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Cuoco e il suo epistolario
di Rosella Folino Gallo
L’epistolario cuochiano − del quale si recensisce qui la pregevole edizione (Vincenzo Cuoco, Epistolario), curata da Maurizio Martirano e da Domenico Conte per i caratteri di Laterza − esplora la sfera privata del Cuoco e getta luce sulla sfera pubblica del Medesimo, dando ragione in tal modo della utilità della sua funzione nel tracciare i contorni del lato umano, intersecato con quello pubblico, del personaggio studiato; sia pur con i vuoti obbligati, esso lascia cogliere elementi significativi dell’esperienza cuochiana ravvisandone le linee portanti essenziali e configurando un quadro di riferimento sicuro con il contesto nel quale il Nostro si trovò a operare e a vivere.
Il carteggio prende le mosse dalla celebre lettera galantiana − datata Napoli 4 settembre 1790 e indirizzata al padre del Cuoco, Michelangelo, in cui il Nostro viene dipinto da un risentito Galanti come un giovane di aspetto trasandato, «molto trascurato ed indolente e poco attivo», sebbene capace e di talento, e soprattutto lasciato con pochissimi aiuti da parte della famiglia − per poi chiudersi con la lettera del Cuoco, già involto senza scampo nella malattia, diretta a Giuseppe Corbo e datata Napoli 4 gennaio 1817; seguono nell’Appendice alcuni abbozzi di lettere a Jean Marie De Gérando, a Melchiorre Delfico, a Melchiorre Gioia, all’Accademia di Berlino, all’Accademia celtica. Alle 123 lettere del carteggio cortesiano-nicoliniano – inserito in Scritti vari, la meritoria opera sui manoscritti cuochiani redatta da Nino Cortese e Fausto Nicolini e pubblicata nel 1924 per i caratteri di Laterza − se ne aggiungono quasi altrettante, per giungere al numero delle 225 qui edite; si registra dunque un notevole passo avanti nella raccolta delle lettere cuochiane, anche se i curatori sia della passata che dell’odierna edizione del carteggio lamentano una drastica riduzione delle lettere, sfoltite severamente nella loro entità perché disperse, perché distrutte, perché − aggiungerei, con una buona dose di fortuna − coperte dal velo dell’oblio.
La lettura diretta delle lettere lascia cogliere con abbondanza spunti e richiami a riguardo degli elementi che si andranno dipanando nella disamina dell’opera, e messi in luce dai due Curatori.
Contestualizzate nel tempo e nella vita del Cuoco appaiono le lettere esaminate da Maurizio Martirano nella sua consistente introduzione all’Epistolario; in esse il Martirano ravvisa dei punti salienti utili a meglio definire lo stagliarsi della vicenda umana e politica del grande Molisano sullo sfondo delle inquiete vicende che caratterizzarono il periodo, e dalle lettere enuclea tre fasi relative al periodo giovanile trascorso a Napoli, all’esilio milanese, infine al periodo napoletano.
In primis vi è un’accurata descrizione del ritrovamento e dell’acquisizione di autografi cuochiani, dei quali molti perseguiti con acume e altri, in verità in numero di gran lunga minore, dovuti al caso; segue un significativo, e breve, excursus di importanti studi compiuti sulla figura e sul pensiero di Vincenzo Cuoco.
In una missiva del maggio 1805 indirizzata a un destinatario ignoto, definito come “gentilissimo amico”, il Cuoco stila il suo curriculum vitae (del quale si considera qui solo la prima parte demandando la restante, incisiva a discussione successiva) in cui emergono elementi essenziali riferiti alle condizioni sociali della famiglia – «civilissima, e stretta con vincoli di parentela alle principali famiglie della provincia» – e alle buone referenze ottenute da importanti personaggi sulle quali poggiare il suo desiderio di conseguire come avvocato una brillante fortuna nella capitale, mentre non fornisce indicazione alcuna del substrato culturale vigente nell’eterogeneo e interessante piccolo centro molisano di provenienza e che verrà definito da Gabriele Pepe «Atene delle nostre contrade».
Avviato dai suoi alla carriera forense, Egli ben presto si discosta dal suo maestro Giuseppe Maria Galanti, alla morte del quale avrebbe scritto un sentito necrologio, e dal quale lo allontanano la divergenza delle idee politiche e la partenza di Galanti quale visitatore generale delle province e il successivo abbandono di questi delle pratiche dell’avvocatura. Giunto a Napoli, il giovane Vincenzo non ancora laureato esercita l’avvocatura più per compiacere le aspettative paterne e per trarne qualche mezzo di sostentamento che per vera inclinazione, mentre è attratto da altre sirene, come ad abundantiam testimoniano i suoi interessi e le sue frequentazioni con esponenti di spicco del movimento rivoluzionario partenopeo che di lì a poco sarebbe scoppiato e i cui nomi traspaiono a tratti nelle lettere. La controversia sorta tra l’Università di Civitacampomarano e il feudatario Pasquale Mirelli duca di Sant’Andrea per lo sviluppo e lo sfruttamento delle produzioni agro-pastorali e degli usi civici di legnaggio − voltasi a favore del feudatario per l’intervento del De Iorio, creatura actoniana di rilievo di quel periodo − esacerba ancor di più la situazione del Cuoco, stretto nelle pastoie burocratiche e interdetto a fronte della corruzione e dell’affarismo che dilagano, anche se − osserva il Martirano − trapela l’influsso della tradizione riformistica illuminata nel suo definire il Sovrano giusto e clemente. Le cause di modesta entità che gli riesce di patrocinare e la vicinanza ai consiglieri La Rossa e Frammarino alimentano le sue speranze e gli garantiscono una tranquillità relativa − molto relativa, aggiungerei − tanto da lasciargli affermare che «la professione del foro è lunga ma sicura» con l’intento evidente di giustificare e rafforzare il suo permanere a Napoli. Forse, il Cuoco impersona uno di quei tanti giovani provinciali che forniti di belle speranze e desiderosi di miglioramento, lasciati gli agi della propria famiglia e certo non al riparo dalle incognite di una nuova vita, decidono di avventurarsi in città − nel caso del Nostro una delle più grandi capitali europee del periodo – e il vissuto sociale e culturale di questa vivificano, lasciandovi impressa la propria impronta, e a loro volta ne restano vivificati.
Inizia un rapporto epistolare con la famiglia il cui flusso è destinato a intensificarsi negli anni difficili dell’esilio milanese e nel periodo fulgido degli anni napoletani; particolarmente denso sarà quello con il fratello minore Michele Antonio, verso il quale il Nostro avrebbe sempre avuto un comportamento sostanzialmente arrendevole, ma non esente da momenti di mal celata irritazione, e in questo il Martirano ravvisa, e non a torto, il senso di rimorso provato nei confronti dei suoi per le aspettative andate a vuoto − momentaneamente, e largamente riscattate nel suo rientro a Napoli − e il dissesto economico e i patimenti sofferti a causa delle note evenienze in cui Egli si era trovato ad esser coinvolto. Forte è il legame affettivo tra i due fratelli, anche se caratterizzato da diversità caratteriali notevoli; stranamente Vincenzo, fortemente attivo e propositivo, si ritrova a rimproverare a Michele Antonio la stessa trascuratezza e svogliatezza lamentata in precedenza da Galanti nei suoi confronti. Come si è reso possibile che il giovane pigro e trascurato descritto da Galanti si sia trasformato in un uomo pieno di energia vitale? Propendo a ritenere che, plausibilmente, la spiegazione della metamorfosi del Cuoco possa radicarsi nell’apatia dovuta alla non accettazione della sua situazione, e che il suo spirito vivificato dallo sperimentare altre esperienze, evidentemente accettate, e soprattutto plasmato dalla lezione inconfutabile delle cose, sia tornato ai “talenti suoi” adoperando fattivamente le sue non comuni capacità intellettive. L’atteggiamento protettivo assunto dal Cuoco nei riguardi dei suoi fratelli sarà una costante nell’epistolario, in nuce nel primo periodo napoletano − in occasione della comparsa della “malattia nervina” ereditaria della famiglia che, rivelatasi nella sorella Mariangiola, sarebbe affiorata una diecina di anni dopo nell’altra sorella Maria Giuseppa e in seguito avrebbe ghermito senza rimedio Vincenzo – accentuata e dolorosamente vissuta dall’esilio a Milano, splendidamente fattiva nel ritorno a Napoli.
Nelle lettere del periodo dell’esilio milanese, durante il quale vige una forte censura, il Cuoco si mostra reticente nel riferirsi alla rivoluzione, definita come un vortice «che guidava i volenti, e i non volenti strascinava» − e nel quale suo malgrado si era trovato involto – nelle famose lettere dedicatorie all’opera sul piacere e sul bello; evidente è la volontà di non nuocere agli amici e a se stesso, trovatosi in un nuovo ambiente che lo guarda, e a cui guarda egli stesso, con diffidenza. Dopo un viaggio in cui aveva sofferto peripezie di ogni sorta, correndo più e più volte pericolo di vita, affrontando disagi innumerevoli e soffrendo anche la fame, ma mantenendo sempre un atteggiamento dignitoso e non commettendo mai nulla di disonesto − come avrebbe confidato scrivendo all’amico Diodato Corbo nel 1802 e al fratello Michele Antonio nel 1803 − il Cuoco, giunto a Milano nell’estate del 1800, appena sbarcato al naviglio casualmente incontra l’amico, pure lui esule, Belpusi che lo rifocilla e poi ancora incontra altri esuli ed è una rete fitta di solidarietà e di mutuo soccorso tra esuli, che si prestano soccorso reciprocamente e che è balsamo sulle ferite per l’esule vedere in azione. Egli riferisce ancora che ha “travagliato” a un’operetta − il Saggio storico − la cui stesura, iniziata già durante il viaggio sul legno che avrebbe dovuto portarlo in esilio e proseguita in Francia è completata a Milano, e che all’improvviso per opera di un certo Robaglia è pubblicata e gli frutta anche qualche soldo. Seguono ancora lettere al fratello sui suoi modesti introiti e sulle pressioni di questi per “batter cassa”, sul conteggio delle sue finanze e sulle sue necessità di una qualche rappresentanza, indispensabile al lavoro che svolge come giornalista. Questi ragguagli forniti dal Cuoco al fratello rivestono un certo interesse, perché tramite essi si configura materialmente, anche se parzialmente, non solo la vita del singolo esule ma anche quella di altri esuli venutisi a trovare in situazione analoga o ancor più ridotta per scelta di risparmio o più semplicemente per bisogno.
Egli dunque è vivamente impegnato nell’attività giornalistica, negli studi statistici per i quali, dopo un primo successo e la fortunata collaborazione con Lizzoli, spera invano una evoluzione positiva adatta a sistemarlo stabilmente nella capitale lombarda; l’intreccio di rapporti che sostiene abilmente questi disegni si configura nelle lettere da lui indirizzate all’establishment milanese. Frattanto, accanto a queste iniziative concrete, continua l’attività letteraria: il Saggio storico, che però è messo a margine per motivi prudenziali, e soprattutto la stampa connessa al Platone in Italia che gli conferisce una qualche notorietà nell’ambiente letterario, fornendogli anche dei guadagni. È come se il Cuoco si impegni su due piani: tramite l’uno coltiva una rete di rapporti con importanti Autori del mondo letterario cisalpino – Giusti, Montrone, Monti, Cesarotti – con l’invio di copie dell’opera sua e con recensioni di importanti opere, con incisive discussioni su problematiche estetiche, sull’arte e sul bello; per tramite dell’altro si avvicina al gruppo degli esuli che lo ha accolto al suo arrivo a Milano e dove si ritrovano pure esponenti del mondo culturale, come il Delfico, con cui intavolare colte discussioni, oppure dove è possibile avviare transazioni o prestiti di denari o tentare di inserirne qualcuno nel mondo lavorativo. Il sussistere della fitta trama di rapporti tenuti nel periodo milanese e poi dissoltisi in buona parte dopo il ritorno a Napoli, adombra la tesi di una “rimozione” forse troppo drastica, ma dettata plausibilmente dai patimenti, dalle ansie e dallo scoramento dell’esule e non scaturita da un senso utilitaristico dell’amicizia; perciò sarei propensa a maggior clemenza di quanto afferma il Martirano a riguardo di questo processo di rimozione, considerandolo solamente come un voler cancellare da parte del Cuoco un periodo particolarmente dolente della sua vita. Sopravvivono rapporti sporadici con alcuni rappresentanti del mondo milanese come Bossi e Monti, basati sul comune interesse per temi come il bello e il sublime, anche se è di tutta evidenza il pronunciamento dell’epistolario per gli interessi familiari.
Tornare a Napoli! La “sua” Napoli, riabbracciare le persone care, rinfrancarsi a Civita tra i suoi, anche se per poco tempo, pressato dalle necessità contingenti. A Napoli, dove torna con solo una “commendatizia” del di Breme diretta al ministro dell’Interno del Regno, il Cuoco riprende la sua attività giornalistica e grazie alla mediazione di Tito Manzi assume la direzione del «Corriere di Napoli» e affronta temi da lui affrontati prima dell’esilio, come la questione feudale − dove vivo è ancora il ricordo della sua precedente esperienza del patrocinare i Civitesi nella causa contro il feudatario – e dove depreca il protrarsi delle controversie in cui l’una e l’altra parte cadono facile preda di legulei interessati a che non si ponga fine alle questioni. Dopo alcune lettere da lui scritte al fratello ma che dichiara mancanti perché intercettate, il Cuoco riveste il grande onore di esser creato Consigliere del Sacro Real Collegio; da qui ha inizio un folgorante cursus honoruma, possibile a ricostruirsi almeno in parte tramite le lettere dalle quali è dato cogliere riflessi di piccoli e grandi avvenimenti e dalle quali è possibile individuare l’ordito utile a ricostruirne trame e intrecci. Scriventi e destinatari del carteggio sono i più svariati: personaggi pubblici di rilievo – e tra questi si rileva il Murat per le lettere indirizzategli sull’istruzione – uomini di cultura, amici e, immancabilmente, i familiari.
La caduta di Murat con il sopravvenire della seconda Restaurazione, vede un’estromissione sostanziale del Cuoco dalla vita pubblica e il suo tentativo di ancorarsi agli interessi di studio ai quali era stato legato per un’intera vita, e ne è prova il contenuto dell’ultima lettera diretta a Giuseppe Corbo nel 1817 e riportata nell’Epistolario. A seguito degli stravolgimenti politici e dalle note vicende traibili dalla Necrologia di Gabriele Pepe, si evince che la “malattia nervina” ereditaria, mostratasi dapprima in sordina e sempre latente, avviluppa in maniera definiva il Cuoco e lo stringe negli anni bui della malattia e della sofferenza, quando Vincenzo Cuoco sarebbe, dolorosamente, sopravvissuto a Vincenzo Cuoco.
L’introduzione del Martirano si conclude con la bella metafora − riportata anche dal Cuoco nel Saggio storico − del navigante che affronta i pericoli di un lungo viaggio in mare per giungere alla quiete del porto, alla quale è lecito a mio avviso accostare la bella immagine e il significato pregnante del phaselus bitinico di Catullo: tutt’e due, attraversati i pericoli delle tempeste e le lusinghe della vita − rappresentati dalla metafora del mare in burrasca − accomunati dal raggiungimento della quiete suprema nell’ultimo porto della morte.
Nella postfazione Domenico Conte propone un’acuta analisi dell’Epistolario cuochiano, visto dalla triplice angolazione di “flussi” di lettere, di schermature adoperate dall’autore nello scrivere e di sovrastrutture, non ricercate ma ugualmente sopravvenute, dovute sia alle contingenze coeve sia all’offesa degli uomini e del tempo e all’imponderabilità del caso.
“Flussi” di lettere permettono di lumeggiare, per quanto possibile, alcune importanti tappe della vita del Cuoco anche se su molte cose Egli tace, e del suo tacere danno ragione la triste scuola delle esperienze passate e le urgenze del presente. Durante il periodo milanese assumono rilievo le lettere inviate dal Lizzoli al Cuoco in quanto chiariscono, ma solo in parte, la genesi pragmatica degli interessi cuochiani per la statistica, e cioè l’aspettativa di esser “situato” in modo stabile nella compagine amministrativa dello Stato ospitante; si allineano agli studi statistici lizzoliani quelli relativi al progetto − purtroppo andato a vuoto e plausibilmente fermato anche dalla stretta dovuta all’“affaire Ceroni” − della Statistica della Repubblica Italiana, caldeggiato dal Cuoco nel 1802 presso il Melzi d’Eril vice-presidente della Repubblica Italiana e successivamente nel 1806 presso Eugenio Beauharnais vicerè del Regno d’Italia; è importante notare che questa tipologia di studi si presenta consona al profilo intellettuale del Nostro, pronto e preparato alla fatica statistica affinata dalla collaborazione prestata a Napoli negli anni giovanili al suo maestro Giuseppe Maria Galanti per la Descrizione geografica e politica delle Sicilie.
Il carteggio cuochiano riguardante il periodo napoletano lascia intravedere la densa attività del Nostro, ormai Consigliere del Sacro Real Consiglio, sempre più rivestito di nuovi prestigiosi incarichi − e di onori ed oneri conseguenti − rappresentato sia nella veste pubblica delle sue funzioni, (colto anche e soprattutto quando si occupa di questioni di pubblico interesse di gran rilievo come ad esempio sarà il problema dell’istruzione per il quale si scontrerà con Zurlo) sia nell’aspetto privato configurato nel suo svolgersi con la sua sempre presente famiglia sia nella sfera pubblica e privata con l’insieme delle missive ad/da amici, uomini di cultura e uomini di potere. Pur nella grande varietà di argomenti trattati − riflessione su pensieri suoi e di altri, confronto di opinioni, temi riguardanti la propria attività intellettuale, esposizione di problemi e istanze − il Cuoco tace sulla genesi della sua nomina improvvisa, appena rientrato in Napoli dall’esilio, a Consigliere del Sacro Real Consiglio come tace anche sulla «spaccatura tra elemento francese ed elemento napoletano» che dovette aver luogo nell’apparato governativo napoleonide e sui contrasti dei quali plausibilmente non fu egli stesso esente: basti pensare al contrasto Cuoco-Zurlo sul tema dell’istruzione, e che però trapela nella elaborata vicenda sorta intorno al Rapporto al re G. Murat e progetto per l’ordinamento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli e al relativo laborioso iter burocratico. L’intrapresa cuochiana fu fortemente osteggiata dallo Zurlo, oltre che per la diversa genesi e successivo orientamento dei due nell’intendere il problema educativo, per gelosie e dissapori personali con il Cuoco, a detta del D’Ayala.
Conte si rammarica come studioso di queste “defezioni” le cui motivazioni sono, aggiungerei, più facili a intuirsi che a dirsi, se pure non sono esistite delle lettere a riguardo casualmente o incausalmente andate perse.
L’importante tema della situazione, cioè della sistemazione lavorativa, è un elemento costante dell’epistolario cuochiano e la ricerca puntuale che ne attua il Nostro va valutata diluita nel tempo e stemperata dai disagi per smorzarne la ripetitività. Il Cuoco si attiene fedelmente alla norma che è lecito perseguire il proprio particulare, senza però ledere gli altri: nei primi anni della sua permanenza a Napoli, aspirante paglietta, o quasi, si contenta delle briciole; nel periodo dell’esilio a Milano nell’immediato patisce miseria e fame e infine, apertosi uno spiraglio, viene a contatto con l’ambiente politico − culturale confacente ai suoi interessi e inizia una collaborazione lavorativa – studi statistici, redazione e direzione di importanti “fogli” governativi, e vi è anche l’offerta di trasferirsi nella Polonia russa presso l’università di Karkoff quale accademico – che se pur precaria lo risolleva dallo scoramento e gli offre un discreto corrispettivo economico; ritornato a Napoli assapora la gioia della riuscita delle sue più rosee aspettative divenendo un alto funzionario, stabile, in un settore cruciale della compagine statale. Comprensibile dunque risulta essere se il Cuoco, di brillante ingegno e stretto dal bisogno, abbia cercato con forza la “situazione” confacente ai “talenti suoi” − tanto più che non dimenticò neppure la “situazione” di altri − e magari perdonargli qualche insistenza di troppo.
Conte forse accentua troppo il tema della pervasività della “situazione” cuochiana nella ricerca del suo particulare anche se lo fa in tono bonario e adopera delle espressioni che alleggeriscono la lettura e suscitano simpatia, soprattutto a riguardo della “situazione” − impiego e moglie compresi − del fratello minore del Cuoco Michele Antonio. Largo nei consigli e nelle finanze soprattutto nei riguardi di Michele Antonio, assumendosi l’ingrato compito di “situarlo” nel lavoro, considerata la renitenza del situando, e adoperandosi con fortuna a individuargli una buona sistemazione matrimoniale e patrimoniale.
Addolorato e contrito per la scomparsa di entrambi i genitori − avvenuta quasi in concomitanza all’esilio per gli avvenimenti drammatici nei quali Egli era rimasto coinvolto e paventando per questo motivo di aver loro accorciata l’esistenza, non per sua colpa ma per sua causa − il Cuoco avrebbe assunto anche dall’esilio milanese un atteggiamento protettivo nei confronti dei suoi fratelli; ma un tal frangente non basta a dar ragione dei minuziosi rendiconti economici forniti dal Cuoco, esule, al fratello minore Michele Antonio, rimasto in patria, alle sue continue rassicurazioni in merito all’entrata di denaro concreta o possibile. Un simile atteggiamento è sicuramente indice, oltre che di generosità, di un qualche debito d’onore, contratto prima, e allora occorre tornare a un altro frangente, a quello drammatico della rivoluzione, a quando Vincenzo, coinvolto negli avvenimenti rivoluzionari e ristretto in carcere, era stato condannato a una pena relativamente lieve − 20 anni di esilio − a fronte di altri che, coinvolti a suo pari nei medesimi tragici eventi, salivano sul patibolo. Anche se nelle lettere questo “precedente” non è esplicitato, esso tuttavia si lascia chiaramente intendere; e la spiegazione del dissesto finanziario è duplice: la confisca dei beni della famiglia a causa delle evenienze rivoluzionarie − il padre del Cuoco Michelangelo si trovava ascritto nella «Pandetta dei sequestri e confische» e nella medesima lo stesso Vincenzo era iscritto tra i «sequestrati non possidenti»– e (a detta del Caprara, storico locale di Civitacamporano) l’adoperare largamente il «Munera che placa anche gli dei», cioè l’oro versato per attutire la condanna del reo, avevano dissanguato le finanze della famiglia. Ad ogni modo Cuoco si sente gravato da tutta la situazione e certamente per la sua generosità d’animo − oltre a ripagare a iosa il debito contratto – riversa particolare attenzione ai suoi e destina beni e denari alla famiglia.
Cuoco mantenne sempre vivi i rapporti con i familiari e i parenti più stretti; e se particolarmente densi sono quelli epistolari con il fratello Michele Antonio non mancano le lettere al padre, allo zio Giuseppe Cuoco − sacerdote a Civita e verso il quale ebbe sempre un atteggiamento di grande affetto misto a rispetto veramente degno di lode – al cugino e cognato perché marito della sorella Maria Giuseppa, Raffaele Pepe verso il quale nutre sentimenti di sincera stima e affetto. Stranamente, rilevo, che alle donne di casa, a Maria Giuseppa e alla madre in primis − pur se sempre menzionate nelle lettere e verso le quali si rileva un profondo sentimento di affetto e di stima – il Cuoco non indirizza loro mai una lettera; forse tali eventuali missive sono andate perdute nel tempo o forse all’epoca era invalso l’uso di tenere contatti per tramite di interposta persona per brevità o per modo di fare?
Dal “flusso” di lettere ai familiari si intravede anche una fitta trama di interessi e benevolenze che il Cuoco ebbe nei confronti di molti civitesi − e ne beneficò parecchi usando della sua fortuna in Napoli − anche se molto volentieri ne avrebbe bastonato uno, il Testo, per l’atteggiamento acrimonioso da questi assunto nei suoi riguardi perché esule e lontano, credendosi sicuro dell’impunità; l’immagine della sua generosità non resta scalfita, pur togliendosi qualche sassolino dalla scarpa, quando elargisce favori, a parenti resisi ingrati negli anni difficili dell’esilio, quando «noi eravamo al bosco», e che ora al bel tempo del Consigliere del Sacro Real Consiglio ipocritamente lo chiamano «nipote, fratello, amico carissimo» per ottenerne favori.
Con il tema della situazione si intersecano quelli legati alla schermatura in quanto il Cuoco adopera delle strategie nel perseguire i suoi fini, e quelli legati al controllo neppure questi esentati dall’uso di strategie stavolta dettate da motivi prudenziali.
Se la schermatura si configura in più aspetti e contempla l’uso di strategie ben precise, all’interno di queste ultime si verificano dei moduli, quali il nesso tra rivoluzione e divenire autore, lettere dedicatorie a più persone di una medesima opera in mente dei − lettere aperte dunque − nel loro uso finalizzate a veicolare presso il pubblico determinate situazioni ricorrendo a elementi chiaramente fittizi; e, contenuti nei moduli, si evidenziano degli stilemi come il non aver potuto correggere gli errori delle proprie opere perché lontano e malato. Il ricorso a questa tipologia di modulo narrativo, in voga al tempo, è contemplato dal Cuoco all’interno del Saggio storico nei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo nella finzione del triangolo letterario Pagano-Russo-Cuoco sorto per la discussione di una bozza di progetto costituzionale, di cui Antonino De Francesco ha rilevato «la tanto implausibile vicenda» o nella finzione del ritrovamento cuochiano di un antico manoscritto greco, retaggio di un antenato, da cui avrebbe preso l’avvio il Platone in Italia. D’altra parte, aggiungerei, neppure il Manzoni nello scrivere il suo capolavoro fu esente da questa moda, e infatti lo Stesso dichiara di aver ritrovato pure lui, rovistando in un vecchio baule in soffitta, il canovaccio del ’600 da cui sarebbe dipartita la stesura de “I Promessi Sposi”.
La strategia applicata dal Cuoco nei riguardi della rivoluzione napoletana si impernia sulla negazione del suo consapevole coinvolgimento nella stessa, raffigurata come vortice che lo ha risucchiato nel suo turbine quasi a sua insaputa; l’equivoco è nato dal ritenere suo dovere amare la patria sotto qualsiasi forma di governo si trovasse e dal non conoscere, o piuttosto di non aver “saputo” prevedere, gli eventi bellici che si sarebbero verificati di lì a poco e le relative conseguenze − è questo il contenuto della ben nota lettera dedicatoria al Quagliarielli posta all’inizio del Saggio storico e che ritorna con modalità analoghe nell’epistolario − e all’esilio, patito ingiustamente in quanto privo di colpa, Egli deve l’esser divenuto “autore”, impreparato a questo a causa dei suoi modesti mezzi, quasi a raddolcire la durezza della lontananza dalla patria e ad attutire il rimpianto per una vita che per l’ordinario sarebbe trascorsa nei binari della normalità, goduta in una terra che beneficia del clima più mite d’Europa. Che gli argomenti portati a giustifica dal Nostro per provare la sua estraneità al fenomeno rivoluzionario e a ridimensionare il suo ruolo di autore, soprattutto a riguardo del Saggio storico − divenuto talvolta ingombrante − siano surrettizi è lampante; il Conte giustamente ribadisce la non fondatezza di quanto affermato dal Cuoco, smentito dalle contingenze della sua vita che lo avevano visto corifeo del movimento rivoluzionario, figura non comprimaria nella Repubblica partenopea e autore impegnato in una militanza politica e culturale che nell’esilio milanese «andava ad inserirsi in uno specifico scenario politico ed in un ben determinato ambiente» e sottolinea come all’impegno culturale del Nostro fossero collegate anche delle motivazioni personali considerando l’impegno letterario come consentiente il potenziale accesso di promozione sociale.
Nella lettera, dianzi citata, del maggio 1805 indirizzata a un destinatario ignoto, il Cuoco ribadisce ancora la sua estraneità ai fatti rivoluzionari in cui suo malgrado si era trovato coinvolto e come dal disordine era nato «un ordine nuovo e migliore» − sostanzialmente l’ordine bonapartista − dichiara di esser divenuto autore per riempire il vuoto creato dall’esilio, esplicita quelli che sono i suoi rapporti con l’establishment milanese legati alla sua attività giornalistica e al lavoro statistico già meritoriamente compiuto e a quello in fieri, evidenzia la buona accoglienza riservata alla sua opera Platone in Italia; ma glissa sul Saggio storico, con ogni evidenza per sottolineare la sua non contiguità con qualsiasi elemento rivoluzionario non ben accetto dall’ordine bonapartista che oramai si andava saldamente insediando. In altri termini − osserva il Conte − nel curriculum presentato il Cuoco voleva specchiare un’immagine pubblica di sé attagliata ai tempi nuovi e alle nuove circostanze; e, aggiungerei, la scelta attuata non era dettata da ipocrisia o da opportunismo, ma da necessità.
Degno di rilievo è il fatto inconfutabile che la tipologia della schermatura – attuata per le motivazioni appena dette – si limita alle lettere “ufficiali” ed è completamente assente in quelle private dirette a familiari e ad amici stretti, esenti da impalcature e rigidità stilistiche; rappresentando icasticamente persone e fatti, esse risultano come configurate nella vivezza della vita e vivificate dal profondo sentire di chi le scrisse, adombrate lo stretto indispensabile da motivazioni prudenziali. Va inoltre rilevato che, trascorso il periodo dell’esilio milanese e rientrato a Napoli, la necessità delle schermature venne scemando e il Cuoco non ne fece più uso, non ravvisandone – per l’appunto − il bisogno.
Nella categoria delle sovrastrutture rientra a pieno titolo il controllo delle lettere − il Nostro si trovava a scrivere in un momento di forte censura, accentuata durante l’esilio milanese e non del tutto assente nel periodo napoletano, per lo meno nella fase iniziale − del quale il Cuoco si avvede in concreto: le lettere «o che vadano o che vengano si leggono» e molte volte «non capitano». Gli sconvolgimenti politici che fanno da sfondo alla sua vita e che fortemente lo condizionano, rendono ragione del suo esser guardingo nell’affidare alla carta i suoi pensieri divenendo «laconico nello scrivere», sicché in una sorta di autocensura preventiva, per motivi prudenziali Egli preferisce glissare o fornire una versione edulcorata su temi di particolare rilievo e per lui molto importanti − e che è facile cogliere molto bene in altri scritti, soprattutto nel Saggio storico − come il costituzionalismo o la rivoluzione partenopea, o dare notizie molto larghe sulla collaborazione prestata a Milano al «Redattore Cisalpino», divenuto nel febbraio del 1802 «Redattore Italiano», o al «Giornale Italiano» che dirige dalla sua uscita nel 1804 fino al suo rientro a Napoli nel 1806. Sempre per motivi prudenziali, può aver avuto luogo una forma di auto-censura successiva alla produzione con la distruzione consapevole di carte da parte dell’A. stesso, come è noto sia avvenuto in alcuni frangenti; oppure può esserci stata una distruzione di lettere dovuta ai più disparati motivi contingenti, dal non esser state “capitate” a tempo debito circa 200 anni addietro o, pur puntualmente recapitate, nel tempo dissoltesi nel nulla per l’incuria di chi avrebbe dovuto e potuto custodirle; oppure, aggiungerei, distrutte da chi le aveva scritte in uno dei non rari momenti di inconsapevole furore dell’“abisso della mente” nel quale era senza riparo precipitato l’Infelice.
Rientrano in questo contesto − in parte però, in quanto configurate per il rimanente a precise scelte formali ed espositive dell’A. − le schermature delle quali si è discusso dianzi.
In definitiva l’Epistolario per il Cuoco declina il tempo nel passato, nel presente e nel futuro intendendo con questo il saldo ancoraggio con il suo passato, trascorso ma non dimenticato, la vivezza del presente vissuto nella sua interezza, la progettualità che si staglia nettamente e fattivamente per il futuro.
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