luce, ad essere dentro la coscienza travagliata dell’uomo, di volta in volta realizzando le diverse progressioni dello Spirito). La sezione si chiudeva con il saggio apparso sulla «Critica» nel settembre 1941, speculare rispetto al
Perché…, dedicato ad una immagine della Logica,
La “Loica†nei tarocchi detti del Mantegna, che già era stato messo in apertura, e quindi in rilievo, nei
Discorsi di varia filosofia. Elogio della filosofia come ricerca del vero e lotta contro l’errore, la «divagazione» risulta improntata ad una ironia che poté apparire dissacrante. Ne citiamo qui il passo conclusivo, a ricordare al lettore contemporaneo entro quale orizzonte intellettuale, spregiudicatamente laico ma investito da una intima e vivente religiosità , siano nate quelle altre pagine:
io, da mia parte, divenuto particolarmente devoto della Logica, ho messo in un quadretto e ho sospeso a una parete della mia stanza da studio la sua figura in questo «tarocco del Mantegna», come l’immagine di una santa, alla quale mentalmente mi raccomando perché voglia tenermi sempre nella sua severa e buona guardia23.
NOTE
1 B. Croce,
Taccuini di lavoro, voll. 6, Napoli, Arte Tipografica, 1987 (ma 1992), vol. IV, 1937-1943, pp. 367-370.
^
2 Id.,
Perché non possiamo non dirci «cristiani», in
Discorsi di varia filosofia, 2. Voll. A c. di A. Penna e di G. Giannini, con una nota al testo di G. Sasso, Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 2011, pp. 18-29, a p. 18.
^
3 B. Croce, in
Pagine sparse, volume secondo, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 409-410. Per una ricostruzione dell’atteggiamento e dell’azione di Croce rispetto alle leggi razziali, anche con materiali inediti, cfr. E. Giammattei,
«Sopra un ponte mentre soffia il vento». A proposito di Croce e gli Ebrei, «L’Acropoli», 11 (2010), n. 3.
^
4 Ivi, p. 225. La minuta della lettera citata si trova nell’Arch. Biblioteca Fondazione Benedetto Croce.
^
5 Ad illuminare questo passaggio cfr. G. Sasso,
Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 1989.
^
6 B. Croce,
Cristianesimo, socialismo e metodo storico (a proposito di un libro di G. Sorel), «La Critica», fasc. V, 20 settembre 1907, poi in
Conversazioni critiche, serie II, Bari, Laterza, 1924, pp. 306-322.
^
7 Id.,
Sull’insegnamento religioso, «La Critica», 21 (1923), fasc. IV, p. 255; poi in
Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1926.
^
8 G. Sasso,
Filosofia e idealismo. V. Secondi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2007, ai Capp. 6,
Perché Croce scrisse il ‘Perché non possiamo non dirci cristiani’ e 7,
Buonaiuti e De Luca su Croce e il Cristianesimo, pp. 411-512.
^
9 B. Croce,
Antistoricismo, «La Critica», 28 (1930), fasc. VI, poi in
Punti di orientamento della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1931; e
Storia d’Europa nel secolo decimonono [1932], a c. di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991: sulle questioni da noi sollevate si veda l’importante Postfazione del Curatore.
^
10 Perché non possiamo non dirci «cristiani», in
Discorsi di varia filosofia, cit. p. 19. Nell’
Apparato delle varianti il titolo è, erroneamente, senza le virgolette (Vol. secondo, p. 608).
^
11 Da un nuovo libro di Thomas Mann, «La Critica», 34 (1936), fasc. I, p. 76. Il passo è tratto da T. Mann,
Meerfahrt mit Don Quijote, in
Leben und Grosse der Meister, Berlin, 1935.
^
12 B. Croce,
Poesia antica e moderna. Interpretazioni, Bari, Laterza, 1941.
^
13 Id.,
Il «Beneficio di Cristo», «La Critica», 38 (1940), fasc. II, pp. 115-125, p. 122; poi in
Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, voll. I e II, Bari, Laterza, 1945.
^
14 Nella risposta il Laterza coglieva bene il rischio dell’attualità di quel sottotitolo che poteva «facilmente prestarsi a giudizi
a priori in diverso senso»: B. Croce-G. Laterza,
Carteggio IV,
1931-1943, tomo I, a c. di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 241-243. Debbo a Nunzio Ruggiero l’indicazione di questo passaggio epistolare.
^
15 B. Croce,
Professioni di fede, «La Critica», 40 (1942), fasc. V, p. 286. È solo un esempio tratto dalla fitta rubrica polemica dedicata alla
Gente di chiesa, poi così denominata in
Pagine sparse, Volume Terzo, Napoli, Ricciardi, 1943.
^
16 Cfr. la nota
«Neopaganesimo», «La Critica», 34 (1936), fasc. I, p. 78.
^
17 Sul carattere decisivo delle virgolette, sulla differenza fra
essere cristiano e
dirsi «cristiano», insiste J.L. Nancy,
Préface a B. Croce,
Pourquoi nous ne pouvons pas ne pas nous dire «chrétien. Bisogna però sottolineare che la dissociazione parola/cosa, e il ricorso alle formule
cosiddetto, sedicente, pseudo, è tipico dell’argomentare di Croce sulla sostanza, sempre storica, dei concetti e quindi connessa alla storicità dei significati: v. E. Giammattei,
Croce e la funzione Imbriani, in
La Biblioteca e il Dragone. Croce, Gentile e la letteratura, Napoli, Editoriale scientifica, 2001.
^
18 B. Croce,
Carteggio Croce-Vossler 1899-1949 [1951] a c. di E. Cutinelli Rendina, Edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 1991, lettera del 1° dicembre 1942, pp. 402-403.
^
19 B. Croce-P. Pancrazi,
Epistolario 1913-1952, con prefaz. di E. Croce, Firenze, Passigli, 1989: lettera del 30 novembre 1942, p. 149.
^
20 B. Croce,
Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, «Quaderni della Critica», 1949, 13, poi in apertura di
Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1952.
^
21 Per questa notazione si rinvia alla persuasiva
Postfazione di G. Galasso, in B. Croce,
La mia filosofia, Milano, Adelphi, 1993, pp. 354-355.
^
22 Se ne veda l’edizione italiana, in Id.,
La mia filosofia, a c. di G. Galasso, cit.
^
23 Id.,
La “Loica†nei tarocchi detti del Mantegna, in Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951; ora nell’edizione Adelphi, 1996, a c. di G. Galasso.
^