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Vade retro mediana!
di
Eugenio Mazzarella
Sgombriamo il campo da un equivoco. Essere critici, anzi criticissimi, con i criteri stilati dall’Anvur per l’accesso alle valutazioni di merito delle abilitazioni scientifiche nazionali a professore universitario, non è “opporsi alla cultura della valutazioneâ€, come pure si è sentito dire dai difensori d’ufficio delle soluzioni proposte dall’Anvur, con un po’ di cattivo gusto invero, quando a parlare erano i diretti destinatari delle critiche. Anzi nel merito delle critiche, che sono state avanzate, molte di esse avevano di mira piuttosto il rischio elevatissimo di delegittimazione di tutto il tentativo, fatto con l’Anvur, dell’implementazione di una cultura della valutazione nel sistema universitario italiano; certo bisognoso di manutenzione, ma non peggiorativa degli standard fin qui seguiti, dovendosi anche ricordare che bene o male questo sistema ha valutato a iosa sempre. E ciò di cui si trattava era semplicemente di introdurre criteri semplici ed efficaci di valutazione ed autovalutazione del sistema, gestiti in modo terzo da un’agenzia indipendente, l’Anvur appunto, che non doveva essere un giocatore diretto in campo nei processi della valutazione, la cui regolamentazione resta costituzionalmente in capo al Miur e la cui attuazione all’autonomia universitaria; dovendo per altro l’Anvur fondamentalmente fornire criteri per giudicare le “strutture†e non le “personeâ€, la cui valutazione, al netto di parametri e indicatori di supporto al giudizio di cui nessuno disconosce l’opportunità , e dell’ovvia sensatezza della loro scelta, spetta al “giudizio tra pari†delle comunità scientifiche (e si noti il plurale, che già sta a dire che è un errore di merito e di metodo immaginare macrouniformità di giudizio per una presunta “comunità scientifica†in generale; magari bipartita, di qui gli “scienziatiâ€, di là gli “umanistiâ€). Giudichi fin d’ora il lettore non prevenuto, se l’azione dell’Anvur abbia dato elementi di semplicità ed efficienza al sistema, e si sia mossa in una temperie di “terzietà â€. Non pare proprio che sia andata così.
Il ricorso dei costituzionalisti italiani avverso il decreto che regolamenta le abilitazioni non è stato un fulmine a ciel sereno, di una corporazione leguleia, quella dei giuristi, refrattaria per oscuri interessi alla valutazione, ma il fondato rilievo di un errore in diritto – la lesione dell’eguale diritto dei soggetti cui si rivolge la norma introducendo criteri discriminatori ora per allora che penalizzano alcuni e privilegiano altri –, la cui debolezza legislativa era stata segnalata anche in ambito di dibattito parlamentare; e questo al di là del merito tecnico delle soluzioni, pure come si vedrà piene di contraddizioni, ai limiti dell’impraticabilità . Tanto che alla fine, il presidente dell’Anvur, in un documento interpretativo del regolamento, ha dovuto di fatto derubricare le mediane, almeno per gli aspiranti abilitati, a criteri, aggiuntivi all’ampia lista di criteri già prevista, di ausilio alla valutazione (di cui “tener contoâ€) delle commissioni, e non impedienti un giudizio positivo, se debitamente motivato, anche per i candidati che non realizzassero la performance delle mediane.
Nel merito delle questioni emerse, se le mediane per i settori non umanistici (bibliometrici) già evidenziavano l’irragionevolezza del criterio delle mediane per “accedere†all’abilitazione (sia per entrare nelle liste degli aspiranti commissari che per presentarsi come candidato), quando sono state pubblicate (e più volte per altro “ritoccateâ€) le mediane per i settori umanistici, si è giunti al paradosso. I valori mediani di produttività negli ultimi dieci anni risultavano del tutto disparati tra settori concorsuali: per le monografie da 0 a 4, per articoli su riviste e capitoli di libri da 9 a 28, per i famigerati articoli su riviste di fascia A, di eccellenza per così dire (eccellenza la cui determinazione è del tutto opinabile e in alcuni casi veramente incomprensibile) la mediana generalmente è risultata 1, in pochi casi 2, spesso 0.
Già la disparatezza delle mediane, una disparatezza di produttività quantitativa, fa capire che le produttività medie, al di là di quello che c’è scritto nei prodotti, non misurano niente di rilevante da un punto di vista statistico, se per essere valutato come professore di X ho bisogno di superare 4 monografie, cioè averne 5, e come professore di Y di superare il valore zero, cioè averne una. Almeno per il settore a zero vorrebbe dire o che la mediana è incongrua o che bisogna ‘chiudere’ la disciplina. Probabilmente è semplicemente ‘misurata’ male.
Gli effetti sono abnormi. Prendo ad esempio il settore di filosofia teoretica, 11/c1. Sono richieste in alternativa (ne basta una di mediana, per candidarsi a commissario o a abilitando) nei dieci anni o 5 monografie, o 22 articoli su rivista e capitoli di libro, o 2 articoli in rivista di fascia A. Mi limito ad un’osservazione banale. Se la terza mediana è 1, vuol dire cheè del tutto insignificante: sulle riviste di fascia A riferibili al settore scrivono solo i gruppi che vi partecipano per affiliazione accademica. La mediana non dice nulla di significativo sulla comunità scientifica dei filosofi teoretici, ma consente solo ad un pupillo della scuola che fa una rivista di fascia A di potersi presentare, mentre magari un non pupillo con dieci articoli e due monografie guarda con il naso all’insù il giovane dottorato con estratto di tesi su fascia A già valutabile. O un valente studioso cinquantenne con quattro monografie e 21 tra articoli di riviste standard e capitoli di libri non può presentarsi. Così come potrà fare il commissario un ordinario che abbia scritto un paio di articoli in rivista di fascia A e null’altro, e non un collega che abbia quattro monografie e 21 tra articoli e capitoli di libri. Se si voleva evitare che potessero essere commissari o candidati studiosi considerati “inattiviâ€, il dispositivo delle mediane legittima precisamente il contrario: se appartieni a un buon sistema di relazioni accademiche ti basta pochissimo per essere in commissione o per presentarti all’abilitazione. Un caso di studio per una rivista di fascia A sulla valutazione!
E un risultato che dà un colpo fortissimo alla reputazione pubblica, nazionale e internazionale, dell’università italiana. E per un motivo piuttosto semplice. Come si fa a non rendersi conto che con questo sistema di sbarramento all’accesso all’abilitazione per commissari e candidati – e con l’enfasi che è stata posta sulla pertinenza di questi indicatori a descrivere “qualitativamente†tramite indici quantitativi la legittimità scientifica a sedere in una commissione, o a potervisi presentare – ne vien fuori un paradosso generale: i candidati all’abilitazione che hanno superato le mediane sono per definizione, dal punto di vista assunto dall’Anvur, già migliori, quanto meno perché più produttivi delle migliaia di ordinari di ruolo (in definitiva una buona metà di essi) che non potranno candidarsi a commissario, non avendo raggiunto le soglie delle mediane. Perché dovrebbero anche essere giudicati in un concorso per diventare di fatto semplici abilitati a un ruolo che altri da decenni coprono con titoli inferiori ai loro? Andrebbero promossi nel ruolo per il quale superano la mediana ipso facto, a rigor di logica e di giustizia, fatto salvo il dottorando di buona e potente scuola accademica con uno o due articoletti in rivista di fascia A. Ma ovviamente l’università italiana non è, pure con i suoi difetti, quella che emerge da queste mediane: un covo di inattivi, che in percentuali significative ma non alte certo ci sono, ma che non si scovano con questi mezzi, ma magari con una più incisiva normativa sul tempo pieno e sul tempo definito.
Il fatto è che non esistono criteri universali di valutazione che si possono applicare alla ricerca senza le opportune calibrature disciplinari. Questo è vulnus di fondo, l’inconsapevolezza culturale di tutta la criteriologia adottata dall’Anvur. Mi spiego con un esempio. Può anche darsi che nella ricerca della fisica di base – anzi è probabile – sia possibile individuare dei luoghi di confronto scientifico, riviste, che avallino di per sé la bontà di un articolo che vi è pubblicato; fermo restando che in ultima istanza anche lì il “prodotto†scientifico va letto da “pariâ€. È ben possibile che tremila ricercatori che lavorino sul bosone di Higgs abbiano spazi di eccellenza del loro dibattito interno per così dire pre-codificati, riconosciuti da tutti. La ricerca su un settore del genere è fondamentalmente cooperativa, ha basi concettuali comuni e condivise. In ambito umanistico non è così, la ricerca ha basi concettuali spesso in dialogo fortemente dialettico, e talora antitetiche. Esemplifico rozzamente: i platonici ritengono di aver ragione sugli aristotelici, e viceversa; litigando, controargomentando a vicenda, magari migliorano le loro argomentazioni, e la “scienza†avanza… E va bene così. Ma se i platonici collocano le loro riviste in fascia A perché il sistema di relazioni accademiche in quel momento li premia, ciò vuol dire che per un aristotelico raggiungere una cattedra sarà un po’ più difficile nel mondo dell’Anvur … Dio mi perdoni per aver trattato così Platone e Aristotele, ma ridotta in pillole questa è la questione.
Da dati quantitativi non possono mai derivare indicazioni di tipo qualitativo “in automatico†su un curriculum scientifico, e tanto meno da un assurdo criterio quali-quantitativo quale è quello delle riviste di fascia A, dove – per “deduzione†dal contenitore – un articolo, per il solo fatto di esser lì, è assunto come “eccellente†a prescindere da una valutazione di merito, e fa aggio su un prodotto simile pubblicato su qualsiasi altra rivista; generando nell’applicazione concreta paradossi ai limiti del ridicolo questo trasferimento di “qualità †in automatico dal contenitore al contenuto. Mi spiego con un esempio pratico: un caso che potrà accadere nel “mondo†logico-fattuale immaginato dai criteri dell’Anvur. Vorrei candidarmi all’abilitazione. Ho 5 articoli negli ultimi 10 anni in una buona rivista non di fascia A, ma non raggiungo nessuno degli altri indicatori richiesti. Mi manca un libro, un paio di articoli, non sono presente in fascia A delle riviste. Ad una prossima tornata dell’abilitazione, è del tutto possibile che la rivista su cui ho pubblicato i 5 articoli suddetti “salga†in fascia A: magari vi avranno nel frattempo scritto dei premi Nobel o il direttore avrà spiegato meglio le sue ragioni all’Anvur… Anche se nel frattempo non avessi scritto per depressione indotta da questi criteri nulla, potrei presentarmi all’abilitazione, perché il “contenitore†su cui ho lavorato nei dieci anni sale in classifica, e quello della mia produzione che era di serie b nel 2012 diventa ipso facto di serie a nel 2016. A meno che all’Anvur non pensino di aver definito per sempre l’eccellenza delle riviste, e fermato così la sgradita evoluzione delle scienze; e del “mercato†accademico-editoriale, alle cui distorsioni indotte da questo criterio andrebbe dedicata una riflessione a parte, che pure si è svolta nel dibattito pubblico (richiamo qui solo alcune pertinenti notazioni di Giuseppe Galasso nelle polemiche che sono seguite alla pubblicazione delle mediane per i settori umanistici).
È del tutto poi assente nei criteri di valutazione per l’abilitazione alla docenza universitaria (che in effetti è un aggiornamento di ciò che è stato nel nostro ordinamento la libera docenza ai fini sia dell’affidamento di un incarico di insegnamento universitario che dei concorsi di ingresso nei ruoli) il profilo didattico dei candidati. Il che è la conseguenza dell’aver concentrato i criteri di valutazione per l’abilitazione, e persino di ammissione alla valutazione, solo sui “prodotti†della ricerca, sganciati da una valutazione del profilo “professionale†didattico (e anche clinico nel caso dei medici) degli aspiranti all’abilitazione. Per aver un buon professore universitario c’è bisogno di valutarne non solo i prodotti scientifici, ma anche le capacità didattiche (e cliniche nel caso dei medici), questo va da sé. Ma lo schema di accesso all’abilitazione proposta dall’Anvur non ne tiene alcun conto. Non solo non è richiesta, per essere ammessi alla valutazione, a chi è già nei ruoli una qualche certificazione della qualità dell’impegno didattico (e clinico) svolto; ma a chi non ha mai svolto alcuna attività didattica strutturata negli atenei, non è richiesta neppure una lezione “provaâ€, una volta ammesso alla valutazione, come una volta avveniva per la libera docenza e per i concorsi a idoneità per le chiamate nei ruoli ante legge Gelmini, quando non si era già professori almeno in un ruolo inferiore. Questo è un altro vulnus dell’abilitazione scientifica nazionale così come è stata pensata: qui ci si avvia alla carriera di professore universitario, non – bene che vada – a una carriera di ricerca in un laboratorio Cnr o in un archivio o sala di ricerca in biblioteca.
Tutto il lavoro dell’Anvur si è concentrato sulla produzione di criteri e regolamenti, che offrissero misure statistiche dell’attività di ricerca, come se un’anagrafe ci dicesse quanti Beethoven e Einstein sono nati in un decennio di produzione scientifica e più modestamente quale qualità hanno le “quantità †di prodotti esaminati, dando alla fine un colpo non di poco conto alla “cultura†della peer review, fondamentalmente tacciata di possibilità di arbitrî soggettivistici; laddove, con tutti i limiti che le possono essere propri una seria valutazione della ricerca è sempre valutazione tra pari, che si leggono a vicenda e a vicenda si giudicano. Al di là della mancanza di consapevolezza che in tutta la vicenda è emersa che ogni quale che sia cultura della valutazione non può prescindere dal fatto che la ricerca scientifica ha diversissimi profili di “produttività †sociale, che vanno dall’avanzamento morale e spirituale, dal conseguimento di un canone di bellezza all’efficienza di una soluzione giuridica o di un’equazione matematica, al conseguimento di un brevetto per una nuova tecnologia. Ritenere di poter misurare con gli stessi criteri cose così diverse è un errore culturale che si paga.
E se questo tipo di valutazione dovesse affermarsi e prevalere, divenisse senza correzioni sostanziali che tengano conto delle osservazioni su esposte il modello standard per gli anni a venire, le conseguenze a prevedersi per l’università italiana non saranno di poco conto, e in peggio; del tutto antitetiche a ciò che con queste nuove procedure si voleva sollecitare: un progresso del sistema nel suo complesso, migliorando gli standard e facilitando le performance d’eccellenza.
Questo perché nel vizio di costituzionalità , per altro eccepito formalmente dal prof. Onida, dei criteri per l’accesso all’abilitazione, fondamentalmente l’aver previsto ora per allora criteri privilegiati per l’accesso alla carriera universitaria (in sostanza so solo ora come avrei dovuto costruire il mio percorso scientifico nei passati dieci anni, e quali sono le riviste di eccellenza che in questo mi avvantaggiano, stabilite per decreto), ci sono i presupposti dei binari sbagliati su cui verrà posto il futuro della ricerca italiana. I criteri che oggi avvantaggiano alcuni e penalizzano altri, se recepiti in modo stabile, determineranno un potente effetto di conformismo della ricerca scientifica: ci si costruirà la carriera sui parametri e gli indicatori di “merito†più o meno presunto indicati ex ante: tutti avranno interesse a pubblicare nelle stesse riviste e collane, e ad adeguarsi agli indirizzi culturali e di ricerca che tramite questo meccanismo diventeranno dominanti; e più che concentrarsi sull’innovazione della ricerca, fondamentalmente legata alla sua libertà , ci si concentrerà sul sistema di relazioni che serve a costruire un curriculum tipo Anvur. L’effetto depressivo per tutto il sistema è del tutto prevedibile, e per altro ben noto con la retromarcia a livello internazionale che si sta facendo sulla valutazione bibliometrica, o a essa assimilabile, lì dove è stata applicata. Con criteri di carriera premiali ex ante si applica alla ricerca scientifica l’indirizzo di governo politico della ricerca applicata o industriale: finanzio questo o quello perché lo ritengo strategico. Ma questo è in stridente contraddizione con la ricerca fondamentale e di base, istituzionalizzata nell’idea stessa di universitas, di apertura e dialogo universale, rivolto insieme verso ogni direzione e unificato nel reciproco confronto, degli studi.
Quando si recepiscono criteri altrove già sperimentati, per non peccare di un’esterofilia ai limite del provincialismo, per quei criteri la prima cosa è certo imparare dalle buone pratiche degli altri, ma anche dai loro errori e dai limiti emersi nella “praticaâ€. Sugli effetti distorsivi della bibliometria ormai c’è una letteratura, porre attenzione alla quale avrebbe evitato più di un inconveniente, pur non rinunciando ad uno strumento che ha sue sperimentate utilità , ma certo non “in automaticoâ€. In generale, nella valutazione della ricerca non è che ci sia molto da inventare: il criterio della peer review, della valutazione tra pari, resta l’asse portante di ogni valutazione credibile; a cui può aggiungersi un’efficace sistema premiale ex post sui risultati raggiunti dalla ricerca. Questo criterio può essere sussidiato certo da indicatori “oggettiviâ€, ma non sostituito. E in questo senso non è un buon segnale che le commissioni per le abilitazioni, chiuse le domande, avranno per la valutazione di merito peer review dei candidati, che in molte commissioni saranno centinaia, trenta/quaranta giorni a disposizione per chiudere i lavori, e licenziare gli abilitati; un tempo appena sufficiente forse a valutare “di quanto†e non “come†siano stati superati, performati, dai candidati mediane e indicatori.
Qualche ultima considerazione. Una motivazione a sostegno delle procedure di valutazione messe in piedi dall’Anvur, su sollecitazione del Miur, è la necessità di adeguare la “misurazione†della ricerca in Italia a standard europei; adeguamento che la renda più facilmente valutabile, riconoscibile cioè nella sua qualità , per l’accesso ai fondi europei (dove oggi siamo penalizzati: finanziamo le politiche di ricerca europee più di quanto riusciamo poi a riprenderci in termini di accesso ai finanziamenti). L’esigenza è fondata, ed è in linea con la riforma del 3+2 attuata per le lauree. Ma come abbiamo già sperimentato con il 3+2 un’esigenza è una cosa, la sua soddisfazione un’altra: formalmente è aumentato il numero dei laureati in Italia, ma sostanzialmente non c’è in circolo una maggiore formazione superiore di qualità nel Paese, perché il 3+2 è stato applicato male, in modo incongruo e generalista. Un filosofo triennale non ha senso, una laurea infermieristica sì, per fare un esempio. Ma per tornare ai criteri di accesso ai finanziamenti europei della ricerca, questa è materia fondamentalmente che attiene alla ricerca scientifica non umanistica, per la quale c’è da sempre scarsissima attenzione nei fondi europei. Non c’è quindi neanche una motivazione prammatica a stressare i criteri per la valutazione della ricerca umanistica sugli standard europei utili per le scienze dure e applicate. Sarebbe più saggio finanziare la ricerca umanistica, che per altro ha anche pronunciati caratteri culturali “localiâ€, di identità culturale nazionale, su fondi nazionali più cospicui, anziché orientare tutto un sistema su criteri impropri per attingere, in teoria, a scampoli di fondi europei; oltre ovviamente che “spingere†in direzione umanistica non surrettizia (la solita “formazioneâ€, l’incremento di “capitale socialeâ€, qualche “complemento†alle ricerche socio-economiche, etc....) i bandi europei a livello politico.
In questo sconfortante quadro di approssimazione, dove si è visto l’Anvur, sommerso dalle critiche, invocare sia oggettive difficoltà tecniche e di tempo, ma anche l’adagio che errare è umano (richiesta di comprensione umanamente comprensibile, legislativamente molto meno), e persino “accusare†il Miur di non averlo messo in condizione di assolvere il mandato ricevuto in modo congruo alla bisogna, e pubblicare un elenco di note di interpretative, aggiornanti, e persino correttive ai limiti della ritrattazione della specificità del proprio operato (sostanzialmente l’interpretazione “autorizzata†dall’Anvur delle mediane come criteri aggiuntivi per la concessione o meno dell’abilitazione in rapporto agli altri indicatori previsti, e non più come criteri che se non performati impedivano l’accesso alla valutazione), l’unica cosa auspicabile sarebbe stata trasformare con un decreto del Miur erga omnes i criteri di accesso all’abilitazione in criteri d’indirizzo per l’autonoma valutazione delle commissioni, salvaguardando insieme le procedure di abilitazioni dal vulnus della ricorribilità amministrativa e guadagnando tempo per una riflessione di merito su criteri più adeguati e condivisi per la valutazione della ricerca scientifica. In questo senso ci sono state, oltre alle sollecitazioni molteplici del dibattito pubblico e degli stessi organi di rappresentanza e associativi del sistema universitario (Cun, Crui, società scientifiche) iniziative di partiti politici in parlamento che il governo, in sostanza il Miur, non ha inteso dar corso. Al momento in cui chiudiamo questa nota, siamo ancora a sperare che il buon senso alla fine prevalga, prima dei tribunali.
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