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Pannunzio e Valiani
di Adolfo Battaglia
Mario Pannunzio e Leo Valiani hanno senza dubbio rappresentato figure rilevanti nel grande filone italiano della democrazia laica e riformatrice, complessivamente così poco valutata dalla storiografia contemporanea. La pubblicazione della loro corrispondenza equivale in questo senso alla scoperta di un minerale raro, ricco di sali pressoché scomparsi. Massimo Teodori lo ha tratto dagli archivi della Camera della Fondazione Feltrinelli, l’ha dotato di un apparato critico e lo ha pubblicato, insieme ad altri testi, in due volumi di Aragno, editorialmente assai degni. Si tratta di cento lettere degli anni ’50-’60, che per una parte investono il lavoro di fattura del giornale, e per un’altra parte sono di carattere personale: scambi di idee, di valutazioni, opinioni e giudizi non destinati alla pubblicazione, come si può fare tra amici cari che si stimano e si vogliono bene.
L’amicizia tra Valiani e Pannunzio si annodò negli anni cinquanta, quando si incontrano sulla stessa posizione, politica e culturale, pur venendo da esperienze di vita del tutto differenti. La differenza di età tra loro non era grande ma incideva la condizione delle famiglie di provenienza. Valiani nacque nel 1909 a Fiume, da una famiglia ebraica di origine ungherese nella quale la madre era imparentata con il rivoluzionario comunista ungherese Bela Kuhn. Pannunzio nacque nel 1910 in Toscana da un’aristocratica lucchese e da un ricco avvocato divenuto poi comunista, col quale il figlio presto romperà. Negli anni Trenta sarà a Roma nel circolo letterario giornalistico e cinematografico romano e i tre giornali in cui lavorò con Longanesi e Benedetti esprimevano una critica insidiosa che portò il fascismo, com’è noto, a chiuderli tutti. Valiani al contrario, già nella seconda metà degli anni Venti, partecipa nel movimento socialista e poi comunista, farà la prigione, l’esilio e la guerra di Spagna; stringerà amicizia con Koestler e i grandi intellettuali europei ex-comunisti; e infine, riflettendo sulla concezione di libertà espressa negli scritti di Croce, uscirà dal Partito comunista, aderirà a Giustizia e Libertà e poi al Partito d’Azione, di cui nel 1943-’45, su indicazione di La Malfa, sarà il segretario per l’Italia occupata.
Uno dei punti più alti dell’epistolario tra questi uomini così diversi è il serrato scambio di lettere intervenuto nel ’56 a proposito del rapporto Kruscev sui crimini di Stalin. Si apre a «il Mondo» un dibattito ed Ernesto Rossi manda il primo articolo a Pannunzio e Valiani. Valiani scrive subito a Pannunzio: «Mi duole dirlo ma l’articolo di Ernesto è totalmente privo di buon senso. Invece di prendersela con i comunisti e i loro fiancheggiatori se la piglia con tutti i suoi compagni del partito radicale […] Spero non avrai pubblicato l’articolo».
Dietro questo secco giudizio c’era il senso della lotta politica condotta da Valiani. Dice infatti dolentemente, in una lettera personale all’amico: che la lotta a Stalin «per un ventennio l’abbiamo condotta noi, io e i miei compagni di allora, non Rossi». E rivendica il valore degli scritti crociani criticati da Rossi nel suo articolo, scrivendo che ha intravisto la falsità dello stalinismo proprio attraverso essi. Suggerisce quindi a Pannunzio di rispondere duramente agli intellettuali comunisti de «Il Contemporaneo»:
Accade che entro il movimento delle sinistre nessuno dei collaboratori de «Il Contemporaneo» ha osato, prima del rapporto Kruscev, correre i sacrifici che implicava la ribellione a Stalin. Tutti hanno sempre ignorato e respinto quella larghissima e ben documentata parte delle rivelazioni sui delitti di Stalin che era già contenuta nei libri di Trotsky, Souvarine, Victor Serge… e perfino Deutscher. Nessuno di loro ha fiatato prima di Kruscev […] S’intende che la lotta contro lo stalinismo non è stata una discussione filosofica o estetica e neppure di ideologia politica. È stato un aspro e penoso cammino ventennale, che abbiamo percorso nella solitudine, nel buio, nella disperazione, nel martirio dei migliori, freddamente uccisi lungo la strada dopo essere stati barbaramente calunniati. Non si avevano di fronte principalmente gli intellettuali comunisti di cui si preoccupa Rossi, ma l’atroce spaventosa Ghepu di Jerzhov e di Beria. Perché ora non dovremo rallegrarci?

L’incontro tra Valiani e Pannunzio si avverte, così, fondato su un preciso fondamento intellettuale ed etico. Entrambi sono espressione, ha notato Teodori, della categoria degli spiriti antitotalitari (gli “erasmiani”, dice Dahrendorf) ostinati nemici tanto dell’autoritarismo fascista quanto della dittatura comunista. Per alcuni decenni nel secondo dopoguerra essi hanno avuto difficoltà ad essere riconosciuti nel mondo della democrazia europea, percorso in Francia, in Italia e altrove dall’opposta tesi antifascismo eguale filocomunismo. E certo non casualmente la posizione degli “antitotalitari” è, sotto l’aspetto più propriamente politico, quella del riformismo democratico occidentale: ovunque avversato dal movimento comunista come un vero e temibile avversario. Nell’epistolario, d’altra parte, alle lettere di Valiani si giustappone la lettera con cui Pannunzio spiega all’amico il suo itinerario politico-culturale. Il liberalismo crociano rimaneva il punto cruciale della sua formazione. Il contatto con Croce nella politica del dopoguerra lo aveva però convinto della sua posizione conservatrice e della necessità di una posizione non liberale pura ma liberaldemocratica, più ricca di temi ed interessi a carattere sociale ed economico. È appunto la posizione su cui Pannunzio erige per diciassette anni questo piccolo monumento rappresentato dalla collezione de «il Mondo».
Un altro punto sul quale occorre soffermarsi partendo dall’epistolario è quello già rilevato da alcuni quotidiani. Queste forze di democrazia laica così vive contarono veramente nella concretezza della nostra vita politica?
Forse è un errore dare una risposta generalizzante, di per sé storicamente poco precisa, come per esempio ha fatto Ernesto Galli della Loggia in un ampio articolo del «Corriere della Sera». Forse bisogna anzitutto distinguere due fasi. E distinguere anche tra i contenuti della battaglia radical-liberale e il loro metodo di azione politica.
In effetti le forze di democrazia laica non contarono molto nella fase finale della prima Repubblica, dopo il Governo di Giovanni Spadolini, ma contarono moltissimo nella prima fase, che è poi quella cruciale, in cui si definiva il carattere stesso del regime democratico-repubblicano.
Il fatto è che a fronte dell’espansione dei regimi staliniani dell’est europeo, il “caso Italia” rappresentò uno dei momenti salienti dei processi di assestamento dell’ordine internazionale post-bellico. Si trattava di confermare stabilmente la collocazione della penisola nel quadro della civiltà dell’Occidente. Ma delle concezioni della civiltà occidentale risultavano ben poco impregnate ambedue le grandi forze maggioritarie dell’epoca: sia quelle cattoliche sia quelle marxiste. Ne conseguì – diciamo così per sottrazione un’imprescindibile funzione delle forze che quella civiltà politica rappresentavano e rivendicavano: e che erano tanto più importanti in quanto i loro programmi di modernizzazione si ispiravano alle esperienze economiche e sociali sviluppatesi in Europa e in America, e neglette quando non spregiate dalle ideologie vincenti.
Naturalmente, è De Gasperi, per primo, che intese la necessità di una strategia di collaborazione tra forze laiche e cattoliche. E però la vera base della loro intesa non erano tanto i problemi peculiari della storia italiana (il rapporto laicicattolici, la condizione confusa del mondo cattolico post-bellico, gli orientamenti di Pio XII) quanto piuttosto i grandi problemi internazionali dell’epoca: la questione cioè se l’Italia potesse progredire nella democrazia fuori del quadro occidentale. E proprio su questo punto, i democratici laici e cattolici si scontravano con i fascinosi miti dell’Urss, del grande Stalin, del paese del socialismo, ecc.
In quel decisivo frangente, l’accordo fra la Democrazia cristiana e i tre partiti laici (il Pli, il Pri, e il Psdi) risultò decisivo. E la loro rottura con le potenti armate propagandistiche del mondo comunista poteva esser operata soltanto da leader che avessero fermezza politica ed etica. I capi della democrazia laica non erano in effetti personaggi di second’ordine: Croce e Salvemini, Einaudi e Sforza, Parri e La Malfa, Saragat e Silone, Pacciardi e Reale, Carandini e Pannunzio, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.
L’importante ruolo che finirono col detenere non derivava dunque soltanto dalle loro forti personalità, e neppure derivava dal fatto che al Senato senza le forze laiche non ci sarebbe stata maggioranza. Dipendeva essenzialmente da quella posizione a guardia del valico di frontiera tra Occidente e mondo comunista che essi presidiavano non solo con autorità morale ma soprattutto con autenticità culturale. Si trattava di un valico che non era storicamente superabile se non a prezzo dello sfascio generale del paese e che infatti è sempre rimasto tale a tutela della sua unità. Nel difenderlo, i laici ebbero un ruolo inconfondibile con quello delle forze cattoliche, perché differenti erano le rispettive ragioni e culture. Ed è stato questo ruolo sottile ma fondamentale, assieme all’idea di modernizzazione “occidentale” che vi era connesso, ad assegnare loro una funzione storico-politica non comprimibile e non correlata al dato dei consensi elettorali.
La carenza di metodo politico che si può addebitare a molte forze laiche e in particolare a quelle liberal-radicali raccoltesi a «il Mondo» di Pannunzio, è probabilmente la ragione prima del limitato peso che esse ebbero dopo gli anni Sessanta (e sempre con l’eccezione della forza repubblicano-azionista di Ugo La Malfa e dell’esperienza di Governo di Giovanni Spadolini). I laici in quegli anni si divisero, si scissero, non riuscirono a stare insieme. E non vi riuscirono, in fondo, per la stessa ragione per cui non erano riusciti ad unirsi negli anni Quaranta-Cinquanta. C’erano problemi che pesarono al di là del giusto, di carattere personale, di bottega partitica e perfino di ordine ideologico. E c’era anche una larga inconsapevolezza dei cicli della politica e delle opportunità che aprono e delle necessità che tatticamente comportano. Potrebbe dirsi che i radicali de «il Mondo» non lessero mai la nota poesia di Antonio Machado intitolata Consigli:
Sappi attendere, aspetta che la marea risalga // Come una barca in secco sulla costa, né ti inquieti il partire. // Solo chi attende sa che la vittoria è sua. // Perché lunga è la vita, ed è l’arte un trastullo. // E se la vita è corta // E non lambisce il mare la tua barca // Senza partire aspetta e ancora aspetta, // perché l’arte è lunga e per di più non conta.

La democrazia laica, invece, riteneva di poter contare molto sulla sua arte ed era inquieta. Partiva per una battaglia e voleva arrivare. Voleva arrivare subito. Non la interessava il dipanarsi degli eventi e il risultato dello scontro delle forze in campo. Il concetto di “durata” dell’azione politica, concetto invero fondamentale, sfuggiva alla sua cultura. Non si trattava di massimalismo perché la cultura storicistica permeava quelle forze. Ma insomma, le battaglie si davano, si vincevano o si perdevano, e basta. Mancava una visione organica di come le battaglie si leghino l’una all’altra e vinte o perse formino un cuneo più forte per penetrare nella cittadella lontana della società. Questa fu la debolezza degli uomini de «il Mondo» e della loro azione radicale.
Vale forse la pena di leggere, per concludere, passi delle due lettere che chiudono il primo volume dell’epistolario. È il 2 marzo 1966, è uscito dopo diciassette anni l’ultimo numero de «il Mondo», porta l’addio del direttore ai suoi lettori. Da Milano Valiani gli scrive: «Carissimo Mario, come collaboratore e assiduo lettore de «il Mondo» non mi rimane che ringraziarti per aver fatto un giornale così bello, libero, intelligente e – direi – dotato di spina dorsale, un giornale di cui sinceramente non conosco l’eguale nella storia italiana […] Così vivace, di orizzonti così ampi, così scevro di provincialismo e spirito di bottega.[…] Da studioso di storia ho la certezza che gli storici futuri si chineranno sulle collezioni de «il Mondo» per documentarsi dell’esistenza di un autentico sforzo di libertà nell’Italia repubblicana: che deve tutto alla Liberazione ma preferisce ignorare quel che ne ha costituito l’essenza. Ti abbraccio con viva amicizia.

Un mese dopo, da Roma risponde Pannunzio:
Carissimo Leo, grazie. Tu sei un caro e vecchio amico, una delle poche persone che io ammiro e rispetto. E che tu sia stato vicino a me in questi anni in mezzo a tanti guai, inimicizie, speranze deluse, è qualcosa che non dimenticherò e che mi conforta […] In questo momento io non so pensare a nulla…Ma chissà, forse qualcosa domani verrà fuori…Ti abbraccio con affetto.

In realtà, dopo la fine della prima Repubblica, non è venuto fuori quasi nulla. Forse, però, tanto il ventennale tragitto populista quanto la difficile condizione odierna dimostrano che la qualità della politica, l’autonomia e la moralità della politica, che restano gli elementi portanti de «il Mondo» di Pannunzio e del suo carteggio con Valiani, non possono non essere elementi cruciali di una nazione moderna; e in primo luogo naturalmente, di una sinistra moderna.
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