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Vico e il continente della storia
di Biagio de Giovanni
1. Nel programma che rivisita i testi fondamentali (e anche, se così si può dire, quelli minori) della storia del pensiero occidentale, la nota, meritoria iniziativa della casa editrice Bompiani giunge ora alla ripresentazione di G.B. Vico (Giambattista Vico, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello. Saggio Introduttivo di Vincenzo Vitiello). Vico, il filosofo che ha scoperto il continente della storia, che ha visto in esso un ordine, “la storia ideal eterna”, misurarsi con il disordine delle passioni umane, con la storia delle nazioni, “che corre in tempo”. Il filosofo che ha visto la storia come destino dell’umanità e come luogo dove si misurano la sua potenza e le sue paure, che ha dialogato con i grandi spiriti del passato e del suo tempo, “da un angolo di mondo” come egli medesimo scrisse. Filosofo moderno o tradizionalista? Filosofo della Provvidenza o filosofo della catastrofe o, in un modo complicato, di ambedue le cose? Tanti interrogativi si inseguono e si intrecciano, e a essi cerca di dare una risposta, complicata, tesa, tormentata, il lungo saggio introduttivo di Vincenzo Vitiello che merita una attenta analisi. Ed è da qui che voglio iniziare, non senza una lode particolare a Manuela Sanna e allo stesso Vitiello per il paziente e difficile lavoro di curatori dei testi ripristinati nella loro forma originaria. Un’edizione che sarà un indispensabile strumento di lavoro.

2. Il saggio introduttivo è per molti aspetti sorprendente per chi non abbia familiarità con il pensiero e il metodo di ricerca di Vitiello, e con i suoi esiti più recenti. Di Vico si incomincia a parlare all’incirca alla pagina cento, e le prime cento pagine non sono dedicate a quello che la consueta indagine di storia delle idee chiama il “contesto”, ma costituiscono una raffinata e problematica ricostruzione topologica del Moderno, dove si rincorrono e si intrecciano le risposte dei grandi pensatori pre- e post-vichiani, da Cartesio a Hegel, da Spinoza a Kant, e grandi racconti come il Quijote del Cervantes, anche se infine Spinoza è visto come il vero protagonista del confronto con Vico. Sullo sfondo, la grande filosofia antica, fra Platone e Aristotele, gli “inventori” originari del problema che ha drammatizzato la storia dell’Occidente, il rapporto fra logica e realtà e, in qualche modo, fra parola e cosa, o, per dirla con Vico, fra il certo e il vero.
Come questo insieme di autori e di problemi si incontrano nell’età nuova del moderno Occidente? Il Moderno è visto, mi pare, come una immensa liberazione di potenze che ha alle spalle una duplice crisi: quella del mondo antico che esplose «quando l’uomo si convinse che gli dei sono indifferenti al destino dell’uomo» e quella dell’età di mezzo che aveva rievocato la salvezza in Oriente, nella religione dell’amore, «del Dio che dona suo Figlio per salvare l’Uomo» (ivi, p. XXXI), salvezza che crea un’Attesa alla fine frustrata dal suo allontanarsi in un tempo indefinito, e qui è inevitabile il ricordo di “Futuro passato” di Reinhardt Koselleck. All’alba del Moderno il mondo appare come disseminazione di volontà incoercibili, di sforzi inani, di poteri che non sanno che farsi beffa dei progetti dell’ingegno. L’uomo appare estraneo al mondo, e Quijote e la rappresentazione tragicomica di questa scissione, segno di un sapere che non ha saputo imporsi al mondo. La sua follia è l’esito estremo di quella scissione che mostra la subordinazione del sapere al potere, il trionfo della forza rozza, alla quale il cavaliere errante risponde mettendosi a cavalcare la terra nella sua solitudine autoironica fino alla disperazione. Vero dunque è quel sapere «che meglio risponde alla forza del volere» (ivi, p. XXIV).
Mi par questa quasi l’epigrafe del saggio di Vitiello. La metafora di come si presentò, al pensiero, il nuovo inizio. Il cavaliere errante è l’emblema vivente della scissione: fra sapere e potere, intelligenza e volontà, io e mondo. In questo immenso spazio vuoto e disordinato il pensiero ricerca un ordine. Ma meglio si dovrebbe dire, seguendo Vitiello, i filosofi cercano un ordine. I filosofi, anzitutto, che pensano nello spazio aperto dalla nuova scienza, e dunque non la scienza moderna come tale, ma l’autoriflessione della realtà che essa promosse: un ricordo heideggeriano regolarmente registrato. Quale ordine? Vitiello lo ritrova in una espressione che per lui largamente unifica la risposta moderna: mathesis universalis. Che ha, con la scoperta armonia della matematica, un rapporto che potrebbe essere espresso dalla particella “meta”, diventando il principio nucleare e fondativo dell’ordine cercato. Nell’immenso e anomico mondo della scissione, esso si presenta come il punto della ricercata unità. Il che significa metter da parte, o almeno lasciare a problematica distanza, due visioni sintetiche che hanno dominato i principii della ricerca sul carattere dell’età nuova: l’autolegittimazione che sgorga dal soggettivismo umanistico moderno (Blumenberg) o il principio della secolarizzazione delle grandi sintesi teologico-politiche dell’età di mezzo (Lowith).E qui vorrei annotare, quasi in un inciso, la sottile critica dell’autore a tutte le letture soggettivistiche di Cartesio (e di Kant), critiche che contribuiscono a creare un campo analitico assai originale anche rispetto a rappresentazioni che hanno segnato a fondo il dibattito europeo, come quelle di Husserl e di Heidegger sullo stesso tema.

3. Ma torniamo al cuore del problema. Il principio individuato da Vitiello ha una estensione larghissima, giacché comprende sia Cartesio sia Vico, sia Spinoza sia Kant. Costituisce, per certi aspetti, il ritorno di Platone, del giudizio di sussunzione, del carattere fondante dell’universalità del predicato, e l’abbandono di Aristotele, del giudizio di inferenza, ovvero dello sforzo di penetrare la potenza di ogni ente nella sua determinatezza. Qui rappresento la cosa con un necessario sforzo sintetico, ma va da sé che le due prospettive, pur nette nella loro forma nucleare, si intrecciano e si condizionano nelle diverse formulazioni della mathesis e danno origine alla fisionomia di sistemi di pensiero lontanissimi fra loro, per cui sorge legittima la domanda sulla loro effettiva potenza ermeneutica che è ben segnalata in questo passaggio: «Giudizio di inerenza e giudizio di sussunzione prospettano due diverse etiche: dell’appartenenza al mondo la prima, della separatezza la seconda» (ivi, p. L). Accogliendo l’orizzonte che disegnano, mi sembra che il solo Hegel resti fuori da questa scelta nello sforzo prometeico di far penetrare la potenza in ogni ente determinato. E si può aggiungere così mi pare di poter leggere il saggio che c’è una linea Cartesio-Kant che ordina ciò che può ordinare con la funzione logica della mathesis, rinnovando la scissione fra epistéme e volontà, e un’altra linea Spinoza-Vico che, mettendo all’origine la sostanza e non la funzione logica, esistenzializza, se così si può dire, il nesso fra le potenze in discussione: Vico nello spazio della storia, Spinoza in un avvolgente ordine assiomatico. Non so se questa lettura mi allontana molto dalle intenzioni dell’autore, a me fornisce sicuramente un orizzonte in cui ritrovo la radicale irriducibilità dei due pensatori ora ricordati a quel Cartesio al quale va comunque riconosciuta l’originale posizione di chi apre e fonda la via della filosofia moderna.

4. Di nuovo ora sulla mathesis. Essa può esser vista, nella sua generalità, come potenza ordinante, risposta fondante alla invasione dell’anomia, della scissione. Tentativo di risposta ai problemi posti dal cavaliere errante nella sua disperata cavalcata. Che cosa tiene insieme il mondo? Che cosa ne può evitare la dissipazione? E l’io e il mondo? e il sapere e il potere? Ora appare chiaro che all’ordine della mathesis, all’epistéme sfugge l’effettività della vita. All’epistéme cartesiano sfuggono la volontà e il corpo. Lo sforzo d’ordine non è che fallisca (e vedremo perché, con una lettura che pongo problematicamente all’autore), ma certo dalla sua rete, dalle sue maglie sembra ricostituirsi una diaspora, la diaspora dell’infinita volontà rispetto alla finitezza e incertezza del sapere, tanto incerto che, cartesianamente, solo l’esistenza di un Dio buono può garantire che il mondo ci sia, tema decisivo e tante volte relegato nelle note dei manuali. E nella lettura di Vitiello la stessa cosa accade con Kant, o leggo male? Il primato della ragion pratica, sostanzialmente affermato nel saggio, conduce in questa direzione. Il sapere è impotente. Io e mondo restano divisi dall’impotenza del sapere. La logica deve cedere il posto all’Etica. Ora, mi domando: non si abbandona così a se stesso tutto il mondo che quell’epistéme, sia pure incerto e parziale, contribuisce a creare, e che dà una sua fisionomia al Moderno, una forma obbiettiva della sua civiltà, della sua capacità di costruire vita obbiettiva e relazioni fra io e mondo? E questa via non è sommamente presente nella Prima Critica kantiana? Non si riduce troppo la funzione della mathesis, pur affermata come via portante, rispetto all’esito che sembra condurre, soprattutto nella prospettiva di Vitiello su Kant, e in generale nella linea Cartesio-Kant, nella direzione dell’impotenza e fragilità del sapere? L’obbiezione non vuole dimostrarsi inconsapevole di quanto pesino il permanere della scissione e le riduzioni formalistiche che essa induce. Non è assolutamente invito a un trionfalismo scientista lontano dalla mia sensibilità: e qui mi pare che la via husserliana formi ancora un orizzonte critico da non trascurare. Si può guardare, insomma, con molta attenzione alla riduzione dell’Io trascendentale a funzione logica; mi pare meno convincente, invece, lo sprofondare del sapere nell’impotenza come risultato della critica kantiana alla ragione tradizionale. La scienza moderna ha un debito ineludibile con Kant. Ma dire questo, implica individuare una linea di sviluppo del Moderno che apre una via che l’autore sembra voler evitare. Dove conduce questa riduzione? A me, questo sembra aprire un problema.

5. Lascio Cartesio e Kant, e incontro lo Spinoza e il Vico di Vitiello. Si continua a parlare di mathesis, ma qui l’orizzonte problematico cambia, e radicalmente. La situazione nuova mi pare questa: la mathesis qui non è forma, è sostanza. Essa rappresenta il primato dell’Uno, ma di un Uno esistente, anzi che esiste per eccellenza: il vincolo eterno della sostanza spinoziana, il primato, in forma diversa anch’esso eterno, della vichiana “storia ideal eterna”. I mondi che nascono da questi vincoli sono però incomparabili, anche se ambedue, per Vitiello, fortemente influenzati dal neoplatonismo. Ora che il neoplatonismo sia un cifra ineludibile per leggere i due autori, non credo possa esser messo in dubbio, e per Vico basterebbe ricordare gli studi di Gentile sul De Antiquissima. Ed è innegabile che il problema che assilla i due pensatori sia il rapporto fra molteplice e Uno. Ma la dirompente originalità delle loro risposte riduce, forse, l’importanza determinante di quel pur necessario riferimento: esso può essere punto di partenza, ma essenziale diventa ciò che c’è in più rispetto a esso e che sgorga dallo sforzo eroico di rispondere all’anomia di nuovo tipo che si aprì con l’età nuova.
Il punto essenziale, in Spinoza, è che la mathesis non ha bisogno di fondamento: essa è fondamento a se stessa. Esiste inconfutabilmente dando forma all’eterna sostanza. Ora «il grande disegno di Spinoza è di ampliare l’ambito della mathesis universalis alle ‘azioni’ e ‘passioni’ umane, esaminandole come si esaminano le ‘linee’, le ‘superfici’, i ‘corpi’» (ivi, pp. LXVIIIII). Ma quel disegno deve fare i conti con un concetto talmente corazzato di sostanza da non riuscire a centrare per davvero quel risultato strategico. Per quanto complicato e contrastato (le contraddizioni vive di ogni grande pensiero) sia, infatti, il rapporto fra sostanza, attributi e modi, mi pare che la conclusione cui giunge Vitiello (in critica alla posizione di Deleuze, ma non solo) è l’impossibilità che la sostanza si esprima. Essa è sovraespressiva, resta chiusa in sé, è già tutta espansa per poter ancora espandersi, E insomma, in Spinoza il molteplice non si può fondare essendo l’unità di vero e certo data all’inizio, non cercata, anche se il tema apre scenari complessi. Mi pare di riascoltare, mutatis mutandis, la critica di Hegel a Spinoza: il molteplice è semplicemente trovato, un che di aggiunto. «I modi, le affezioni della sostanza non sono altrove che nella sostanza» (ivi, p, LXXIX). Ma neanche questa è soluzione che si può consolidare, e dunque Vitiello si allontana dal carattere chiuso della lettura hegeliana di Spinoza. Il punto di partenza è quello, l’esito è diverso. In realtà fra sostanza e modi, fra natura naturans e natura naturata c’è tensione, una tensione in sé stessa contraddittoria ma necessaria, altrimenti tutto annegherebbe nell’indicibile. Ma più che provare a percorrere la via (che personalmente preferisco) di scavare in questa tensione mettendo al centro il tema dell’immaginazione e della sua dirompente forza (la forza della libertà, che nasce proprio dall’“esistenza” di una esistenza senza essenza) Vitiello opta per una risposta espressa esemplarmente così: «“Il molteplice, dato e non dedotto dall’Uno, prova la sua origine dall’Uno avendo l’Uno come meta”. E poi, conclusione avvincente e problematica: “Nell’esigenza del molteplice di provare, di dar ragione della sua origine, è il fondamento e la ragione (il Grund) della teleologia dell’Ethica: la teleologia dell’Amore”» (pp. XCIIIII). Perché sottolineo questo aspetto come decisivo? Perché qui si disegna un esito che in una certa misura e in forme naturalmente diverse abbiamo già incontrato nella lettura di Kant: la chiamerei una essenziale rappresentazione dell’impotenza del sapere moderno, confermata dall’irresolubile groviglio del rapporto ragione-passioni; un tendenziale disincanto sulla possibilità che l’età nuova risponda al dirompente tema della scissione (potere-sapere, ragione-passioni, intelligenza-volontà), un’età che va quasi “trattenuta”, ad evitare che il tempo si dissipi. Di più: si tocca qui la radicalità del primato dell’etica che spinozianamente si conclude nell’Amore intellettuale di Dio, in quella nascosta teleologia dell’Ethica che vien fuori in modo necessario, a giudizio dell’autore, come risposta all’irresolubile nodo Uno-molteplice. Spinoza molto vicino a Kant. Kant molto vicino a Spinoza, molto più di quanto io non abbia immaginato nel lavorare su questo tema sottolineando le lontananze. Ma tutto è coerente nel discorso di Vitiello: è l’impotenza del sapere che salva il mondo, non la sua potenza, anche se verrebbe da chiedersi: ne salva così veramente i colori e i sapori molteplici? E non certo a caso è l’espressione citata (è l’impotenza del sapere che salva il mondo) che chiude il capitolo spinoziano e apre quello vichiano, dove ci attendono molte sorprese.

6. Quello di Vico è un altro mondo rispetto a quelli che abbiamo finora attraversato? Sì e no, risponderebbe Vitiello. Sì, perché Vico scopre il continente della storia; sì, perché certo e vero non coincidono per niente, e in fondo tutta l’opera di Vico si può raccogliere nello sforzo immane (e inedito) che egli affrontò per trovare il punto dell’unione; sì, perché Vico inventa non solo una “Scienza Nuova”, ma una nuova lingua per esprimerla, il linguaggio delle immagini, non del concetto, la lingua che deve porsi per straordinario compito quello di rimettere insieme le parole e le cose: un compito peraltro “impossibile” se la metafisica ragionata dove certo e vero si fanno uno non potrà mai veramente penetrare il passato della metafisica solo immaginata, quando dominava la scissione: come se la filosofia dovesse registrare questa impossibilità di far retroagire il presente sul passato, e a un tempo nascesse proprio dall’impossibilità di abbandonare questo tentativo. Ma a un tempo Vico fa parte di quel mondo, è cartesiano prima ancora di essere anticartesiano, per una ragione decisiva che Vitiello appoggia sull’immagine di Vico “inventore” della sua mathesis universalis, nientemeno appoggiata sulla storia, ma pur sempre mathesis.
Come tradurla in termini vichiani? È la “storia ideal eterna”, la mathesis della storia. Ne seguiremo, per come possibile, l’andamento, ma è subito opportuno sottolineare un elemento che nella lettura di Vitiello diventa centrale: La philosophia ha precedenza sulla philologia, la Critica sulla Topica, anche se Vico sa bene, e Vitiello lo ricorda, che, senza la Topica, la Critica cartesiana “certa non est”, e qui la polemica esplicita è contro le letture in chiave, per dirla in sintesi, “storicistiche”. Ma è proprio così? Viene “prima”, la Critica? Intanto, essa è una “scoperta” tarda, appartiene all’intelligenza dell’età degli uomini (riproponendo il contrasto tra vero e apprendimento del vero), di quella età della riflessione che, nel momento in cui diventa consapevole di sé, nella sua metafisica ragionata, si ritrova sull’orlo di un abisso catastrofico, in un corto circuito che sembra rimodulare la funzione stessa dell’“ideal eterno”. “Prima”, espressione temporale, rende l’idea? Che cosa è la “storia ideal eterna” nascosta, invisibile, in attesa quasi di essere “scoperta”, e di poter dire: è il mio primato che regola tutto? O la ricerca topica delle origini, scavando nel prelogico, nella certezza “corpolenta” della costituzione dell’umanità, non fa apparire, nella realtà slogata e macerata, il rapporto e lo slivellamento fra le due storie (quella ideal eterna e quella che corre in tempo) capaci di disegnare il rapporto e lo slivellamento fra certo e vero e quasi la vittoria del certo che si fa vero? E la vittoria non è proprio la costituzione dell’umanità, il farsi storia della vita immediata? Tutto lo sforzo della “Scienza Nuova” non è nel fare philosophia della philologia, e viceversa? Come si riscatta la mathesis della storia dalla sua astrattezza se non discendendo nel corpo, «nell’infinità molteplice della libido, della cupiditas, dei mali e degli errori», riscattando questo mondo e insieme riscattandosi, come lo stesso Vitiello scrive? (p. CXVI). Il distacco fra le due storie, la tarda verità della prima, la originaria verità della seconda, non le rende ambedue incomprensibili?

7. Il momento della consapevolezza certo cambia lo scenario, e permette a Vico di scrivere la “Scienza Nuova”, e cambia lo scenario in un modo preciso e per certi aspetti drammatico: come se l’umanità non reggesse ciò che la sua Mente ha scoperto, come se il movimento della storia ideal eterna dovesse rimanere sotterraneo, fra luce e ombra, come se l’umanità non potesse e non dovesse liberarsi dalle ombre che circondano la sua vita e il suo rapporto col mondo, e la Provvidenza dovesse agire per vie indirette, traendo dalle stesse ragioni dell’umano la possibilità dell’universalizzazione (“La lingua mentale comune a tutte le nazioni”) della sua vocazione particolare. Certo, senza storia ideal eterna non si costituisce il campo della storia, ma senza storia «che corre in tempo» quel principio neanche sarebbe (non sarebbe, non semplicemente non saprebbe di esserci) e la storia vive intera di questo slivellamento (uso con insistenza una espressione di Giuseppe Capograssi sul tema) che fa dell’Uno il molteplice e del molteplice l’Uno, mantenendo la tensione fra i due lemmi. Come se “la storia ideal eterna” ponesse un compito impossibile, e tuttavia necessario. E il suo realizzarsi fosse anche l’impossibile fine della storia, della storia tutta compresa e viva in quella “differenza” che, eliminata dalla riflessione troppo maliziosa, conduce l’umanità nell’abisso descritto nelle ultime pagine dell’ultima “Scienza Nuova”. La storia non redime, e se ci prova fallisce, ma può salvare il finito se questo si accontenta di esser tale. Le pagine di Vitiello su questo passaggio mi paiono particolarmente tormentate, e non interpreto il mio accento messo dove ho provato a metterlo come una alternativa secca alla sua lettura (si veda ad esempio la p. CXXV). E tuttavia una distanza c’è.

8. Il confronto con Spinoza rende questo punto ancora più chiaro. L’itinerario di Vico, lo dice Vitiello, è opposto a quello di Spinoza, «dalla riduzione della mathesis universalis all’ordo geometricus, sino a comprendervi l’universo morale, all’ampliamento della mathesis universalis all’ordo moralis» e, si potrebbe aggiungere, all’intero ordine della storia (ivi, p. CXIII). Si può dire che Vico, rispetto a Spinoza, espande la mathesis fino a perderla di vista, non diversamente da come si vede in un passaggio esemplare, dove è possibile misurare le due idee di sostanza che presentano Spinoza e Vico. Certo, Vico in un passaggio essenziale quasi traduce alla lettera Spinoza, e dice «L’ordine delle umane idee procede secondo l’ordine delle umane cose», ma mi piace subito mettere in evidenza un contrasto che quasi produce fra i due un rapporto (non volutamente) ironico: la sostanza di Spinoza nella celebre definizione è: «ciò che è in sé e concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non esige il concetto di un’altra cosa, a partire dalla quale debba esser formato». Quella di Vico suona così: gli Eroi latini «sentirono la sostanza che vuol dire che sta sotto, e sosiene, star ne’ talloni; peroché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste; ond’Achille portava i suoi fati sotto i talloni» (SN, pp. 1095-96): gelido linguaggio assiomastico di un olandese che ha dimenticato la sua discendenza mediterranea, e calda, materiale sensibilità di chi intercetta il linguaggio di un Eroe contadino per cogliere dentro la sua stessa esistenza il principio fondante. Ma non solo. Il testo è forse rivelatore. La sostanza sostiene, sta sotto, ma l’esempio di Achille sembra indicare che essa è esposta alle vicissitudini del fato, che non sono altro che l’umano sperimentare il mondo in quella storia che “corre in tempo”. E si potrebbe continuare, stimolati dall’incessante ragionare di Vitiello, ma è pur necessario porre un punto fermo. Avrei qualche dubbio nel proporre, come fa l’autore, la tesi che Vico non distingue il piano della morale da quello della storia, «limitandosi a confrontare la logica della storia con la logica geometrica» (ivi, p. CXXVII). Ma potrebbe darsi che questa tesi faccia da premessa alla conclusione di tutto il saggio che punta sulla proposizione finale della “Scienza Nuova” che riporto qui: «In somma da tutto ciò che si è in quest’Opera ragionato, è da finalmente conchiudersi, che questa Scienza porta invisibilmente seco lo Studio della Pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio». Il commento di Vitiello è «Nelle parole finali dell’opera c’è…. un’umana, umanissima pietas per il mondo degli uomini, la storia. Pietas che eleva l’epistéme a phronesis, il sapere a saggezza» (ivi, p. CLXXII). Rivelatore passaggio di una linea di lettura che accompagna l’intero Saggio introduttivo e che in fondo staglia l’orizzonte dell’età nuova, nelle sue molteplici e ricchissime forme, intorno all’idea dell’irredimibile scissione che la accompagna, che non è però desolata visione di una impotenza, ma, al contrario, idea della necessità di un ripiegamento della stessa potenza, di un indebolimento del suo possibile arbitrio, di uno sguardo critico su un mondo che nell’eccesso di potenza sembra poter perdere il senso di sé.

9. È difficile che un vecchio “hegeliano” come il sottoscritto (che neanche Spinoza è riuscito a definitivamente persuadere) possa restar convinto, ma questa è cosa del tutto irrilevante rispetto al fascino e alla prospettiva che questo tipo di lettura del Moderno apre. Certo, i conti con Hegel restano sullo sfondo e, come si sa, sono conti che non finiscono mai. E aggiungo che anche gli autori che Vitiello legge nella sua linea coerente e originale sono passibili di una lettura diversa, come qua e là ho provato a mostrare. E che quindi le relazioni interne agli autori analizzati possano essere tutte diversamente pensate. Ma questo fa parte del leale dibattito fra amici che studiano filosofia e che non nascondono il dissenso con circonlocuzioni diplomatiche. Smobilitare la potenza può avere come conseguenza di allargare i vuoti che si aprono nel corpo della storia e del mondo. Hegel potrebbe richiamare forse il destino dell’anima bella, la sua volontà di non appartenere al mondo. Ma qui inizierebbe un altro discorso che non posso non lasciare nella penna.
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