Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIII - n. 4 > Rendiconti > Pag. 435
 
 
Il viaggio di Isaiah Berlin tra due culture
di Alessandro Della Casa
La recente biografia intellettuale Isaiah Berlin. The Journey of a Jewish Liberal (New York, Palgrave Macmillan, 2012) dello storico israeliano Arie M. Dubnov, docente presso la Stanford University, si concentra sui primi cinquanta anni di Isaiah Berlin (1909-1997), suddividendoli in tre momenti cardinali: l’infanzia nella natia Riga; il periodo di studio ad Oxford tra le due guerre; la fase successiva al secondo conflitto mondiale, culminata con la conferenza del 1958 su Due concetti di libertà.
Rispetto alla vasta bibliografia critica fino ad ora dedicata in ambito anglofono allo storico delle idee e filosofo oxoniense, il lavoro di Dubnov mostra evidenti tratti di originalità, dal momento che intende porre al centro dell’indagine l’anima ebraica dell’identità berliniana, rimasta spesso in ombra rispetto a quelle inglese e russa (come era accaduto, ad esempio, nella biografia di Michael Ignatieff), e contestualizzare la genesi dei principali concetti contenuti nel suo pensiero, piuttosto che dedicarsi alla loro analisi e al loro sviluppo (come era invece accaduto nelle monografie di John Gray e di George Crowder). È sotto questa luce che Dubnov delinea l’emergere in Berlin di due aspetti prevalenti della personalità, quello ebraico e quello dell’Homo Europaeus, connessi a due prospettive politiche, quella sionista e quella liberale, che si sviluppano parallelamente, talvolta intersecandosi e dando vita al peculiare liberalismo berliniano, non privo di contraddizioni interne, che lo storico descrive senza porsi il compito di risolvere.
Il viaggio compiuto da Berlin al quale allude il titolo del volume, pertanto, è innanzitutto tra due universi culturali; tra la prima formazione nell’ambito familiare e del contesto righese e quella proseguita in Inghilterra, dal 1921 sua patria di adozione. Eppure la definizione, che di sé diede spesso il filosofo, come di un «russoebreo», secondo Dubnov, celerebbe la più complessa opera di «riorientamento in un nuovo ambiente e in una società ospitante» al fine di «mantenere un delicato equilibrio tra quella che egli avrebbe denunciato come “assimilazione” e quella che probabilmente preferiremmo chiamare “acculturazione”» (p. 35). Non sarebbe stato, quindi, l’ambiente natale a rendere Berlin un russo-ebreo. Egli sarebbe divenuto tale nello stesso momento in cui andava acquisendo la propria ‘anima’ inglese, attraverso un processo interiore teso all’apertura alla nuova cultura, ma anche al mantenimento della propria diversità, basata, grazie al richiamo alla cultura russa, su fondamenta ancora più solide.
Che l’identità russo-ebraica fosse un costrutto conscio è dimostrato dal fatto che, nell’epoca in cui Berlin vi condusse l’infanzia, la stessa Riga, benché all’interno dei confini dell’impero zarista, non fosse una città russa. Era invece una realtà «essenzialmente “Baltica”» (p. 18), punto d’incontro, anche culturale, tra il mondo tedesco e quello russo, e quindi multietnica. A Riga viveva una numerosa popolazione ebraica, egualmente plurale. Questa si divideva, infatti, tra coloro che erano influenzati dalla cultura tedesca e dallo Haskalah – l’Illuminismo ebraico – e i più tradizionalisti, solitamente provenienti dalla Zona di residenza, seguaci dello hasidismo. Lo stesso Isaiah Berlin senior, ricco commerciante di legname, era un esponente eminente dello hasidismo, avendo sposato una discendente del fondatore della scuola Chabad-Lubovitch, il rabbino Shneur Zalman di Liadi. Egli, in assenza di eredi, aveva adottato il nonno e il padre – nati Zuckerman, e anch’essi membri della discendenza del grande rabbino – del futuro filosofo.
L’educazione del giovane Isaiah Berlin, benché entro un contesto di osservanza alla ortodossia ebraica, fu però indirizzata allo studio della cultura dell’Europa occidentale. Berlin, inoltre, dedicò scarsa attenzione allo studio della lingua ebraica e del Talmud, dichiarando in seguito di non essere credente. Già in questi tratti, secondo Dubnov, può trovarsi l’origine della berliniana concezione secolare ed «etnonazionale» (p. 4) dell’identità ebraica: in Berlin «il giudaismo era trasformato in ebraicità» (p. 34).
La convinzione sulla natura etnica, più che religiosa, dell’essere ebreo era ben presente già nel diciannovenne Berlin, come testimonia un breve scritto poetico – imitante lo stile modernista –, il cui efficace titolo, M. Henri Heine (Un rien, vous êtes Monsieur un rien!), faceva riferimento al ricordo di Heinrich Heine sullo storpiamento del proprio nome da parte dei francesi. Per Dubnov, Berlin avrebbe voluto mostrare come Heine, rinunciando alla religione ebraica attraverso il battesimo protestante (divenendo quindi un Taufjude), non avesse ottenuto una nuova identità quanto piuttosto la «nullità» (p. 50). Non sarebbe potuto essere altrimenti, dal momento che, come il filosofo avrebbe poi affermato in The Achievement of Zionism (1975), la differenza ebraica era essenzialmente «storica» (p. 52). Inevitabilmente tale visione avrebbe condotto il giovane Berlin a concordare con la simile lettura che dell’identità ebraica dava lo storico Lewis B. Namier, il quale si sarebbe attivamente impegnato nella causa sionista ritenendo che la creazione dello stato di Israele fosse la sola opportunità di liberare gli ebrei dalla invalidante «mentalità dell’esilio» (p. 93). Come Namier, Berlin avrebbe avversato l’antisionismo dell’élite ebraica inglese, che rigettava qualunque vocazione nazionale degli ebrei, prospettando la completa assimilazione nella società britannica (p. 97).
Il primo viaggio, compiuto nel 1934, nel Mandato britannico in Palestina produsse in Berlin le impressioni che avrebbero definitivamente informato il suo atteggiamento nei confronti del sionismo: se, infatti, ritenne gli ebrei palestinesi «il popolo più felice e sicuro» che egli avesse mai incontrato e se sentì affinità con la popolazione, pure l’anima inglese gli suggerì «il bisogno di mantenere una distanza critica». La creazione di Israele, del resto, era da lui intesa come «forma di rifugio» – e per questo motivo andava primariamente sostenuta –, «non come un piano universale destinato a includere la popolazione ebraica del mondo intero» (p. 112). Allorché Arthur Koestler, vicino alla posizione del violento sionismo revisionista, scrisse in Promise and Fulfilment (1949) che la nascita dello Stato di Israele imponeva «la scelta tra diventare cittadino di Israele o cessare di essere ebreo in senso nazionale, religioso, o in qualunque altro senso della parola», Berlin rispose al contrario che Israele rappresentava per gli ebrei «un’altra opportunità», non la sola (p. 198). In tal modo si rendeva evidente la possibilità di conciliazione tra il «sionismo della diaspora» e la concezione della libertà politica, che Berlin avrebbe elaborato come somma delle opportunità concesse all’individuo (p. 197).
Dubnov mostra come l’impegno diretto di Berlin nella causa sionista non fu di lunga durata, ma coincise con l’attività che egli svolse negli Stati Uniti presso il Ministero dell’Informazione e l’ambasciata britannici durante il secondo conflitto mondiale. In quel frangente il filosofo poté stringere un legame di collaborazione politica e di amicizia personale con Chaim Weizmann, leader moderato e anglofilo del movimento sionista, verso le cui posizioni, più che verso quelle oltranziste di Ben Gurion, si sentiva maggiormente attratto. Fu però in quegli stessi anni, durante i quali Stati Uniti e Gran Bretagna indietreggiarono rispetto alle promesse contenute nella Dichiarazione di Balfour, che si palesò il conflitto interiore tra la lealtà verso l’Inghilterra e quella verso il sionismo. La freddezza con cui Berlin avrebbe accolto le notizie che giungevano al suo ufficio a proposito dello sterminio degli ebrei in Europa – episodio tra i più controversi della biografia berliniana –, ritenendole uno strumento di pressione sul governo britannico utilizzato da «sionisti fanatici», secondo Dubnov testimonierebbe la definitiva trasformazione di Berlin in un «uomo del Foreign Office» (p. 173). Con la fine del conflitto, comunque, Berlin intendeva interrompere qualunque attività diplomatica e rifiutò sia le proposte britanniche, sia quelle che provenivano dall’Organizzazione sionista mondiale, il cui primo congresso dopo la seconda guerra mondiale fu anche l’ultimo che vide Weizmann alla presidenza. L’anziano leader si sarebbe accomiatato con un discorso in cui rivendicava la propria linea gradualista, ormai minoritaria, e condannava – così come Berlin gli aveva suggerito – il terrorismo ebraico, poiché in contrasto con l’essenza stessa del sionismo (p. 182).
Uno degli indubbi meriti del libro di Dubnov è quello di approfondire l’indagine sullo sviluppo intellettuale di Berlin a Oxford, colmando in parte una lacuna che Giuseppe Galasso aveva già indicato a metà degli anni Novanta (cfr. G. Galasso, Dalla filosofia alla storia delle idee, in Isaiah Berlin filosofo delle libertà, a cura di Paolo Corsi, Milano, RCS, 1995, p. 35n.). Non limitandosi a prendere atto della tarda affermazione di Berlin, il quale ricordava di essere divenuto «una specie di realista» sotto l’influenza del pensiero di Bertrand Russell e degli oxoniani H.W.B. Joseph e John Cook Wilson, Dubnov osserva, infatti, che il panorama filosofico di Oxford negli anni Trenta vede Berlin parte della «terza ondata» del realismo oxoniense, seguita a quella di Gilbert Ryle, e a quella, ancor precedente, di Cook Wilson. L’impegno realista di Berlin, e l’influenza che su di lui ebbe Ryle, si manifesterebbe soprattutto in Error, saggio scritto intorno al 1934 e mai pubblicato, nel quale il giovane autore tenta di confutare proprio l’interpretazione che del concetto di ‘errore’ era data dal «realismo diretto» di Cook Wilson (p. 62). Eppure Dubnov segnala che già nel 1938 Berlin, che contemporaneamente criticava il restrittivo concetto ayeriano di significanza nel saggio Verification, aveva tentato di accostarsi a Robin G. Collingwood, invitandolo, dapprima, a partecipare agli informali incontri dei filosofi analitici e rivolgendogli, poi, la richiesta di ammissione ai suoi seminari. In entrambi i casi Berlin aveva ricevuto un rifiuto, che Dubnov giustifica con il timore collingwoodiano di accogliere tra i suoi studenti un «cavallo di Troia realista» (pp. 69-70). Berlin aveva seguito già nel 1929 le collingwoodiane lezioni sulla filosofia della storia, che avrebbe ricordate come degne di interesse – data anche la passione per la varietà delle culture che ne aveva ricavato –, e capaci di aprire quelle nuove prospettive che erano impedite alla filosofia analitica. Alle prospettive storiciste di Collingwood Berlin si sarebbe progressivamente avvicinato, facendole compiutamente proprie solo negli anni Cinquanta. La volontà berliniana di «tornare al vocabolario che i pensatori politici idealisti usavano nei propri scritti» (p. 75) sarebbe dimostrata dalla stessa definizione dei due concetti di libertà come «positivo» e «negativo», già adoperata in riferimento alla teoria di T.H. Green da Guido De Ruggiero nella Storia del liberalismo europeo – tradotta in inglese dallo stesso Collingwood –, e contenuta nella prolusione sui Due concetti di libertà del 1958. Nella conferenza di Berlin, però, erano ecletticamente combinati sia il punto di vista storico che il «metodo della filosofia analitica del linguaggio», a testimonianza di una ulteriore «tensione interna» irrisolta (p. 210).
Se risulta condivisibile la proposta di ritrovare l’origine del concetto di libertà positiva in Berlin nella descrizione che aveva dato di quello stesso concetto De Ruggiero – ipotesi che già Mario Ricciardi (Gli studi italiani su Berlin, in I. Berlin, Libertà, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 392-394) aveva ben argomentato –, molto meno convincente è il tentativo di rinviare la definizione berliniana della libertà negativa come un opportunity concept al dialogo che il filosofo ebbe nel 1949 con Winston Churchill, il quale – come Berlin avrebbe riportato in una lettera a Rowland Burdon Muller – aveva sottolineato la necessità di garantire all’uomo una «vasta molteplicità» di scelte (p. 194). Tale congettura, del resto, trascurando qualsiasi riferimento a Benjamin Constant, Wilhelm von Humboldt, Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill – autori che Berlin aveva invece eletto a maggiori difensori del concetto di libertà inteso come non interferenza –, esemplifica una delle maggiori pecche metodologiche del volume di Dubnov. L’opportuna scelta di calare la filosofia berliniana nel contesto in cui era sorta, superando gli anacronismi dell’analisi meramente concettuale, si traduce in un approccio errato nel momento in cui, ponendo un rigido legame tra il pensiero e gli avvenimenti biografici, ritiene utile superare anche il contestualismo skinneriano e l’opportunità di prendere in considerazione i testi berliniani come risposta ad altri testi.
La mancata inclusione all’interno del lavoro di un approfondimento dei saggi berliniani conduce a rinviare il discorso sul pluralismo solamente ai travagli interiori del filosofo – che pure vi furono –, senza considerare che il ragionamento di Berlin muoveva, traeva alimento ed era mediato anche dallo studio della storia delle idee. Si pensi, ad esempio, all’influenza che ebbe, sulla formulazione di un liberalismo intenzionato a valorizzare le differenze e le appartenenze culturali, la lettura berliniana, avviata proprio nel secondo dopoguerra, delle opere di Giambattista Vico e di Johann Gottfried Herder, così come l’analisi del pensiero fichtiano sulla duplice interpretazione del nazionalismo. Il Berlin di Dubnov, invece, sembra prevalentemente impegnato in un ‘viaggio sentimentale’ e le sue teorizzazioni sono incautamente descritte come una semplice «questione di cuore», come lo stesso storico rivendica di ritenere (p. 2).
Pur tenendo conto di queste palesi fallacie, Isaiah Berlin. The Journey of a Jewish Liberal è certamente un capitolo fondamentale della fortuna di Isaiah Berlin, dal momento che, contribuendo a liberarne il pensiero dalla cappa imposta da coloro che lo hanno voluto forzare in un sistema filosofico chiuso, allo scopo di farlo oggetto di adulazione o di una critica demolitrice, apre la strada a successivi e ancor più accorti studi.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft