Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIV - n. 3 > Interventi > Pag. 231
 
 
Il diritto al lavoro nella costituzione italiana: istanze economiche ed emancipazione sociale in una prospettiva meridionalista
di Mario Rusciano
Il punto di partenza e l’architrave: la Costituzione e gli artt. 3 e 4

Nella Costituzione italiana le connessioni tra i valori dello sviluppo economico e quelli del progresso civile e sociale sono molto evidenti e, seppure di diversa natura, molto intrecciati. Non dovrebbero mai, pertanto, essere trascurate, nemmeno al cospetto della attuale, dura realtà economica del paese, e del Mezzogiorno in particolare. I drammatici tassi di disoccupazione delle regioni meridionali sono lì a richiamarle continuamente alla memoria: indice estremo di uno scarto economico “Nord-Sud” assai ben noto.
In sostanza il «lavoro», in tutte le sue possibili forme, è il valore che, in negativo, meglio riesce a raffigurare la crisi strutturale delle Regioni meridionali, resa oggi ancor più acuta dal contesto recessivo globale.
Cosa può fare il giurista del lavoro, in un quadro dalle tinte così cupe? Non molto. Tuttavia, quanto meno, può chiarire il significato attuale di disposizioni costituzionali di straordinario valore: che vengono talora considerate politico-programmatiche, ma che non per questo risultano poco incisive sul piano tecnico, come spesso afferma la Corte costituzionale. A cominciare da quella dell’art. 4, comma 1, della Costituzione, secondo cui «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto».
Questa disposizione impone un preciso impegno alle istituzioni: non solo per interventi legislativi, riguardanti direttamente ed esplicitamente il lavoro e la sicurezza sociale, ma anche perché l’azione pubblica nel suo insieme (parlamentare, governativa e amministrativa; nazionale e locale), valga ad operare in un’ottica, per così dire, “integrata”. Si parte dalle politiche economiche, direttamente chiamate in causa, per arrivare alle politiche più generali di organizzazione della convivenza: dalle infrastrutture alla sicurezza del territorio, infestato dalla criminalità (quella sì, molto organizzata). Con al centro, appunto, il diritto “al” lavoro.
Da questo punto di vista, l’art. 4 specifica e caratterizza, tra l’altro, l’eguaglianza sostanziale di cui parla l’art. 3, comma 2, della Costituzione. Un effettivo diritto al lavoro, infatti, è un modo concreto di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Senza retorica, l’art. 3 cpv. è una norma fondamentale, come tutti sanno. Essa va letta assieme all’art. 41 Cost., ove si afferma che «l’iniziativa economica privata è libera»; che essa però “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; e che è affidata alla legge la determinazione di «programmi e… controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Gli artt. 3 e 41 imprimono al nostro sistema economico il carattere di un capitalismo dal volto umano: nel quale occorre costantemente ricercare l’equilibrio e il contemperamento tra l’interesse dell’impresa e la tutela del lavoro. Una ricerca, certo, non facile: la quale, se necessario, passa anche attraverso il conflitto collettivo, che l’art. 40 qualifica come diritto soggettivo (da esercitarsi «nell’ambito delle leggi che lo regolano»); e che l’art. 39 garantisce riconoscendo, con inusitata ampiezza, la libertà dell’organizzazione e dell’azione sindacale.
Non mi pare il caso di rammentare in questa sede l’intero sistema normativo, che una Costituzione (come la nostra del 1948) di una Repubblica «fondata sul lavoro» dedica, appunto, al lavoro: direi, in un mirabile intreccio tra democrazia politica e democrazia economica. Una cosa però è certa: la c. d. “costituzionalizzazione” dei diritti dei lavoratori, a cominciare dal diritto al lavoro, segna una direttrice molto netta. Tanto netta, da convincere chiunque della necessità di tarare su questo sistema tanto le valutazioni politiche, di merito, su qualità e congruenza degli interventi economici adottati dalle istituzioni competenti, quanto il giudizio di legittimità costituzionale degli interventi medesimi.
Se è vero che la direzione del dettato costituzionale è quella di una “tensione” verso condizioni economico-sociali, che agevolino addirittura la piena occupazione, è altrettanto vero che nessun provvedimento di politica economica può sottrarsi a quel setaccio a maglie strette, costituito dal sistema costituzionale del lavoro. In una parola, una politica economica, rispettosa della libertà economica e che non fosse in linea anche con le esigenze del lavoro e dell’occupazione, violerebbe l’impegno della Repubblica di promuovere «le condizioni che rendano effettivo» il diritto al lavoro.



Gli interventi: i contenuti positivi e le occasioni mancate

È, questo, un assunto molto semplice e persino ovvio. Che però, nella sua ovvietà, non va sottovalutato. Se non altro perchè apre rilevanti prospettive di lettura critica della politica legislativa: al fine di capire quanto gli interventi sul lavoro siano destinati a non essere effettivi, se non accompagnati da interventi strutturali di ordine economico più generale. E ciò serve a capire meglio la questione dell’occupazione nel Mezzogiorno. Serve, in pratica, a cogliere i limiti dell’impiego di modelli e tecniche giuridiche nell’area del lavoro, radicate in una sorta di “solipsismo progettuale”, che ha sempre messo a dura prova il Diritto del lavoro, almeno a partire dalla stagione successiva a quella del c. d. “Statuto dei diritti dei lavoratori” (legge 20 maggio 1970 n. 300).
In effetti, dello Statuto, il significato storico ed il peso sulla modellistica sociale, stanno proprio nella esemplare armonizzazione del testo di legge con il contesto economico-sociale di quel periodo. Un contesto positivo, quello: che solo con l’avanzare degli anni ’70 registrerà una prima grave crisi recessiva, dalla quale una certa metodologia delle politiche del lavoro, e le connesse discipline legali, non è mai riuscita ad affrancarsi del tutto.
È dalla seconda metà degli anni ‘70 in poi che il legislatore comincia ad operare “per approssimazioni”, con un mix di interventi slegati di previdenza sociale e di flessibilizzazione delle regole del rapporto di lavoro: con scarsa capacità di disegnare un sistema organico e coerente. Bisogna attendere gli anni ’90 per una rinnovata presa di coscienza del contesto generale e per la formalizzazione di una nuova modellistica integrata di normative sul “lavoro”: anzi, più esattamente, sul “mercato” del lavoro.
In questo scenario evolutivo, il Mezzogiorno paga sicuramente il prezzo più alto; il già precario assetto economico-sociale subisce un ulteriore indebolimento: vi si iniettano dosi massicce, da un lato, di flessibilità e, da un altro lato, di pura assistenza sociale. Al Sud si diffondono parecchio i “contratti di formazione e lavoro”, primo vero esperimento di lavori atipici e flessibili, che in realtà servono a coprire veri e propri rapporti di lavoro dipendente a basso costo.
Il Sud vive, purtroppo, da protagonista, le grandi dismissioni industriali e tocca con mano le ricadute sociali dei primi percorsi di mobilità collettiva. In conseguenza di tutto ciò, peraltro, il Sud registra, prima di altre regioni, la grande crisi di rappresentatività delle Confederazioni e l’indebolimento dell’azione sindacale a livello decentrato.
Il Diritto del lavoro appare condizionato dalle degenerazioni dell’opulenza industriale e dalle dinamiche economiche ad essa correlate. Dunque, è poco preparato a segnare percorsi di emancipazione sociale nei periodi di maggiore difficoltà economica.
Come dicevo, sono gli anni ’90 ad aprire una stagione nuova. I problemi del lavoro, in tempo di crisi, riguardano sempre meno la vita reale e quotidiana dei rapporti di lavoro e sempre più il mercato del lavoro: con immaginabili conseguenze sull’abbassamento dei livelli di retribuzione, oltre che di libertà, dignità e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Ormai il focus dei vari interventi è tendenzialmente portato sull’intero contesto dei fattori di crescita dell’occupazione; così come, contestualmente, di gestione delle crisi attraverso strumenti di previdenza attiva (c. d. Workfare), cioè non di pura assistenza.
I veri passaggi storici si registrano nel 1993, per quanto riguarda la politica dei salari, la revisione del sistema di relazioni industriali e la riforma del lavoro pubblico; e, nel 1997, con il c. d. “pacchetto Treu” e con l’integrale riscrittura delle regole di funzionamento e di governo del mercato del lavoro. Pare, in questo momento, che il legislatore sia più sensibile a mettere in rete le diverse componenti dello sviluppo; sia cioè più accorto a cercare i percorsi adatti a promuovere la effettività del diritto al lavoro: da un lato, ammodernamento delle amministrazioni pubbliche; da un altro lato, apertura e riforma dei servizi per l’impiego, contestuale ad una sana attuazione della sussidiarietà verticale.
Interventi che non riguardano specificamente il Mezzogiorno, ma dai quali il Mezzogiorno avrebbe dovuto trarre qualche giovamento. Ma vedremo che non è così.



L’effettività dei diritti sociali fondamentali al cospetto della libertà economica: gli influssi del contesto comunitario

La parabola sopra descritta è accompagnata da una notevole, e non casuale, simmetria con gli sviluppi dell’ordinamento comunitario. In effetti, dall’Europa provengono molte sollecitazioni all’Italia, e su più piani.
Gli anni ’90 sono quelli di un forte recupero delle politiche per l’occupazione in ambito europeo, sulla scia della crisi economica di quegli anni. La Comunità – che, si sa, è nata con i chiodi fissi di «mercato », «concorrenza» e «finanza» – pone finalmente al centro dei suoi obiettivi anche la politica sociale, integrandola con le politiche economiche più generali e più tradizionali. Anzi, nel 2000, questo processo di attenzione alle tematiche del lavoro si consolida vistosamente.
Per tale via, anche l’art. 4 della Costituzione italiana vive una stagione di sostanziale riscoperta. Il precetto costituzionale pare rinverdirsi, nel solco degli obiettivi della politica sociale europea. La linea della “piena occupazione” non è più solo un obiettivo del disegno costituzionale italiano (magari solo simbolico). Essa diviene, nell’Agenda del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, un concreto obiettivo strategico dell’Unione: non a caso insieme al rafforzamento della coesione sociale.
Si tratta di obiettivi che vengono scanditi nella strategia europea per l’occupazione (SEO), la quale si regge su quattro pilastri: «occupabilità»; «adattabilità»; «imprenditorialità»; «pari opportunità». Tra questi pilastri, quello della occupabilità sicuramente traccia il percorso più denso di implicazioni, utili anche alle vicende italiane, specie per una certa insistita enfasi sulle politiche attive del lavoro e, in particolare, sulla formazione.
L’obiettivo economico concreto di una tendenziale piena occupazione si rispecchia, poi, sul versante strategico, in una rinnovata attenzione – su un piano giuridico più alto – verso il tema del rafforzamento dei diritti sociali. Tra i quali, proprio quelli legati alle condizioni di impiego e di accesso al lavoro dei cittadini spiccano sin dalla prima formulazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, solennemente proclamata nel dicembre 2000.
Questa Carta, com’è noto, è destinata a divenire nucleo forte della c.d. Costituzione europea, seppure non incorporata in essa materialmente. E qui, tra i diritti di libertà, compaiono la libertà professionale ed il diritto di lavorare (art. 15). Quest’ultimo trova una sua interessante applicazione funzionale nel diritto di accesso ai servizi di collocamento, sancito formalmente nel successivo art. 29.
Oltre all’influsso diretto di queste fonti comunitarie e dei documenti politici ufficiali dell’Unione, non va dimenticato l’influsso che l’ordinamento comunitario esercita sul nostro sistema per il tramite della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, la quale lega strettamente i regimi legislativi nazionali sull’occupazione ed i temi del diritto comunitario della concorrenza. Si tratta di un versante denso di implicazioni nell’ottica del ragionamento qui svolto: giacché lo sviluppo di una sana competizione tra attività di impresa ha ricadute dirette sulla creazione di posti di lavoro.
Ma non è questo l’aspetto che si può ora approfondire. Nell’ottica del diritto al lavoro (come situazione soggettiva che lo Stato deve riconoscere, e cercare di soddisfare con l’azione di governo), va invece qui messo a fuoco il ruolo giocato dalla Corte di Giustizia nel superamento dei regimi nazionali di monopolio pubblico delle attività di collocamento. In particolare, per l’Italia, il riferimento è alla nota sentenza c.d. Job Centre II dell’11 dicembre 1997 (C-55/96)1, per mezzo della quale un severo monito arriva all’Italia dalla Comunità europea: i servizi per l’impiego devono essere all’altezza delle richieste di coloro che cercano occupazione. Essi, in poche parole, devono essere efficienti.
In fondo è quello che esige lo stesso art. 4 Cost.: nel senso che i servizi per l’impiego sono i primi ad avere il dovere di rendere effettivo l’accesso dei cittadini alle occasioni di lavoro. Ma il monito europeo significa pure che, strumentale a tale missione, è l’attivazione a vari livelli di meccanismi capaci di moltiplicare le opportunità di inserimento lavorativo: una sorta di precondizione, necessaria a rendere realmente funzionali i servizi per l’impiego.
Nel Mezzogiorno in particolare (ma anche in qualche altra zona d’Italia), siamo ancora lontani dalla realizzazione di tale obiettivo. Ne è prova l’amara vicenda della riforma dei servizi per l’impiego, tracciata dal precedente governo e arrestatasi con la nuova legislatura. La legge delega n. 247 del 2007 – di attuazione dell’ultima grande intesa trilaterale, condivisa da tutte le parti sociali, cioè il Protocollo sul welfare del 2007 – conteneva linee ambiziose, ma coerenti con il suo obiettivo2. I tempi della delega vanno dilatandosi sine die – da ultimo si vedano l’art. 46 della l. 183/2010, il c.d. “Collegato Lavoro” e l’art. 4 della l. 92/2012 (comma 48) – e ad oggi nulla di concreto è stato ancora proposto. In effetti la c.d. “Riforma Fornero” si limita a rivitalizzare la delega, esplicitando i nessi tra servizi e politiche attive del lavoro.
Ad ogni modo, chiunque conosca l’andamento organizzativo dei servizi per l’impiego nelle diverse regioni del Sud-Italia, non può che vedere, nella mancata attuazione di quei principi, una ulteriore occasione persa per contribuire al rilancio dell’occupazione nel Mezzogiorno: dove più lento ed arretrato risulta essere persino lo sviluppo di una grande rete di servizi integrati per le politiche del lavoro. Anche qui occorrerebbe ricercare le responsabilità: se dei politici, dei funzionari e dipendenti pubblici, dei sindacati, e di quanti altri operano in questa area.



La stagione della Flexicurity: più sicurezza e meno flessibilità per il Mezzogiorno

Certo non è pensabile che un buon funzionamento dei servizi per l’impiego possa garantire – da solo – l’effettività del diritto al lavoro. Tuttavia, si intuisce che una buona organizzazione amministrativa del mercato del lavoro può almeno contribuire a migliorare lo sfruttamento delle occasioni di lavoro nei vari settori produttivi. Anzi, intrecciando nuovamente prospettiva nazionale e prospettiva comunitaria, può contribuire ad ampliare i margini di realizzazione, specie nel Mezzogiorno, della c.d. Flexicurity (Flessicurezza). Vale a dire di quel modello di regolazione del mercato del lavoro, con cui l’ordinamento comunitario suggerisce agli Stati membri di affrontare le questioni dell’occupazione nella crisi economica di questi anni: rapporti di lavoro flessibili, ma accompagnati da formazione, sicurezza e adeguati sistemi di ammortizzatori sociali.
Per la verità, il Mezzogiorno avrebbe bisogno di più sicurezza e di meno flessibilità. Perché nel Sud la flessibilità non è mai mancata. Ed anche le ultime indagini Svimez rivelano l’alta percentuale di rapporti di lavoro atipici, assai diffusi nel Mezzogiorno, in controtendenza con l’andamento nazionale. Sta di fatto, però, che tutta questa flessibilità non produce alcuna crescita economica. Al contrario, ha fatto registrare una drammatica depressione della produttività del sistema economico nel suo complesso. Tanto da giustificare che si rivendichi, assieme ad interventi strutturali di tipo economico, una maggiore attenzione alle condizioni dei lavoratori, onde contrastare il fatale peggioramento di esse nella difficile crisi economica.
1) In primo luogo, la diffusione di un più robusto ed effettivo sistema di sicurezza sul lavoro. Lavoro nero e infortuni sul lavoro sono tuttora piaghe intollerabili delle realtà produttive meridionali; il loro contrasto deve avere, quindi, priorità nell’agenda dei governi, nazionale e locali. A questo proposito, più d’una ricerca sul campo dimostra che si tratta di fenomeni da combattere con una pluralità di interventi ad ampio raggio, facenti leva sulla promozione di una cultura del lavoro di qualità, da svolgere con dignità ed entro i confini della legalità.
2) In secondo luogo, andrebbero previsti meccanismi più virtuosi per l’accesso alle prestazioni previdenziali; e, soprattutto, un migliore raccordo tra stato di disoccupazione, ricerca di un nuovo posto di lavoro e sostegno del reddito.
In entrambi i casi un ruolo fondamentale viene giocato dai pubblici poteri e da una efficiente cooperazione interistituzionale, che va reclamata a gran voce. Per la verità, un grido ancora più forte andrebbe alzato verso i pubblici poteri quando, ben lungi dal rendere effettivo il diritto al lavoro, sono la causa della perdita del lavoro.
È vero o non è vero che la mancanza di infrastrutture nel Mezzogiorno è tra le cause principali della carenza di investimenti industriali privati? È vero o non è vero che la mancanza di sicurezza del territorio e la tolleranza nei confronti delle organizzazioni criminali costituisce un ostacolo insormontabile alla crescita di un sano tessuto economico e, quindi, alla crescita dell’occupazione? È vero o non è vero che, non onorando i debiti verso le imprese (specie verso le piccole imprese) i pubblici poteri costringono gli imprenditori a licenziare i dipendenti?
Dunque, al Sud, non soltanto mancano gli investimenti pubblici, ma esistono precisi inadempimenti dello Stato e degli enti locali, che non svolgono adeguatamente i loro compiti istituzionali e, addirittura, tagliano risorse finanziarie già impegnate verso imprese creditrici.



La scommessa della “regionalizzazione” delle politiche attive: regolamentazione e governo del mercato del lavoro

Ma il ruolo primario dello Stato non viene giocato soltanto dal Governo centrale. Dopo la riforma costituzionale del 2001, anche nell’ordinamento italiano ha assunto notevole rilevanza il principio di sussidiarietà: e l’art. 117 Cost. afferma la competenza regionale in materia di tutela e sicurezza del lavoro. Il principio in parola può costituire davvero una opportunità, a patto che: (a) si sappiano mettere in campo programmi e progetti adeguati; (b) si possiedano congrue capacità di spesa; (c) si sia capaci, in sintesi, di impostare una politica a tutto tondo e in senso pieno: cioè non soltanto in materia economica e sociale.
In caso contrario, la sussidiarietà può diventare una trappola, perché quasi certamente si risolve in una situazione di inerzia istituzionale. Lo stallo che ne consegue appare eclatante, quando si tratta di valutare gli effetti delle politiche del lavoro.
Non è un mistero per nessuno che l’azione delle Regioni meridionali, su questi temi, non ha “brillato”… (tanto per usare un eufemismo!). Personalmente, quando ho curato una ricerca sul lavoro sommerso, ho potuto toccare con mano l’inconsistenza degli interventi regionali. Non diversamente, è sconfortante il funzionamento dei servizi per l’impiego. Soluzioni sperimentali ed innovative non hanno mai trovato accoglienza da queste parti; ed è amaramente ironico che uno dei progetti leader della Provincia di Napoli (titolare dei centri per l’impiego e partecipe del sistema territoriale di governo del mercato del lavoro) sia stato condotto in collaborazione con centri di altre regioni italiane: al fine di agevolare l’emigrazione di lavoratori napoletani in altre regioni.
Il catalogo delle inerzie o, nella migliore delle ipotesi, dei ritardi potrebbe continuare, ma non servirebbe a molto. Meglio menzionare, invece, qualche dato positivo, anche se per ora solo astratto e teorico. La Regione Campania ha approvato una Legge intitolata “Testo unico della normativa della Regione Campania in materia di lavoro e formazione professionale e per la promozione della qualità del lavoro” (L. reg. n. 14 del 2009).
Si tratta di un corposo provvedimento, alla elaborazione del quale ha contribuito il Dipartimento di Diritto dei rapporti civili ed economico- sociali dell’Ateneo Federico II, con una ricerca collettiva, condotta da giovani studiosi di varie Università della Campania, coordinati da Lorenzo Zoppoli. Ci sono voluti più di tre anni per approvare questa legge, che ha indubbie potenzialità; le quali, però, rimangono, per ora, sulla carta: almeno fino a quando non si comincerà ad applicarla in concreto e, speriamo, senza secondi fini (elettorali o clientelari).
La legge mira alla istituzione di un sistema integrato di programmazione e regolazione del mercato del lavoro campano, dove tutti gli interventi sono tra loro collegati e convergenti. Le misure previste agiscono su più piani: sostegno alle imprese; finanziamenti alla formazione; lotta al lavoro irregolare. Il tutto nella prospettiva della creazione di un sistema del lavoro di alta qualità. Quelli che troppo spesso appaiono frammenti di azione vengono così ricondotti ad un’azione unitaria e sistematica: dove le politiche del lavoro mirano a trasformarsi in operazioni concrete.



Il nodo della formazione

I temi della formazione sono molto variegati, ed in questa sede mi limiterò ad alcune notazioni essenziali e di fondo. Purtroppo, non posso non partire osservando che la formazione è uno dei capitoli più tristi – nel nostro paese – proprio in termini di realizzazione del dettato costituzionale. Ed attenzione: ancora una volta non si tratta semplicemente di adeguatezza del quadro normativo di riferimento.
Certo, le Regioni meridionali sono in ritardo anche in quest’ambito, ma non vi è dubbio che l’insieme delle normative vigenti astrattamente potrebbero garantire, oggi, la messa in campo di numerosi strumenti operativi. Il d. lgs. n. 276 del 2003, in particolare il titolo VI, ha enormemente arricchito il quadro delle tipologie contrattuali in tema di formazione e lavoro superando il modello del contratto di formazione e lavoro a favore di una tipologia innovativa di contratti di apprendistato. Il legislatore è poi ritornato sulla materia, giustamente collocandola nel complesso delle misure per il rilancio economico ed antirecessive; mi riferisco all’approvazione del “Testo unico dell’apprendistato” (d.lgs. 13 settembre 2011, n. 167), con cui finalmente il Governo ha dato forma ad alcuni impegni assunti con le Autonomie locali e le parti sociali nel febbraio del 2010.
Ma, come si diceva, non sono gli strumenti che mancano: del resto è ora intervenuta la c.d. “Riforma Fornero” a ribadire la centralità dell’apprendistato. Anche le risorse, scopriamo, sono rilevanti: non per niente insistono sulla generosità del FSE (Fondo Sociale Europeo). È allora evidente che ci troviamo dinanzi ad una sostanziale incapacità di spendere con profitto e, prima ancora, di programmare una politica della formazione che sappia veramente collegare istruzione e ingresso nel mercato del lavoro; oppure di utilizzare le risorse per realmente creare nuove occasioni di lavoro, concrete possibilità di reimpiego per i lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali.
In questo caso le responsabilità sono molteplici. La stessa Università ne ha una parte non proprio irrilevante, perché non sempre riesce a focalizzarsi sui problemi della formazione destinata alla creazione dell’occupazione o, comunque, all’adattabilità delle persone sul mercato del lavoro. Laddove, a ben vedere, non è affatto impossibile coniugare un ruolo fortemente culturale con la capacità di agevolare l’entrata dei giovani nei processi dell’economia reale. Tutti gli altri attori – e le Regioni meridionali in larga parte, purtroppo – tendono a convogliare le risorse per la formazione verso utilizzi di piccolo respiro e breve periodo, trasformando i finanziamenti per la formazione in forme surrettizie di sostegno del reddito, con incremento del lavoro nero.
E dispiace constatare che, spesso, il sindacato non manca di legittimare operazioni di questo tipo, magari giustificandole con lo stato di necessità e di emergenza.



I problemi del sindacato

Ho richiamato il sindacato. In realtà, quello della gestione della formazione è solo uno dei tanti aspetti che testimoniano la profonda crisi che sta attraversando. La complessità e l’articolazione dei piani della crisi economica; la diffusione dei c. d. lavori non standard; un generale intorpidimento delle istanze di solidarietà sociale, ne stanno segnando duramente il passo.
La frammentazione degli interessi del lavoro è tale, che effettivamente oggi le compagini sindacali vivono una crisi senza precedenti: di identità e di valori. A partire dalla firma separata della intesa sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva, sino alle note vicende dei discussi e tormentati accordi decentrati FIAT, si assiste ad una spaccatura tra CGIL, CISL e UIL più profonda rispetto a quelle del passato, perché non dovuta ad un semplice differente posizionamento politico. Dietro quella diaspora sindacale ci sono modi diversi di esprimere l’ansia per il futuro; ma le istanze del lavoro rimangono, nella loro essenza, le stesse e non può esserci alcuna azione governativa che non si avvalga del consenso e del coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori.
L’auspicio è, quindi, quello di un serio e tempestivo recupero dell’unità di azione, cui in effetti si è potuto assistere in occasione del Protocollo sulla rappresentatività sindacale, congiuntamente firmato nel giugno 2011 dalle tre Confederazioni e dalla Confindustria. Sono convinto che, tra le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro, la democrazia industriale sia destinata a conservare – e, anzi, ad accrescere – la sua funzione di composizione istituzionale dei conflitti. Una funzione essenziale, di cui le Regioni meridionali non possono fare a meno, proprio perché afflitte da tante contraddizioni e tensioni sociali. E mi chiedo se il sindacato non avrebbe potuto sfruttare meglio, nel Mezzogiorno, luoghi e metodi di intervento, adatti a realtà difficili, almeno in linea teorica; quella programmazione territoriale fatta di contratti d’area, patti territoriali, distretti industriali: tutti strumenti ben più definiti e strutturati di
quella anomala ed eccentrica “contrattazione di prossimità” maldestramente prevista dall’art. 8 del dl. n. 138 di agosto 2011.
In ultima analisi, quel che è mancato nel Mezzogiorno, per un grande rilancio economico, è stato, tra l’altro, un’adeguata saldatura tra il tessuto sociale, quello imprenditoriale e quello delle istituzioni. In poche parole, la realizzazione del progetto costituzionale racchiuso negli art. 3 e 4 della nostra Carta fondamentale.






NOTE
1 I passaggi centrali della sentenza sono i seguenti: a) l’attività di collocamento è in toto assimilabile ad un’attività d’impresa (essa dunque può essere valutata in termini di risultati concreti); b) un cattivo funzionamento del collocamento va a danno dei destinatari di quel servizio; c) «il mercato delle prestazioni di collocamento dei lavoratori è estremamente vasto e altamente diversificato. La domanda e l’offerta di lavoro su tale mercato comprendono tutti i settori produttivi e si riferiscono ad una gamma di attività lavorative che va dalla manovalanza non qualificata sino alle qualifiche professionali più elevate e rare. In un mercato così esteso e differenziato, per di più soggetto, a causa dello sviluppo economico e sociale, a grandi mutamenti, gli uffici pubblici di collocamento rischiano di non essere in grado di soddisfare una parte rilevante di tutte le domande di prestazioni».^
2 Si parla: «a) di potenziare i sistemi informativi e di monitoraggio……..; b) di valorizzare le sinergie tra servizi pubblici e agenzie private, tenuto conto della centralità dei servizi pubblici, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro…….; c) di programmare e pianificare le misure per la riqualificazione di lavoratori anziani, valorizzando il momento formativo; d) di promuovere il “patto di servizio” come strumento di gestione adottato dai servizi per l’impiego per interventi di politica attiva del lavoro; e) rivedere e semplificare le procedure amministrative» (art. 1, co. 30, l. 247/2007 e succ. mod. int.).^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft