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All’ombra della Guerra Fredda. Conflitti materiali e simbolici in Europa nel secondo dopoguerra
di
Federico Trocini
Il volume curato da Davide Artico, docente di Lingua e cultura italiane all’Università di Wrocław in Polonia, e da Brunello Mantelli, docente di Storia dell’Europa all’Università di Torino (Ideologia e geopolitica all’ombra della guerra fredda. Conflitti materiali e simbolici in Europa dal 1945 ai primi anni Cinquanta, Torino, Utet 2010), rientra all’interno di un più ampio progetto, teso a rileggere in chiave aggiornata una porzione decisiva della storia europea del Novecento, coincidente all’incirca con quel periodo compreso tra 1914 e 1945 in cui l’Europa fu lacerata da una serie pressoché ininterrotta di conflitti.
Potendo contare sull’attiva collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi stranieri perlopiù provenienti dall’Europa centro-orientale – tra cui Evgenij Jurevi Sergeev, Ceslovas Laurinavieius, Aleksandr Friedman, Vygantas Vareikis e Grzegorz Michalik – il progetto si segnala anzitutto per il suo respiro internazionale e poi per l’originalità dell’ipotesi di lavoro, ispirata a un’interessante riflessione di Leszek Kołakowski sulla filosofia della storia di Karl Jaspers. In particolare, secondo il filosofo polacco, ogni studio dei processi storici sembrerebbe essere inesorabilmente destinato ad andare incontro a un paradosso: da un lato, infatti, i processi storici non sono altro che movimento e pertanto la fine di tale movimento è inafferrabile; dall’altro, tuttavia, solo postulandone l’esistenza, diviene possibile concepire la storia come unità dotata di senso. Proprio a partire dalla consapevolezza dell’impossibilità di stabilire il punto finale dei processi storici trae origine l’interesse dei curatori verso quei conflitti geograficamente circoscritti – ma non meno sanguinosi e influenti sul piano delle conseguenze di lunga durata – che, nel quadro più generale della “Guerra dei Trent’Anni del XX secoloâ€, oltrepassarono la conclusione della Prima e della Seconda guerra mondiale.
Già in un precedente volume (Da Versailles a Monaco. Vent’anni di guerre dimenticate, Torino, Utet, 2010) Artico e Mantelli avevano ricostruito un quadro di massima delle “guerre dimenticate†del periodo interbellico, tra cui, solo per citarne alcune, la guerra polacco-lituana e quella polacco-ceca per il possesso rispettivamente di Vilna e della regione di T Å¡Ãn, la guerra polacco-sovietica, la contesa polacco-tedesca per la Slesia centro-orientale o, ancora, quella italo-slovena per Trieste. In quella precisa occasione, pur mettendo in risalto come l’ideologia nazionale e, dopo il 1917, quella antibolscevica avessero svolto un ruolo chiave nello scatenarsi e nel prolungarsi dei molteplici conflitti a “bassa intensità †che, in un fitto intreccio di guerra regolare, guerra civile e guerra sociale, avevano segnato a fondo il primo dopoguerra, i due curatori erano giunti alla conclusione che sia l’una sia l’altra avessero in realtà finito per ricoprire spesso la funzione di puri e semplici pretesti, al di sotto dei quali avevano continuato a svolgere una funzione cruciale tanto gli interessi di potenza quanto le ambizioni egemoniche delle classi dirigenti locali. Soprattutto al saggio di Evgenij Jurevi Sergeev, dedicato all’analisi della politica adottata da Londra verso gli Stati baltici tra 1918 e 1922, era spettato mettere in luce come la coltre weltanschaulich con cui erano state giustificate le strategie di volta in volta adottate dai vari soggetti nazionali si fosse perlopiù limitata a far da paravento a dinamiche di natura realpolitisch. La stessa politica perseguita da Downing Street all’indomani del 1918 era stata infatti condizionata non solo dall’orientamento politico dei gabinetti via via succedutisi, ma anche da molteplici necessità geopolitiche, tra cui contenere l’influenza francese, impedire un eccessivo indebolimento della Germania, frenare l’avanzata bolscevica da un lato e le mire espansionistiche polacche dall’altro, evitare l’emergere di spinte revansciste a Berlino e a Mosca e assicurarsi infine ampi spazi di penetrazione commerciale e finanziaria. Una seconda conclusione era poi coincisa con la denuncia del sostanziale fallimento del programma wilsoniano di riconfigurazione postbellica dell’Europa. Fallimento dovuto, da un lato, alla volontà di tracciare dei confini laddove questi, per via di una plurisecolare complessità etnica, culturale e linguistica, non erano di fatto tracciabili e, dall’altro, alla circostanza in base alla quale, sacrificando in più di una occasione il principio di autodeterminazione nazionale sull’altare degli interessi imperiali, tale riconfigurazione aveva paradossalmente finito per porre in essere quelle condizioni a partire dalle quali fascismo, nazismo e stalinismo avrebbero di li a poco impostato le proprie rispettive strategie revisionistiche.
In questo nuovo lavoro, sulla scorta delle riflessioni di Kołakowski e delle conclusioni del primo volume, i curatori si sono proposti di ripercorrere le diverse circostanze che, a loro avviso, testimonierebbero come, in Europa, la Seconda guerra mondiale non si sia definitivamente conclusa il 9 maggio 1945. E quindi di dimostrare come essa, dopo quella data, abbia contribuito a dare origine a due grandi categorie di processi derivati, ben lungi dal mostrare una soluzione di continuità rispetto al periodo dei combattimenti su larga scala.
La prima categoria comprende quella serie di “guerre nella guerra†combattute tra soggetti che solo incidentalmente, e talora opportunisticamente, si appoggiarono al blocco alleato o a quello nazifascista, avendo tuttavia scopi del tutto indipendenti da quelli delle due opposte coalizioni. I due esempi che meglio illustrano questa prima categoria sono rappresentati dai conflitti a sfondo nazionale fra polacchi e popolazioni di lingua ucraina e, rispettivamente, tra nazionalisti ed ebrei in Bielorussia e Lituania. Nel primo caso la lotta per l’autodeterminazione spinse le diverse organizzazioni nazionaliste ucraine a compiere, dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, scelte militari e strategiche fra loro opposte: mentre alcune si adoperarono in vista di una stretta collaborazione con i nazisti, altre concentrarono i loro sforzi in operazioni di pulizia etnica ai danni delle popolazioni polacche a est della linea Curzon, allo scopo di mettere i futuri vincitori – chiunque fossero – di fronte a un fatto compiuto che, nelle loro aspettative, avrebbe condotto all’indipendenza dell’Ucraina occidentale. Ciò provocò la reazione da parte polacca, che si espresse prima in un’alleanza con l’NKVD sovietico e poi in una serie di contro-pulizie etniche protrattesi fino al 1947. Nel secondo caso, invece, l’opposizione di alcune organizzazioni bielorusse al potere sovietico e la resistenza lituana al programma di russificazione intrapreso sin dal 1940 si tradussero, all’indomani del giugno 1941, in una collaborazione con gli invasori nazisti che comportò gravissime responsabilità , le quali, come messo in luce da Vygantas Vareikis, risultano tuttora, almeno in parte, contestate dalla retorica del cosiddetto “doppio genocidioâ€, secondo la quale il collaborazionismo filonazista dei lituani sarebbe stato semplicemente speculare a un presunto collaborazionismo filosovietico degli ebrei.
La seconda categoria di processi storici derivati comprende poi una molteplice serie di iniziative tese a consolidare, attraverso forme di costrizione più o meno intense, soluzioni istituzionali abbozzatesi nelle fasi finali della Seconda guerra mondiale, ma fondamentalmente aliene alle tradizioni e alle aspettative delle popolazioni cui furono imposte. Il primo esempio, illustrato tra le pagine del saggio di Juha Meriläinen, è quello della Finlandia, la quale, una volta evitata l’occupazione sovietica mutando improvvisamente alleanza nel 1944, si ritrovò dopo il 1945 a dover difendere la propria indipendenza, rinunciando almeno in parte a una propria politica estera autonoma. In questo processo giocò un ruolo determinante la chiesa nazionale evangelica, la quale, schieratasi nel 1918 in sostegno della destra nazionalista, adottò dopo il 1944 un atteggiamento di sostanziale neutralità nei confronti dell’Unione Sovietica, contribuendo a far accettare presso ampie porzioni di popolazione la nuova realtà politica di governi cautamente amichevoli nei confronti dello scomodo vicino. Il secondo e il terzo esempio, illustrati nei saggi di Grzegorz Michalik e Bogdan Popa, si soffermano infine sui casi della Polonia e della Romania, dove i rispettivi “regimi popolari†instaurati dopo la guerra si impegnarono nella trasformazione dello Stato fascisteggiante del periodo interbellico, cercando, da un lato, di assecondare l’alleato sovietico e, dall’altro, di attirare il consenso popolare. Mentre in Polonia furono avviate a tale scopo intense campagne civilizzatrici contro l’analfabetismo e le malattie epidemiche, in Romania la funzione di fattore di stabilizzazione del nuovo regime e di sublimazione dei conflitti a sfondo etnico fu assegnata allo sport.
Chiude questo secondo volume un’intensa riflessione di Brunello Mantelli che, assumendo un punto di vista globale, mette a confronto la realtà che scaturì in Europa nei due dopoguerra, apparentemente segnati il primo da un’ondata di sconvolgimenti rivoluzionari e il secondo dallo stabilirsi delle contrapposte sfere egemoniche delle superpotenze. Secondo l’autore del saggio, la vera differenza non starebbe in un vero o presunto protagonismo di massa prima, cui corrisponderebbe una minore effervescenza dopo, ma nel fatto che nel primo dopoguerra le potenze vincitrici non furono in grado di mettere in campo un progetto strategico di controllo territoriale che andasse aldilà di una ristrutturazione utopica dello spazio europeo o di una riproposizione di schemi tradizionali di alleanza interstatuale. Ben diversi gli scenari che si sarebbero invece delineati trent’anni dopo, quando i vincitori, una volta trasformatisi in superpotenze, imposero il proprio ordine politico all’interno delle rispettive sfere d’influenza. Ciò, sempre secondo Mantelli, non comportò affatto la scomparsa delle contraddizioni e dei conflitti preesistenti, ma fece tuttavia sì che essi potessero manifestarsi solo in forme oblique e trasversali, come nei casi paradigmatici della Finlandia, della Polonia e della Romania.
In conclusione, dall’esame dei diversi casi di “guerre nella guerra†così come dei diversi processi di consolidamento postbellico dei nuovi regimi svolto in questo volume sembra emergere una nuova prospettiva d’indagine, che consente di superare l’interpretazione tradizionale della primavera del 1945 come cesura e quindi di rileggere problematicamente il periodo postbellico in termini di continuità rispetto a quello precedente. E che, in più, consente di prendere atto del fatto che, anche nei primi anni del secondo dopoguerra, l’ideologia non svolse altra funzione che quella di paravento per un riassetto geopolitico dell’Europa guidato da interessi esclusivamente e drammaticamente realpolitisch.
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