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Il senso delle rovine oggi: intervista a Giuseppe Galasso
di Stefano Gizzi
La «Rivista della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etno-antropologici per Napoli e Provincia»*, profondamente rielaborata nella struttura e nella forma, dedica il primo numero della nuova serie al tema della rovine, dei manufatti ridotti allo stato di rudere, che appaiono, molto spesso, più densi di un senso depositario di aspetti emozionali, culturali e storico-documentali rispetto a quanto possa esserlo un’architettura integralmente ricostruita (salvo eccezioni). Anche volumi recentemente usciti, quale quello di Vieri Quilici su La vita delle opere. Una riflessione e vari pretesti sulla durata in architettura (Fratelli Palombi Editori, Roma, 2011), mettono in evidenza come il fattore essenziale della persistenza dei manufatti, pur se allo stato frammentario, sia la capacità di mantenere viva nel tempo la loro presenza. In tal senso, basti considerare quanto esprimeva Virginia Woolf all’inizio del Novecento, nel sostenere che le architetture, anche se disfatte e “atterrate”, continuano ad avere una loro vita (a proposito di Micene, scriveva: «questi edifici sono stati eretti... mille anni prima di Cristo; giacciono sicuramente in rovina dall’anno – era il quattrocentosessanta?... L’intera sommità della collina è gremita di pietre morte; eppure non sono morte»)1. O, a volte, la rovina viene vista come l’unione di reale ed irreale, di illusorio ed immaginario, ma, ad un tempo, fisicamente tangibile come nelle suggestive parole di Kafka relative al Castello, descritto alla stregua di una costruzione parzialmente in rovina «malinconicamente rivestita di edera... le cui merlature incerte, irregolari, diroccate frastagliavano il cielo azzurro...; un fabbricato... che univa stranamente il carattere del provvisorio a quello dell’antico»2. Ed anche in altri settori, ad esempio nel campo del cinema, l’interrogativo costante è quello di come intendere, ed eventualmente utilizzare, le architetture in disfacimento. Così lo scrittore, critico d’arte e regista Gianni Celati annotava, a proposito del film Visioni di case: «L’idea principale... è di non mostrare le migliaia di case che crollano nelle campagne della valle del Po come maliconici resti del passato, ma come uno tra i più sorprendenti aspetti d’un paesaggio moderno. In un’epoca in cui si tende a restaurare tutto per cancellare le tracce del tempo, queste case portano i segni di una profondità del tempo e così pongono la domanda: cosa fare delle nostre rovine, cosa fare di tutto ciò che è arcaico e sorpassato e non può essere smerciato con altro articolo di consumo?»3. Secondo tali ed analoghi significati, si è scelto di far coincidere l’Editoriale del primo numero (aperto non soltanto alle tematiche della Soprintendenza, ma a contributi esterni, di docenti universitari e di altre Istituzioni) con una intervista sull’argomento a Giuseppe Galasso, e per un lungo periodo sottosegretario dell’allora Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

Stefano Gizzi Perché in un mondo discontinuo, come quello attuale, il tema del frammento, della rovina, dell’incompiuto, sembra avere sempre più fortuna?
Giuseppe Galasso Non so se davvero vi sia oggi una maggiore sensibilità al riguardo. A giudicare dai ripetuti allarmi sullo scempio di antichi paesaggi e prospettive (fa sempre testo il caso della Valle dei Templi agrigentina) non si direbbe. Se, tuttavia, effettivamente fosse così, si potrebbe affacciare l’ipotesi che questo sia in rapporto col timore della fine della civiltà che ha contraddistinto il nostro tempo sotto molteplici forme, dall’olocausto nucleare (di cui oggi si parla meno, ma che ha agito in profondità nei decenni passati; e si ricordi il drammatico e bellissimo film L’ultima spiaggia) alla catastrofe ecologica della desertificazione e del sovra riscaldamento del globo.
S.G. È d’accordo con l’antropologo Marc Augé, secondo il quale il «tempo puro», il «tempo sottratto alla storia», ce lo donano le rovine?
G.G. Non sono per nulla d’accordo. Mi pare vero esattamente il contrario. Le rovine non ci restituiscono un «tempo sottratto alla storia», e perciò «puro», e quindi più vero, nel senso di essere depurato della soggettività umana nella percezione del tempo. Le rovine ci restituiscono, anzi, un tempo stracarico di storia; un tempo storico condensato, per così dire, nell’emergenza della rovina, e perciò più carico di suggestioni e di richiami storici. È alla densità della storia, non a una storia depurata e, quindi, ridotta a un contenitore vuoto, perché segnato da un tempo senza eventi e senza uomini o esseri viventi, che pensiamo dinanzi alle Piramidi o alla Sfinge. E, per dirla tutta, mi sembra che il «tempo puro» sia una ridondanza, frutto di un estetismo senza sostanza.
S.G. Nel periodo trascorso quale sottosegretario al Ministero per i Beni Culturali, particolare attenzione è stata da lei dedicata alla salvaguardia dei ruderi archeologici (con l’inserimento di una specifica forma di tutela nel Decreto che porta il suo nome); come sono cambiate le cose in tal senso in quasi un quarto di secolo dalla promulgazione di quelle norme?
G.G. Per un verso mi pare che le cose siano migliorate, e non si può negare che molto si è fatto anche su questo fronte negli ultimi venti o trent’anni. Per un altro verso mi pare, invece, esattamente il contrario. Ciò dipende certamente anche dalla stessa, enorme, consistenza materiale del patrimonio archeologico, così come di tutto il patrimonio storico-culturale, in Italia. Si ha torto, però, ad allegare questo, pur fondato argomento, come ragione giustificativa ogni volta che ci si trova di fronte a disastri, perdite o deterioramenti lamentevoli delle, diciamo così, rovine italiane. Soprattutto, appare ancora lontana dall’aver raggiunto un livello medio soddisfacente la cura ordinaria del patrimonio, e si sa che è la manutenzione quotidiana quella più importante ai fini della salvaguardia del patrimonio stesso. Né si può ignorare che da ogni parte vengono giudicati controproducenti e dannosi l’accentuazione del decentramento e alcuni aspetti di parcellizzazione delle competenze di ufficio al riguardo. Non si tratta di essere prevenuti, per fare un esempio, verso le Regioni, che ci sono e che bisogna considerare in tutta la portata dei loro poteri. La questione è anche di più funzionale organizzazione del servizio pubblico in questi campi, e a questa esigenza non si può mancare.
S.G. La volontà di ‘reintegrare’, di ‘risarcire’ o di ‘colmare’ un edificio ridotto per varie ragioni (spesso traumatiche) allo stato di rudere, quasi per ‘risarcire un lutto’, va secondo lei contro il fluire lineare della Storia, volendo invertire la ‘freccia del tempo’?
G.G. La rovina è certo un frutto universale e ‘naturale’ del corso storico. Ma questo che vuol dire? Se l’inevitabile e continuo deperimento di tutto e di tutti ci esimesse da ogni preoccupazione rispetto alla salvaguardia delle testimonianze del passato, potremmo dormire sonni più tranquilli. Nella realtà stessa è scritto, invece, insieme col senso di questa deperibilità, anche l’istinto irresistibile a vincerlo, a sopravvivere anche negli aspetti più banali del vivere quotidiano. Figuriamoci per ciò che già agli occhi dei contemporanei ha un qualsiasi rilievo! Ciò comporta il rischio di considerare anche il presente come un museo o un campo archeologico potenziale, e corrisponde alla frequente tendenza a musealizzare tutto dell’oggi, come di ieri. Non aveva tutti i torti Nietzsche quandosi sforzava di distinguere l’utilità e il danno della storia per la vita presente, e tra i danni poneva quello dello schiacciamento del presente sotto il peso del passato: qualcosa che, quando vi fosse, bisognerebbe respingere e dissolvere. Forse, però, il rapporto fra la conservazione e la dissipazione non è l’aspetto più essenziale o, meglio, il solo aspetto del problema. Ce ne sono altri che non vanno meno considerati. Ad esempio, il restauro integrale è sempre la soluzione migliore, la più consigliabile? Il restauro del singolo manufatto, oltre a valere di per se stesso, pone o non pone problemi di contesto?
S.G. Secondo lei, esiste una differenza concettuale nel modo di poter procedere ad un restauro o a una risarcitura di una rovina a seconda dei motivi differenti che possono averla generata (cause belliche, terroristiche, antropiche, di cataclismi naturali), o i criteri di un’azione restaurativa devono essere indifferenti rispetto alle matrici stesse?
G.G. Nelle operazioni a fondamento storico, come in effetti è anche quella del restauro, non si può dare nessuna indifferenza verso la fenomenologia con la quale i problemi ci si presentano. È solo sulla base di una simile premessa che si può pensare a un restauro o recupero dell’‘intrinseco’ di ciò che si restaura. Non parlerei, perciò, di differenze concettuali, bensì di convenienze, opportunità e possibilità operative.
S.G. Ritiene significativo che il tema della rovina sia molto ricorrente e sentito anche nella Bibbia, ma spesso in contrapposizione alla possibilità di un riscatto, sia fisico sia morale? (Deuteronomio 29:22: «vedranno che tutto il suo suolo sarà zolfo, sale, arsura e non vi sarà più sementa, né prodotto, né erba di sorta che vi cresca, come dopo la rovina di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Seboim»; Neemia 1:3: «le mura di Gerusalemme restano in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco»; Proverbi 24:22: «la loro rovina sopraggiungerà improvvisa, e chi sa la triste fine dei loro anni?»; Isaia 24:10: «La città deserta è in rovina; ogni casa è serrata, nessuno più vi entra»; Isaia 60:18: «Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza,e le tue porte: Lode»; Vangelo secondo Matteo 7, 27: «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande»).
G.G. A me pare che bisogna guardarsi dalle tentazioni o suggestioni che portano a dislocare sotto i tetti di altri templi non solo i problemi storici e operativi del restauro, bensì, anzi soprattutto, anche il tema della “rovina” in quanto oggetto dei discorsi di restauro. Abbiamo già notato che la spinta alla sopravvivenza è insita nell’uomo, e credo che possiamo ben dire che lo è altrettanto al livello delle comunità e delle società in cui l’uomo vive. La Bibbia è un testo straordinario anche da questo punto di vista, ed è ben comprensibile che, conformemente alla sua fortissima e radicatissima ispirazione etica, anche problemi come quelli di cui parliamo qui si pongano nei termini di problemi morali. Ma non andrei oltre questa constatazione.
S.G. La contemplazione, da parte dei ‘grandi’ del passato, di fronte alle Rovine (Tito Livio, Marco Aurelio, lo stesso Agostino nella Città di Dio a proposito della sventura dei Romani), fa comprendere come il loro fascino sia quasi connaturato all’uomo, anche se tentiamo di opporci razionalmente al disfacimento, attraverso operazioni di “rimessa in pristino”. Da un punto di vista storico, o storico-letterario, come potrebbe vedersi la questione, secondo lei?
G.G. La contemplazione delle rovine – prima di essere una scelta o un atteggiamento dell’uomo – è una imposizione della storia e della natura all’uomo. Né bisogna dimenticare che, accanto ai molti che si soffermano sulle rovine e meditano o addirittura piangono su di esse, ancora di più sono quelli ai quali le rovine dicono ben poco, e che passano dinanzi a esse senza nemmeno guardarle. L’uomo ha, anzi, la capacità di ante vedere alla rovina e i sentimenti che essa ispira. Si ricordino i bellissimi versi del Tasso suArgante, che interrogato su quel che pensasse in una certa circostanza, Penso, rispose, alla città del Regno/ di Giudea antichissima regina,/ che vinta or cade, e indarno esser sostegno/io procurai della fatal rovina. Anche Dante ha dei versi molto belli al riguardo: la vostra nominanza è color d’erba,/ che viene e va, e quei la discolora,/ per cui ell’esce dalla terra acerba. Siamo, insomma, nella regione dell’«umano, troppo umano»; ed è per questo motivo che il tema viene costantemente e immancabilmente declinato nei più varii moduli e stili. Ma anche qui mi fermerei a questa, peraltro più che mai obbligata, constatazione.
S.G. Può esistere una sostanziale differenza (non solo etimologica) tra rovina, maceria, rudere e lacerto? In questo senso, non è forse forzata la distinzione tra rovine e macerie proposta da Marc Augé nel suo celebre Rovine e macerie. Il senso del tempo, pubblicato nel 2004 («Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia – le vie di Kabul o di Beirut –, e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto»)?
G.G. Anche qui non riesco a essere d’accordo con Marc Augé. È esperienza comune che rovine recenti destino non di rado sensi di distacco e di lontananza molto più forti delle rovine di un remoto passato. È, anzi, altrettanto frequente che il passato remoto ci dia un senso di vicinanza e di attualità ben maggiore di ciò che abbiamo visto rovinare sotto i nostri stessi occhi. Anche la distinzione tra la rovina che attesterebbe la «follia della storia» (follia?), e che è la rovina nascente dalla distruzione (ma perché ricorrere per esemplificarla alle bombe di Kabul o di Beirut? Il passato è scarso di esempi al riguardo?), e la rovina che è frutto solo dell’usura del tempo, è una distinzione che mi riesce tanto chiara nel suo senso letterale quanto oscura nella sua portata oggettiva e priva di significato e di insegnamenti particolari. Tra rovine, macerie, ruderi, lacerti vedo, poi, solo la possibilità di distinzioni tecniche e operative: di concettuale o sostanziale ben poco; e credo, di istinto, che queste distinzioni siano, sul piano appunto tecnico e operativo, non solo opportune e convenienti, ma necessarie.
S.G. Nel libro di Norman Lewis Napoli ’44 vengono descritte le rovine di Napoli e di altri centri distrutti dalla guerra. Il 4 ottobre del 1944, il giovane ufficiale inglese nota: «Altavilla è stata cancellata dalla faccia della terra perché forse nascondeva dei tedeschi. Qui a Battipaglia abbiamo avuto una Guernica italiana, una città trasformata in pochi secondi in un cumulo di macerie». Ora, mentre parte del centro storico di Guernica, o porzioni di nuclei antichi di città martoriate, sono stati lasciati a rudere come monito per le generazioni future, con un carico di significato molto alto e pregnante offerto proprio dalle rovine, dalla voluta “non” ricostruzione, lì dove, invece, si è troppo reintegrato, o dove si è avuta un’edilizia di sostituzione (Battipaglia, appunto), il senso si è perduto e gli effetti appaiono banali. Secondo lei, quale significato può assumere la volontà di una “non” ricostruzione?
G.G. Vorrei innanzitutto precisare che il caso di Battipaglia non è quello di centri abitati di rispettabile antichità e ricchi di antiche memorie storiche. Si tratta di un centro di fortuna relativamente recente, e interessante, storicamente, proprio come tale. Ciò, tuttavia, non toglie nulla al fatto che il problema «conservazione del distrutto a scopo di memoria e ammonimento» valga appieno anche per Battipaglia, benché nel suo caso si ponga assai più il problema della qualità di ciò che è stato costruito dopo la distruzione che non il problema della non conservazione del distrutto. Nella storia il problema del conservare o distruggere mi sembra meno rilevante (se non altro, perché, generalmente parlando, meno frequente) che non il problema del conservare o modificare, alterare, ristrutturare, convertire, trasformare. E da questo punto di vista il problema non mi sembra proponibile in abstracto o per verba generalia. Non avremmo la mirabile Roma rinascimentale e barocca che abbiamo se non fosse stata distrutta o sovvertita o alterata la vecchia Roma medievale: non avremmo quell’inno alla modernità che è la Parigi dei Boulevards se non fosse stata distrutta la reticolare e vetusta Parigi precedente. C’è, insomma, molto da ipotizzare e discutere, e mai come in questo caso i conti veri sono quelli finali.
S.G. È superabile, secondo lei, l’associazione mentale (insita nell’uomo) tra rovina e malinconia (Ruskin, Leopardi, Simmel, Camus, eccetera)?
G.G. Proprio, non saprei rispondere. Le stesse rovine possono sollevare sentimenti opposti: malinconia o il senso della fragilità delle umane cose o possono indurre a considerare le virgiliane “lacrimae rerum”, ma possono anche generare indifferenza o, addirittura, fastidio. Questa mi pare, in verità, una questione alquanto accademica. Stiamo ai casi concreti, individuali, specifici. Anche la “poesia delle rovine” è diversa dall’uno all’altro poeta.
S.G. Per concludere, e per addivenire al mondo attuale, può esistere una “rovina contemporanea”? In caso affermativo, può assumere dignità paritetica rispetto ad altri tipi di rovina? E come si colloca nel fluire della storia?
G.G. Vale la risposta precedente. Il fatto che la rovina sia o non sia contemporanea non è essenziale, e non muta, mi pare, i termini del problema.





NOTE
* Ringraziamo la Direzione della Rivista per l’autorizzazione a riprodurre la presente intervista. (G.G.)^
1 Cfr. V. Woolf, Diari di viaggio in Italia, Grecia e Turchia, [Mattioli, 1885], a cura di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Fidenza, Experience/Frontiere, 2011, p. 30.^
2 F. Kafka, Il Castello, ed. it., Milano, Arnoldo Mondadori 19492, p. 51.^
3 Cfr. N. Palmieri (a cura di), Documentari imprevedibili come i sogni. Il cinema di Gianni Celati, Roma, Fandango Libri, 2011, p. 120.^
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