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Mario Fondi geografo e patriota1
di Luigi Labruna
Gli amici scomparsi – è stato scritto – non vogliono che si muoia con loro, ma che li si tenga in vita nei pensieri, nella voce, nei gesti, nelle opere. È per questo che siamo qui stasera. Per ricordare Mario Fondi. E, con lui, qualche lacerto del mondo segnato dalle crisi, dalle sofferenze, dai contrasti che travolsero nel secolo scorso, con la pace, anche regole morali, giuridiche proprie della nostra civiltà. Un mondo in cui lui, i suoi cari e molti di noi presenti siamo vissuti. Un mondo attraversato poi dagli sforzi della faticosa e confusa opera di ricostruzione. Quindi dalle lotte per una società più giusta e migliore. Dagli entusiasmi per i progressi, non solo materiali, talvolta purtroppo effimeri, faticosamente conseguiti. E per le conquiste della scienza e della tecnica che, modificando profondamente anche la vita degli uomini, ne hanno accompagnato il percorso sino al nuovo millennio e ai giorni nostri.
A molti di questi eventi Mario Fondi ha partecipato. Intensamente. Con il suo carattere impetuoso. La sua passione civile. L’irruenza (talvolta ingenua, spesso ironica) della parola, che usava, all’occorrenza, con ruvida immediatezza toscana come una spada acuminata. Con la cultura raffinata e ampia, di umanista, che traluceva con semplicità dai suoi interventi, dai suoi scritti, dal suo conversare. Con il suo amore per l’arte, la musica, la fotografia. L’avidità di conoscere. E la capacità di descrivere con evidenza e chiarezza le caratteristiche dei luoghi, le forme di vita che vi insistono, insomma la terra nella sua complessa totalità fatta di uomini e natura e determinata, fra l’altro, dalla economia e dalle dinamiche sociali proprie di ogni territorio. L’attitudine felice, cioè, di studiare, insegnare e «praticare» (mi verrebbe da dire) la geografia nella interezza del termine e della sua tradizione: scienza e pratica alle quali ha dedicato la vita.
Di Mario ho brevemente scritto il giorno della sua scomparsa. Nell’emozione forte dell’evento non del tutto inatteso, ma egualmente dolorosissimo non solo per Gianna, Vanni, Giulio e i familiari, ma per tutti noi che gli siamo stati amici. Che abbiamo trascorso con lui momenti di forte impegno all’Università o di serena distensione a casa sua o nostra: a Napoli, in campagna da noi in Cilento o in quell’Abruzzo che ci ha fatto scoprire e amare con i suoi libri. Con le sue fotografie, la sua capacità di descrivere e quasi far vivere dinanzi a noi luoghi, monumenti, spazi, insediamenti, vie, tratturi, cime inaccessibili, boschi fitti di vegetazione e inestricabili, chiese, borghi antichi, mulini, conventi, piazze, casolari diruti e abbandonati. Occasioni tutte nelle quali, nei tanti anni in cui ci siamo frequentati, abbiamo potuto scambiare idee e discutere di tante cose: di storia, di libri, di film, delle condizioni dei nostri tempi, dei pregi e delle contraddizioni della nostra società, di politica, di viaggi.
«Eravamo nomadi di spirito», dice Gianna Malquori, moglie e compagna di una vita. «Stanziali siamo stati soprattutto in Francia, a Tours e a Parigi, dove facevamo lunghi soggiorni in case molto francesi ma molto minimaliste». Viaggi, fotografie, geografia e arte erano strettamente legati in Mario. In Bretagna, ad esempio – è sempre Gianna a raccontare – da vedere e fotografare c’erano le maree, ma c’erano anche (soprattutto?) i Calvari e, da non perdere, c’era la Scuola di Pont-Aven. «Se non avessi fatto il geografo, avrei fatto lo storico dell’arte», diceva talvolta Mario. Parte delle sue fotografie e moltissime cartoline della sua collezione che ora è conservata qui a Roma riproducono dipinti, palazzi, basiliche, chiese di cui, sul retro, annotava con precisione, epoca, stile, particolari, eventuali manomissioni o sovrapposizioni. «Ricordo i lunghi percorsi alla ricerca dell’ennesima pieve romanica o di quelli che una guida avrebbe definito ‘affreschi malconservati della Scuola del Tappa-buchi’, definizione inventata da noi due – ricorda ancora la moglie – e che entrò nel lessico familiare». Anche i figli, bambini e poi adolescenti, più o meno di buon grado, erano coinvolti in quelle ricerche. «La chiesa o la chiusa?» dicevano la mattina in Inghilterra. «Oggi si fa geografia o arte?», domandavano. Ma quando un giorno nei dintorni di Londra trovarono una chiesa sbarrata, al disappunto del padre si contrappose un napoletanissimo «’assa fa a Maronna» dei poveri ragazzi, come lo stesso Mario raccontava divertito.
Ho conosciuto Fondi agli inizi degli anni ’60 quando, appena tornato da Amburgo, dove avevo scritto, con il sostegno della «Humboldt», la mia prima monografia, divenuto libero docente e, insieme, giovane «assistente straordinario» di diritto romano, mi era capitato di ascoltarlo in alcune delle tante accese assemblee dell’Anau, l’associazione napoletana degli assistenti universitari in cui si dibatteva (con qualche enfasi di troppo, forse) di questioni locali, di «stabilizzazione» dei precari, delle malefatte di alcuni baroni e dell’invadenza straripante di talune Facoltà (non le nostre) nella gestione dell’Ateneo, ma soprattutto delle annunciate, mai davvero realizzate, riforme del sistema universitario. Misure che – continuamente rinviate anche per la sorda resistenza di non pochi di noi accademici, bisogna dire – sono state poi più volte abbozzate, raffazzonate, introdotte d’urgenza per fronteggiare emergenze causate dalla irresponsabilità di quanti (di destra, di sinistra, di centro) ci hanno in questo lungo arco di tempo governato, attenti soprattutto a conquistare, con provvedimenti più o meno demagogici, immediati consensi. Misure che anche a me, decenni dopo, da presidente del «Consiglio universitario nazionale», toccò, per il possibile, di temperare molto a fatica in un contesto culturale e politico ormai ampiamente compromesso.
Di alcuni anni più anziano di me, Mario era già allora un docente affermato. Allievo di Biasutti a Firenze, era divenuto (bei tempi in cui le università non si erano ancora completamente municipalizzate!) assistente ordinario, poi aiuto, a Napoli. Era temuto dagli studenti per la sua severità, ma anche loro come i colleghi lo rispettavano per l’indipendenza e l’onestà con cui svolgeva il suo lavoro. Non faceva parte di gruppi, cordate o camarille, né chiedeva favori. All’occorrenza litigava e rompeva le scatole senza guardare in faccia a nessuno (memorabile fu il suo ferreo «I miei libri un li mando in cantina» con cui si rifiutò, ad inizio anni ’80 mi pare, di obbedire all’insulso dictat di trasferire il prezioso patrimonio bibliografico e documentario dell’Istituto di Geografia negli scantinati, ad altissimo tasso di umidità, del convento di San Pietro Martire, dove i libri degli altri più docili Istituti che vi furono allocati in breve tempo marcirono e dai quali dovettero poi essere precipitosamente tolti per essere, con dispendio grande di denaro pubblico, risanati.
Sorridente, all’apparenza sicuro di sé, asciutto, dal tratto signorile intriso di antica civiltà montanara (la madre era ossolana), Mario Fondi era dotato di un parlare fluente, con accento toscano per noi napoletani piacevolmente esotico. Il che – insieme con la fama (mai ostentata) di aver partecipato giovanissimo, alla guerra partigiana – contribuiva ad alimentarne, soprattutto fra noi più giovani, l’appeal, invidiato da non pochi colleghi almeno quanto la sua riconosciuta e fortunata ‘mulierosité’.
Per un po’ di tempo ci perdemmo di vista. Lui percorse il suo iter accademico, per breve tratto a Salerno, quindi di nuovo a Napoli, dove salì sulla cattedra che era stata di Migliorini, facendo a sua volta scuola, io approdai nell’antica, per noi giuristi allora molto ambita, Università di Camerino.
Da rettore, a metà anni ’70, lo invitai a uno dei convegni internazionali sulla «questione universitaria» che vi tenemmo. Vi partecipò attivamente. Trascorremmo insieme due intense giornate di lavoro seguite da un’escursione (che per me fu anche una lezione, sua e del botanico Francesco Pedrotti) nella riserva naturale di Torricchio in val di Tazza, oasi naturale gestita dall’Ateneo camerte fra le più integre e ricche di biodiversità d’Italia, popolata di lupi, orsi, istrici, gatti selvatici, di cui però non riuscimmo ad avvistare quella volta neppure l’ombra.
Da quando son tornato a Napoli nel ’76 abbiamo rinsaldato il nostro rapporto, iniziando a frequentarci con le nostre famiglie piuttosto frequentemente. E trovandoci in momenti significativi delle nostre vite, anche accademiche, vicini e solidali. Con discrezione e con autonomia di giudizio. Spesso in consonanza di sentire; in qualche occasione con qualche diversità d’opinione, sempre nutrita però di reciproco rispetto. Di carattere difficile, spigoloso, a volte irritante, spesso indispettito da quelle che, a suo giudizio, erano le ‘troppo buone maniere’ della moglie (soprattutto in Facoltà; lei, come è noto, è una raffinata francesista) l’odiosamato Mario Fondi riusciva però ad avere dei veri amici, i quali avevano capito che poteva anche contrastarli ma mai colpirli alle spalle.
Negli ultimi anni ci siamo incontrati sempre con molto piacere, ma meno di frequente a causa delle sue numerose malattie (per minimizzare e rincuorare, Gianna lo chiamava in quel tempo «il mio trattato di patologia generale» e insieme dicevano che la loro vita, vissuta per tanti aspetti ancora intensamente e, nei limiti del possibile, senza grandi rinunce, era diventata «una sezione di lotta continua»). Le infermità le affrontava con coraggio. E anche con una punta di ironia. Come quando, nel 2007, in ospedale gli parlarono senza mezzi termini dell’infarto che aveva in atto. «Mi mancava», disse. «E, dato che devo restare qui, portatemi Il tamburo di latta». Ai due giovani medici, che pensando al frastuono volevano dissuaderlo, ribadì gentilmente che lui aveva anche «il morbo di Gutenbergo» e che il tamburo era l’unica cura. Non si resero conto della presa in giro, ma lo curarono con efficacia.
Abbiamo continuato, così, a vederci, seppure più di rado ma, ormai con affetto più che con semplice amicizia. A ciò debbo, oltre al privilegio di essere qui stasera, l’aver potuto leggere – grazie alla generosità di Gianna, non alle sue ‘buone maniere’ – alcuni inediti appunti di tempi passati («ricordi e pensieri lontani», così li ha in una cartellina rubricati) che Mario redasse nel 2009:«brandelli di vita vissuta e mai cancellati», scrisse; con «volti, luoghi sensazioni che non mi abbandoneranno fino al termine dell’esistenza».
«Posso portare come esempio – esordiva – l’amore inestinguibile, più che lontano ricordo, risalente all’infanzia, della montagna, immagine della bellezza, dalle albe violacee ai tramonti vermigli, dal sole più luminoso alle piogge scroscianti, alle nebbie, al vento. E quella sensazione mista di potere e di umiltà che ci esalta sulle cime raggiunte: passare dall’ebbrezza della conquista all’intimo sguardo sulla nostra perenne fragilità. Senza pensare alle tante altre sensazioni più personali, quali il profumo delle erbe falciate di fresco e dei covoni di fieno, l’odore acre della legna bruciata nei camini e la dolce fragranza del legname lavorato e della segatura. Escluso ormai da tante di queste gioie esaltanti, ho ritrovato tre sensazioni primigenie in un componimento poetico di una cinquantina di anni fa, riscoperto in un ammasso di documenti…».Di quella poesia spiegava, quindi, con pudore, il significato oltre che la genesi. Per il poco tempo a disposizione non la riporto. In quest’epoca di smarrimento, anche morale, e di diffusa ambiguità che la nostra società attraversa, preferisco invece concludere questa breve rievocazione soffermandomi su altri due «ricordi» in cui Mario Fondi, senza retorica, con molta semplicità e con lucida consapevolezza anche della propria umana fragilità, fa rivivere – con una trattazione di straordinario vigore, che lascia trasparire una netta visione etica degli avvenimenti storici vissuti – episodi relativi a momenti fondativi della nostra democrazia tanto faticosamente ritrovata e poi, per molti versi, nei decenni successivi, tanto irresponsabilmente sciupata.
Il primo episodio riguarda la trasformazione di Mario Fondi, poco più che adolescente, da cadetto dell’Accademia di Modena in militare sbandato e poi in valoroso partigiano, combattette (come attestato dal generale Alexander) «per l’onore e la libertà». È il racconto di un lungo e pericoloso cammino segnato da fatiche, sofferenze fisiche, umiliazioni, disorganizzazione, fame, solidarietà umana, crudeltà, paure, stupidità e arroganza di un ufficialetto le cui ottuse vessazioni spinsero l’8 settembre del ’43 il Nostro, spossato da ore e ore di marcia con sulle spalle una canna di mortaio, sfinito dalla mancanza di sonno e dal digiuno, a un istintivo gesto di ribellione, per sfuggire alle cui temute conseguenze (la fucilazione), prese la decisione di disertare. Abbandonando – qualche ora prima del generale «rompete le righe» decretato dagli ufficiali disorientati – la colonna che ormai errava senza meta per trovar rifugio in una cascina sperduta di contadini e quindi unirsi ad altri sbandati con cui raggiunse dopo una lunga e penosa peregrinazione le colline della guerriglia in Toscana unendosi finalmente ad una unità combattente partigiana.
«La storia ha inizio alle Piane di Mocogno, a 1303 metri di altitudine nell’Appennino Modenese. All’alba suonò la tromba. Era il giorno della partenza atteso da tutti come una liberazione. Quell’altipiano, che per noi, allievi dell’Accademia di Modena, aveva significato un mese di sudore e di sacrifici, stava per essere abbandonato senza rimpianti. Ci attendeva però l’impegno più duro con la marcia che aveva per meta la caserma di Scandiano… All’inizio il percorso sembrò facile, in discesa. Ma non avevo calcolato la complessità di quel tratto di montagna… Finita la prima discesa dovevamo superare un altro costone montuoso, discendere sull’opposto versante e risalire di nuovo a più riprese. Lo zaino affardellato diveniva sempre più pesante, gli scarponi chiodati facevano spesso scintille sullo scabro fondo delle mulattiere. Senza tener conto che, a turno, dovevamo caricarci sulle spalle la mitragliera da 20 o la canna del mortaio, con effetti laceranti. Un disastro.
Finalmente fu raggiunta la strada di fondovalle del Secchia, ma eravamo tutti definitivamente malridotti… Oltre a ciò la giornata era stata molto calda, ancora estiva. Certamente la situazione fu considerata critica. Tanto è vero che il colonnello Duca, comandante dell’87° corso, dopo averci veduti sfilare (o arrancare) da una comoda auto fermata sul bordo della strada, decise di fare tappa prima di raggiungere Scandiano. E fu a una trentina di chilometri dalla meta, a Ponte a Lugo, che con le ultime residue forze piantammo le tende sul fresco greto del fiume.
Tutto sembrava un miraggio, anche il suono di una campana alla quale poco dopo se ne unirono altre. E divenne in breve uno scampanio festoso che ci lasciò tutti meravigliati: “che ricorrenza è oggi? È 1’8 settembre, non c’è motivo di fare festa…”. Dai villaggi nascosti nel verde sui fianchi della valle seguitarono a lungo a spandersi le allegre note, mentre cadeva il crepuscolo. Come in sogno vedemmo allora comparire, isolati, alcuni fuochi che si moltiplicarono in breve illuminando le pendici. “Ora anche i falò. Ma cosa sta succedendo?” Nessuno di noi era in grado di sospettarne una ragione fino a che, come una folgore, ci raggiunse la notizia: era stato firmato l’armistizio. Il clamore di tante voci cessò quando la tromba scandì le note dell’adunata. Più in alto, su un groppo al di sopra del fiume, un ufficiale prese la parola: “Da questo momento non siete più allievi dell’Accademia, siete dei soldati. Truppe tedesche hanno bloccato a Scandiano i nostri mezzi motorizzati, armi e munizioni di guerra, ed hanno fermato i nostri maggiori quadri, compreso il colonnello Duca. Si hanno buoni motivi per credere alla notizia che mezzi corazzati si muovano verso di noi, perciò, smontate le tende… Dovremo ritirarci per sistemarci in alto, in posizione di difesa”. Grande fu lo sconcerto generale, ma per quanto riguarda le mie impressioni ho quasi un vuoto di memoria. Ricordo soltanto che non avevo alcun timore e mi impegnai, come tutti gli altri, a disfare l’accampamento e ad approntarmi alla nuova fatica.
Digiuni, cominciammo ad affrontare l’erta in silenzio... Raggiunto il bordo della valle, gli ufficiali ci fecero disporre secondo i loro più moderni canoni della cosiddetta arte militare: gruppi di fuoco attorno alla mitragliera da 20 e plotoni distanziati per fare resistenza apparendo più numerosi. Ma, c’era un grosso ma. Dove si trovavano le munizioni da guerra? Disponevamo di due caricatori a testa per il moschetto 91 (arma tremenda del secolo precedente), per il resto avevamo un caricatore per ogni mitragliera; munizioni per il mortaio inesistenti. Meno male che nel buio della valle non erano apparsi i fari dei panzer ex-alleati… Altri squilli di tromba: ritirata verso l’interno, in marcia.
Così ebbe inizio la fase più miserabile della nostra avventura militare. All’alba, sfiniti dal digiuno e dalla fatica, ci trovammo di fronte a un gruppo di case. Sosta e richiesta agli abitanti di provvedere agli affamati dell’87° corso. Il tenente G. mi chiama: “Allievo Fondi, di guardia. Fra un’ora sarà dato il cambio”. “Signorsì”. E mi ritrovai su un monticello a scrutare in tutte le direzioni... Passa l’ora, ne passano due, e finalmente arrivano a darmi il cambio. Gli altri si erano, così per dire, rifocillati, mentre io (in ritardo per colpa del cambio), riuscii a stento ad avere una patata e un tozzo di pane marrone e non masticabile. Mi ero adagiato su un groppo erboso cercando di mangiare almeno la patata, che faceva bella mostra nella gavetta con l’acqua di bollitura quando apparve il solito tenente G.: “Allievo Fondi, il vostro zaino è male affardellato, prima di mangiare è vostro dovere rimetterlo a posto. È una questione di decenza”. Un velo nerastro mi offuscò la vista, afferrai il moschetto e misi il proiettile (da guerra) in canna. Come in sogno vidi il tenente ergersi impettito e voltarmi le spalle, andandosene. Naturalmente, alla ripresa della marcia il mio carico fu la temuta canna del mortaio.
Errando senza una meta precisa, con in testa gli ufficiali, fu a quel punto che mi assalì una folle paura. Il mio gesto era stato di una gravità eccezionale… Nella mente mi si agitava una sola parola: fucilazione. Fu allora che presi la decisione improvvisa di fuggire. Già intorno si palesavano i primi segni di disfacimento... Cominciai a brancolare come preso da un malore e mi adagiai a terra. Arrivò un ufficiale, mi fu slacciato il mortaio e mi rialzai con visibili segni di sofferenza. Ripresi a camminare con studiata lentezza, in modo che gli altri mi passarono avanti fino a che rimasi buon ultimo. La mulattiera a un certo punto compiva un’ampia curva fiancheggiata da un’alta siepe che nascondeva in parte un grosso casolare rustico, e fu lì che con un balzo saltai al di là del riparo rotolandomi poi sul pendio verso la casa …
I contadini che mi videro apparire sull’aia ebbero attimi di incertezza ma ben presto, considerando che avevo subito ceduto il moschetto e avevo prospettato un cambio molto vantaggioso, mi accolsero e mi offrirono riparo nel fienile per quella notte. Così mi potei liberare della scomoda divisa prendendo in cambio una giacchetta blu bucata ai gomiti e un paio di pantaloni ornati di ben nove toppe di colore differente … Passai una notte agitata … Finalmente, dopo tanta pena, si annunciò una mattina di splendido sole e i fantasmi non tardarono a diradarsi. Mi alzai dal giaciglio di fieno profumato e mi fecero anche lavare con l’acqua calda in un grosso catino; seguì la colazione a pane e latte fresco, appena munto, poi misi in un sacco di iuta i miei residui averi e, dopo saluti e abbracci, m’incamminai verso l’ignoto … Dopo quasi un’ora di cammino, passando presso un gruppo di case, udii allegre voci... Mi appostai e con mia grande felicità vidi apparire Renzo Pacini, vecchio amico pistoiese e collega in Accademia accompagnato da due commilitoni, che lasciavano la casa dove avevano passato la notte. Era davvero una fortuna lontana da ogni più rosea speranza... Così fui informato dell’inglorioso epilogo, avvenuto due o tre ore dopo la mia diserzione. La schiera degli sbandati vagò attraverso la montagna senza né meta né speranza, fino a che gli alti ufficiali decretarono il ‘rompete le righe’ dopo una grottesca cerimonia nella quale venne seppellito il tricolore, confermando così il loro grande attaccamento alla Patria. Cominciò allora il primo giorno di fuga libera... Giorni e giorni attraverso i quali dalla sconosciuta montagna modenese fu raggiunta all’Abetone la Terra promessa, cioè la provincia di Pistoia …».
«Fine della mia guerra» è il titolo dato da Mario all’ultimo brano che voglio riferire. Scritto con diverso registro, con il pieno possesso delle sue emozioni e con una semplicità espressiva che incanta, è tuttavia un racconto, genuino, di una intensità e di una drammaticità impressionante. Sentite: «Dopo le avventurose giornate dell’agosto 1944, ero finalmente riuscito a raggiungere di nuovo i compagni partigiani a Pistoia. Occupammo il Palazzo Comunale… L’8 settembre, a un anno preciso di distanza dall’inizio della resistenza, arrivarono le forze alleate. Erano truppe sudafricane precedute dai carri armati Sherman che destarono la mia stupita ammirazione. Al confronto, i nostri mezzi corazzati facevano la figura dei carretti di frutta e verdura... Grande fraternizzazione, sigarette, scatolette, cioccolato, era una nuova vita che ci sommergeva. Bisogna però affermare che gli alleati erano molto restii alle azioni di guerra: se doveva essere attaccato ed eliminato un nido di mitragliatrici toccava a noi, e in seguito essi avanzavano cautamente con i loro mezzi ultrapotenti. Un giorno, di fronte al nostro diniego di distruggere una sacca di resistenza a Capostrada, si decisero a intervenire direttamente con gli Sherman che spararono per tutta la mattina, con esito banalmente scontato. E da parte dei tedeschi? Dalla montagna sulla quale si
erano assestati, tenendo come base la Linea gotica, furono messi in azione tutti i cannoni a lunga gittata. Così la città cominciò a subire un continuo cannoneggiamento che causò non poche vittime un po’ dovunque. Ogni giorno lasciavo il Municipio e andavo a dormire su un materasso al piano terreno della casa della vecchia Genny, che aveva ospitato la mia famiglia – mamma e fratello – essendo la nostra abitazione inagibile dal primo rovinoso bombardamento aereo americano (e dire che gli aerei erano stati denominati “liberators...”). Fino a che una mattina la mamma mi dette un consiglio: “Stai tornando al comune con il mitra a tracolla, e a pochi passi c’è il Duomo. Entra in chiesa e se non vuoi pregare ringrazia Dio di averti salvato la vita”. Questa ‘orazionpicciola’ mi dette un certo turbamento; da tanto tempo non pensavo a quelle cose, e mi tornava difficile riprendere a pensarci. La vita aveva perduto il valore di prima, troppi morti, per non farci l’abitudine. Arrivai al municipio e presi atto delle disposizioni per la giornata. Giunto al cortile interno, ebbi la sorpresa di sentirmi chiamare da una compagna di scuola, Franca Pirami. Era la più bella, simpatica e desiderabile studentessa del liceo Forteguerri, che, del resto, non aveva mai avuto un soddisfacente campionario di bellezze femminili. Un abbraccio spontaneo, e cominciò a svolgersi quel cumulo di notizie e di ricordi, lieti di rivedersi dopo gli scampati pericoli. Era già iscritta all’Università di Firenze e si trovava lì ad aspettare il fidanzato partigiano (piccola puntura al cuore), in famiglia si erano salvati tutti e le cose tornavano a regolarizzarsi. Pensai alle parole della mamma. “Sai come sono fatte le mamme, la mia è sempre stata un po’ bacchettona, debbo fare un salto in duomo e poi torno qua. Aspettami, non te ne andare”. E lasciai il cortile. Raggiunto il porticato esterno, alle mie spalle sentii un fruscio seguito da una assordante esplosione. Mi voltai e vidi una grande nuvola bianca che sgorgava dal cortile interno, mi slanciai come stordito dal presentimento atroce. Franca era a terra, silenziosa e pallidissima, con un fianco profondamente squarciato. Urlai, urlai tanto, venne un’auto che la portò via, al vicino ospedale. Franca era già morta. E io piangevo urlando, dopo tanto tempo che la morte mi aveva lasciato ad occhi asciutti. E pensavo che avrei potuto esserci io insieme a lei, uniti nella morte, se le parole di mia madre non mi avessero fatto sfuggire al tragico appuntamento. Avevamo soltanto ventun anni e non mi importava più di niente. Lasciai il mitra e la formazione partigiana, tanto ormai non c’era più nulla da fare. E non entrai nel duomo per sprofondarmi in vacui ringraziamenti, ma corsi a casa per rannicchiarmi piangendo sul materasso…».
Anche di questi drammatici e utili racconti e della lezione morale e civile, laica e intensamente spirituale e sofferta, che da essi traspare i figli e noi tutti dobbiamo essere grati a Mario Fondi, geografo patriota amico. Uomo vero. Solo ricostruendo la umanità della storia si può proseguire e andare fiduciosi verso il futuro. Ciascuno con la propria identità.

Berkeley, 25 dicembre 2012, a sera








1 È la traccia dell’intervento svolto mercoledì 6 febbraio 2013 nell’Aula ‘Giuseppe Dalla Vedova’ di Palazzetto Mattei in Villa Celimontana, Roma, in occasione della donazione alla «Società Geografica Italiana» del patrimonio geo-fotografico di Mario Fondi. Alla cerimonia sono intervenuti altresì il presidente della «Società», Franco Salvatori, i professori Giuseppe De Matteis e Anna Maria Frallicciardi e la moglie dello scomparso, professoressa Gianna Fondi Malquori.^
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