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Chi ha vinto?
di G. G.
Italia, febbraio 2013: chi ha vinto le elezioni? Non occorre riflettere molto per comprendere che la risposta è assai meno facile di quanto suggerirebbe un semplice rinvio ai risultati numerici di queste elezioni. E neppure occorre molto per cedere al sospetto che sia molto più facile dire chi ha perduto che chi ha vinto. A cominciare, intanto, da coloro che sono rimasti esclusi dal Parlamento.
Escluso Di Pietro, che aveva rinunciato a presentare una lista propria e si era rifugiato all’ombra di Ingroia dopo le note vicende mediatiche che ne avevano minato l’immagine e la credibilità e avevano sollevato una mezza sollevazione di molti degli esponenti, e alcuni fra i più in vista, di quell’Italia dei Valori, che egli considerava come un suo
reservatum dominium e che come tale trattava e governava. Per la verità, neppure in precedenza i fatti e i detti di Di Pietro avevano mancato di sollevare dubbi e perplessità, sia pure poi superati nella dialettica della vita pubblica; e si era capito da tempo che non sarebbe stato necessario aspettare il 2013 per un drastico ridimensionamento delle sue ambizioni e pretese politiche, se non fosse stata la poco comprensibile decisione di Veltroni nel 2008 di adottarlo come unico alleato di coalizione del suo partito. Del resto, nella stessa Italia dei Valori appariva sempre più incongrua la continua, verbosa e vacua esibizione del giustizialismo e del moralismo come unico motivo ideologico per sostenere la parte di primo piano che Di Pietro pretendeva nella vita pubblica italiana per sé e per il suo partito; e da tempo si era pure capito che quella botte più e meglio di quel vino non avrebbe dato.
Escluso Fini, che ha concluso così, assai poco gloriosamente, una carriera politica svoltasi a lungo con più che favorevole fortuna. Una carriera, peraltro, che era nata nella scia del servizio che Fini aveva prestato a lungo allo storico leader del Movimento Sociale, suo predecessore, Almirante, e all’ombra dei rapporti mantenuti anche in seguito con la di lui famiglia, ma che era apparso poi superato nel traghettamento che Fini aveva guidato dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale. Un traghettamento che, a sua volta, non lo avrebbe portato poi molto lontano se Fini non avesse adottato l’intesa con Berlusconi come sua linea strategica di fondo fino alla confluenza nel Popolo delle Libertà. Su questa linea si doveva inevitabilmente cedere a Berlusconi la guida di quel partito nei fatti e nell’immagine pubblica, ma a parere dei più sarebbe bastato che Fini occupasse con sagace pazienza un ruolo imposto dalla forza delle cose per raccogliere al momento giusto, senza neppure molti sforzi, l’eredità politica berlusconiana, mentre, intanto, era grazie a Berlusconi che egli poteva essere eletto a quella che i media, con molta enfasi, indicano come la “terza carica dello Stato”, ossia la presidenza della Camera dei Deputati. Invece, Fini, che a ciò si disse costretto dall’agire di Berlusconi, lo lasciò e fondò un nuovo partito, senza, però, che fossero in molti a credere che a ciò lo portasse una profonda motivazione ideale, etico-politica e ideologica. La controprova è sembrata esserne data dal completo fallimento di questo nuovo partito, malgrado che dall’ombra di Berlusconi Fini fosse passato all’ombra di Monti (e malgrado l’uso, a molti apparso troppo spregiudicato, della Presidenza della Camera come momento della sua azione politica e di partito).
Escluso Ingroia, passato, nella scia dell’esperienza di Di Pietro, dalla magistratura a un’azione politica personale, improntata a un’idea politica che, al di là, come per lo stesso Di Pietro, della parossistica insistenza moralistica, giustizialista e di una implicita accentuazione del ruolo della magistratura nell’ordinamento italiano e di una difesa pregiudiziale dell’operato della stessa magistratura, non offriva nulla di minimamente rilevante né sul piano ideale, né sul piano politico-ideologico. Eppure, Ingroia ha potuto avvalersi dell’apporto di quel che restava dell’Italia dei Valori, e di quello che si presumeva gli avrebbe dato il sindaco di Napoli De Magistris col suo Movimento Arancione. Poi, è vero, si è visto che del movimento di Di Pietro restava davvero pochissimo, mentre il movimento di De Magistris non aveva una reale consistenza politico-elettorale neppure a Napoli. Il che non allevia il fallimento di Ingroia, che è stato pieno anche nella sua Sicilia, mentre è apparso patetico il modo in cui i tre esponenti di Rivoluzione civile e qualche loro adepto e converso dell’ultima ora hanno tentato di dare ragione del fallimento
Fallimento ed esclusione anche per quei movimenti e gruppi politici costituitisi a ridosso delle scadenze elettorali, o quasi, come il Fare di Giannino (altro preteso capo politico rivelatosi nel caldo stesso della campagna elettorale come per nulla affidabile), nonché per quei movimenti e gruppi (come quelli di Crocetta, di Lombardo e di Miccichè), comunque inclusi in coalizioni dai forti risultati, che avevano già fatto qualche prova, ma il cui carattere strumentale per questa occasione elettorale è apparso del tutto evidente. Fallimento ed esclusione per i radicali, che sono apparsi poco felici nel gestire in questa occasione una tradizione ed eredità politica di tutt’altro livello.
Superfluo è, però, insistere su questi esiti di capi politici falliti ed esclusi. Torniamo alla domanda iniziale: chi ha vinto?
Certamente non ha vinto, anzi ha nettamente perduto Casini, che è riuscito nell’impresa di ridurre al lumicino il suo partito grazie alle sue iniziative e posizioni politiche dell’ultimo anno e mezzo e a una campagna elettorale fondata sul ritornello ossessivo del salvataggio dell’Italia operato da Monti, per cui la gente poteva legittimamente chiedersi perché votare per Casini, che si vantava di aver appoggiato quel salvataggio, e non per chi del salvataggio era stato il vero e dichiarato autore.
Certamente non ha vinto Vendola, che grazie all’inclusione nella coalizione di centro-sinistra ha evitato l’esclusione, e che avrà probabilmente una sua parte nei prossimi sviluppi politici del paese (ma quale parte?), e il cui risultato complessivo è stato indebolito dalla cattiva prova elettorale in Puglia, ossia nella Regione di cui presiede la Giunta.
Certamente non ha vinto la Lega Nord, che in nessun modo riesce a recuperare il ritmo e l’efficacia della sua azione e presenza politica quale ha mostrato fino a pochi anni fa, e non perché, come molti leghisti dicono, tornata all’alleanza con Berlusconi, che anzi l’ha protetta anche per le elezioni regionali in Lombardia, bensì per un fatale esaurimento della sua ristretta ideologia localistica e campanilistica, male alimentata dalle sue pretese e ambizioni secessionistiche rispetto allo Stato italiano, molto più radicato e fondato di quanto i leghisti non pensino. La Lega può almeno vantare, però, il successo nelle elezioni regionali in Lombardia. Il progetto della “macroregione del Nord” è stato ribadito da Maroni, che, per quanto lo riguarda, è, comunque, sicuramente un vincitore, e non solo delle elezioni lombarde ultime, ma anche come uomo politico della Lega, di cui nell’ultimo anno, o poco più, ha assunto la direzione. Ma dove e come si andrà con quel progetto? Forse, ribadendolo, Maroni non vuole confessare neppure a se stesso che la sua affermazione ha dei limiti pesanti, e verosimilmente insuperabili.
Certamente non hanno vinto, infine, i tanti che ora annunciano il proposito di continuare, nonostante tutto il loro cammino politico, e ai quale è difficile augurare anche solo un buon viaggio. E i partiti maggiori?
Il partito democratico ha vinto in termini di risultati elettorali numerici, ma politicamente accusa una netta sconfitta, o, se così non si vuol dire, battuta d’arresto in una marcia che si presumeva trionfale al Parlamento e al governo. Sarebbe da auspicare una riflessione definitiva, ora, nell’ambito del partito, su alcune questioni di fondo. È stato un bene aver concentrato tutto il fuoco della propria idea e azione politica sull’antiberlusconismo? È una base di azione sufficiente ritenere che i mali italiani stiano innanzitutto e soprattutto nel problema Berlusconi? Quali sono i termini concreti di un’azione riformatrice che abbia di mira insieme giustizia, libertà e sviluppo, al di fuori delle predicazioni e delle vaghe indicazioni di contenuto che si sono ascoltate durante la campagna elettorale? È sufficiente il collegamento, continuamente sottolineato, ai partiti socialisti europei per dare volto, fisionomia e consistenza alla presenza politico-ideologica del partito? L’apparato e l’
establishment del partito non sono ormai piuttosto logori sia dal punto di vista interno che dal punto di vista della loro presenza nella società italiana? Fino a qual punto è riuscita la simbiosi fra i vecchi militanti e i cattolici entrati già da alcuni anni nel partito? E che c’è da dire sul non buon risultato politico in queste elezioni?
Troppe domande? No. Poche, anzi, rispetto alla serie degli interrogativi che pongono i risultati delle elezioni e le responsabilità alle quali, comunque, per quei risultati, il partito sarà chiamato nei prossimi mesi. Interrogativi ai quali non si potrà rispondere come nei primi commenti del lunedì hanno risposto il vicesegretario Letta (che ha cambiato quattro volte posizione in un pomeriggio) o un studioso, ma, evidentemente assai poco esperto politico, come Miguel Gotor (che, a “Porta a pota”, ha balbettato ripetutamente sulla futura azione del partito, e per di più definiva “infame” la legge elettorale che consentiva a Berlusconi di avere qualche seggio in più al Senato, esponendosi così alla salace risposta che si trattava della stessa “infame” legge per cui Bersani, con poco più di 100.000 voti in più, si vedeva regalati 100 seggi alla Camera) o una signora indubbiamente preparata come l’on. Moretti (che attribuiva il successo di Berlusconi al fatto che egli parla alla “pancia” del paese: che, snobismo radicalchic a parte, è il modo migliore di rinunciare a capire le vere ragioni di quel successo). Poi Bersani, nel suo intervento del martedì, ha rimesso un po’ a posto le cose, ma gli interrogativi ai quali si è accennato, e che sono solo una parte di quelli effettivi, esigono risposte meditate, organiche e coraggiose.
Successo di Berlusconi, abbiamo detto, e anche innegabile. I numeri parlano da sé, e, dopo tanti sondaggi distruttivi della sua immagine e delle sue forze, aver prevalso in seggi al Senato e aver sfiorato molto da vicino la vittoria alla Camera sono una lezione politico-elettorale di ricordare. Ma, quanto alla vittoria, proprio non diremmo che sia il caso di proclamarla. La coalizione berlusconiana è rimasta molto al di sotto dei risultati del 2008, e ancora 2010. Un certo carattere di leva casuale, ancorché motivata, del suo elettorato permane, e tende anzi ad accentuarsi. Il rapporto con la Lega appare anche oggi abbastanza solido, ma che in prospettiva sia del tutto rassicurante neppure si può dire. Una classe dirigente del partito non si è finora formata, almeno nella quantità e qualità opportuna. Il partito è ancora, anzi oggi più che mai, legato al suo capo e alla sua azione, mentre per il resto, al di là di questo, non sembra offrire gran che. La credibilità e il prestigio internazionale del capo non appaiono affatto migliorati dopo le elezioni, anzi le prime reazioni straniere confermano che questo è un problema di cui Berlusconi farebbe bene a preoccuparsi a fondo e urgentemente, poiché non è solo un problema suo. E come potrà regolarsi con gli impegni presi in campagna elettorale con l’opinione pubblica? Basterà dire che, non avendo vinto, non può mantenerli? Non rischierà, questo, di riuscire un argomento troppo di comodo, pur fondato com’è? E non rischieranno il partito e il suo capo una emarginazione difficile da vivere e da superare, se, a malgrado di tutte le apparenze in contrario, nel nuovo Parlamento si delineerà una maggioranza di governo?
No, neppure Berlusconi ha politicamente vinto, tranne che sul piano della sua causa personale. Anch’egli ha perduto rovinosamente il confronto con la forza emergente del movimento delle Cinque Stelle.
Non ha vinto Monti con il suo nuovo raggruppamento, pregiudicato, indubbiamente, dall’azione di governo svolta per oltre un anno all’insegna di una linea di rigore, in cui l’obiettivo del risanamento finanziario ha dominato eccessivamente a discapito di esigenze sociali compresse oltre misura e di esigenze ancor più incalzanti di impulso a una qualche ripresa dell’economia che rendesse più sopportabile il rigore e impedisse che il salasso fiscale e altre misure di politica sociale si trasformassero in una cura così forte da guarire l’infermo, ma riducendolo a un corpo morto. Né poteva avere molta presa l’argomento della credibilità dell’Italia a livello internazionale ristabilita dal governo Monti: il drammatico esempio della Grecia dimostra fino a qual punto l’urgenza dei problemi e dei bisogni sociali prevalga nella gente, che non può essere mal giudicata per questo, su ogni altra considerazione. D’onde il paradosso che una linea e uno stile politico di indubbia qualità e un’azione politica di cui non si possono disconoscere i meriti sono serviti più a ridurre che ad ampliare la possibilità di consenso al capo del governo uscente, il cui risultato elettorale non è andato oltre quelli che conseguiva la vecchia “Italia civile” o “Italia della ragione” di cui parlavano i vecchi liberaldemocratici italiani fino a Spadolini, e sarebbe stato anzi ancora minore se non fosse venuto a Monti l’apporto cattolico di Riccardi e quello di alcuni ambienti economici. E tutto ciò senza contare che il generoso impegno di Monti nel passare dal piano istituzionale a quello politico e nel sostenere una linea che ha riscosso i maggiori successi proprio in quella Italia civile o della ragione, cui abbiamo accennato, ne ha attenuato (non crediamo distrutto) il profilo tecnico-istituzionale con cui egli era nato quale presidente del Consiglio dei Ministri.
Ha vinto, allora, il capo di questo movimento, ossia Grillo? Certamente. Ha vinto in termini numerici, e ha vinto politicamente, come emerge fin troppo chiaramente dal fatto che, a urne chiuse, egli e il suo movimento sono diventati subito il centro di ogni discussione sul prossimo governo e sul suo asse politico e programmatico. Ha vinto, inoltre, perché, fra tanta strage di politici di lungo corso, egli è uscito dalle urne, ben più di ogni altro, Berlusconi (che pure non se l’è cavata male) compreso, come una figura che appare ancora dotata della possibilità di decidere comportamenti e sviluppi inediti: il che determina incertezze, ma al tempo stesso alimenta speranze e aspettative di quelle di cui la politica non può mai fare a meno.
Anche per Grillo si prospettano, però, con la vittoria, condizioni e problemi di gran lunga più ardui e difficili di tutti quelli finora affrontati. Si richiama l’esempio di Parma e della Sicilia per dire che una diretta o indiretta collaborazione e corresponsabilità del movimento nel governo non solo non è impossibile, ma, anzi, può essere più facile di quanto non si dica. Ma sono approssimazioni poco sensate. Il governo dell’intero paese coi suoi obblighi e le sue presenze internazionali e con la gestione finanziaria di un sistema economico-sociale che rientra nel gruppo di quella dozzina dei più avanzati a livello mondiale, è tutt’altra cosa. La gestione di un sistema non solo economico-sociale, ma anche culturale e ideologico molto, molto complesso è tutt’altra cosa. La gestione di un sistema per antiche vocazioni intimamente pluralista, particolarista e molto meno conformista di quanto di solito si dice è tutt’altra cosa. La gestione di un’azione politica nelle forme regolate e ineludibili, che neppure Grillo può disattendere, della vita di un regime parlamentare è tutt’altra cosa dal tenere comizi di piazza con un linguaggio infiammatissimo. E ciò fa pensare che la dimensione stessa della vittoria di Grillo gli abbia offerto una rosa dalle spine innumerevoli e tutte pungentissime. Fra le quali spine c’è anche quella costituita dalla circostanza di cui meno si parla: e, cioè, che l’universo elettorale a cui Grillo è debitore della vittoria è un universo estremamente composito, in cui le spinte centrifughe possono avere in ogni momento esiti negativissimi, e che tenere unito almeno relativamente, ossia per quel che occorre all’azione politica, può essere, presto o tardi, fatalmente logorante. Il che si può dire, forse, meglio, osservando che la vittoria di Grillo e del suo movimento ha un limite interno che nessuno sa se e come potrà essere superato, e cioè gli stessi Grillo e il suo movimento. Hanno vinto contro gli altri, almeno per ora: vinceranno anche se stessi?
Abbiamo detto: almeno per ora. E lo abbiamo detto perché a nostro avviso alla vittoria di Grillo hanno concorso una serie di fattori estemporanei ed eterogenei, che rendono impossibili, nell’immediato, previsioni realistiche sulla durata di tale concorso e sugli effetti che esso avrà da ora in poi nell’azione del movimento, come l’esperienza storica insegna che si debba chiedersi ogni volta che si passa dalla protesta al governo. La vittoria di Grillo è, infatti, sostanzialmente dovuta a un moto irrefrenabile di protesta molto, molto, molto di più che al concordare su una linea o un programma politico. Innumerevoli anime, perciò, in quel movimento, da quelle di estrema sinistra antiparlamentare a quelle del moderatismo stanco di tante e tante cose della vita pubblica e delle deficienze del governo.
Tutto è, insomma, ancora da vedere, e non lo si potrà vedere, presumibilmente, in tempi brevissimi. Fra quelli che non hanno vinto c’è, dopo tutto, anche l’Italia, e non per i timori destati a livello internazionale, dei quali sarà da parlare a parte, ma per il carico di problemi che le elezioni del 24 febbraio le hanno addossato e che si sono impietosamente aggiunti a quelli – tanti e così gravi – che da tempo la affliggono. Senonché, l’Italia che non ha vinto è pur sempre anche l’Italia che ha vinto, per quanti limiti abbia questa vittoria, e che ha vinto sull’onda di entusiasmi e di segni che denotano una vitalità, di cui per l’Italia si sorprenderanno altri, non noi. Lo svolgimento delle potenzialità, che nascono da questa manifestazione di vitalità, e le problematiche del governo del paese in questa fase storica sono un banco di prova al quale gli italiani del nostro tempo non si potrebbero sottrarre neppure se lo volessero. E si tratta di una prova che potrebbe essere definita disperata in partenza soltanto se una salda consapevolezza e volontà politica e una lucidità di analisi e di propositi adeguata ai problemi e al momento non la reggessero
comm’il faut. Ma per questo non si possono professare né atti di fede, né prevenzioni scettiche e infeconde. È la vita a doverci rispondere, e certo secondo come gli italiani vorranno e sapranno (e potranno!) atteggiarla e svilupparla, ma in ogni caso impegnandosi in essa a fondo e con un senso di responsabilità pari al coraggio che le circostanze richiedono, senza rifiuti, secessioni, disdegni e altri atteggiamenti che, se non sono di comodo, sono sempre, tuttavia, inconcludenti.
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