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Germania e Italia: gli studi di Anna Maria Voci
di
Federico Trocini
Sin dai tempi di Tacito, il fitto intreccio di rapporti tra mondo latino e mondo germanico e, a partire da tempi più recenti e su scala più ridotta, tra Italia e Germania ha suscitato un costante interesse, sì da potersi ormai ritenere un oggetto classico dell’indagine storiografica. Nel quadro del contesto tematico poc’anzi richiamato, il primo dei tre lavori di Anna Maria Voci qui presi in considerazione – “Un anello ideale†fra Germania e Italia. Corrispondenze di Paquale Villari con storici tedeschi, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Biblioteca Scientifica, Serie II: Fonti, Vol. XCIV, Archivio Guido Izzi, Roma, 2006; Il Reich di Bismarck. Storia e storiografia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2009; La Germania e Cavour, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2011 – investiga una porzione cruciale nella storia delle relazioni tra Italia e Germania propriamente dette. L’indagine si concentra sulla figura di Pasquale Villari nella sua triplice dimensione di studioso, organizzatore e mediatore culturale e sull’esame del fitto scambio epistolare che egli intrattenne per oltre quarant’anni con alcuni tra le più autorevoli voci del mondo intellettuale tedesco, tra cui Theodor Mommsen, Otto Hartwig, Karl Hillebrand, Ferdinand Gregorovius e Alfred von Reumont. L’arco di tempo preso in esame ricade a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Si tratta del periodo segnato a fondo dal compimento del processo di unificazione nazionale italiana e tedesca, dal successivo rafforzamento dell’alleanza politicomilitare tra Roma, Berlino e Vienna, nonché, più in generale, dall’esaurimento di quella stagione culturale nel corso della quale un’intera generazione di intellettuali europei aveva aspirato a instaurare un fecondo equilibrio tra sentimento nazionale e solidarietà internazionale. All’interno di tale contesto rientrerebbe, secondo l’autrice, anche il consolidamento del mito del cosiddetto “modello culturale†tedesco, destinato a esercitare in Italia una durevole e profonda influenza. Influenza ampiamente testimoniata dall’auspicio formulato da un ormai settantacinquenne Villari, il quale, ancora nel 1903, non esitò a ribadire la permanente necessità di stringere con gli studiosi tedeschi «vere e proprie alleanze intellettuali», all’insegna di rapporti paritari e reciprocamente proficui. In realtà , lo storico italiano aveva iniziato a stringere tali alleanze intorno alla metà dell’Ottocento, quando, tra i primi in Italia, avvertì l’esigenza di stabilire un «legame spirituale» con la Germania, che, andando di pari passo con quello politico, permettesse un rinnovamento della cultura italiana e, insieme, un avvicinamento tra i due popoli. Favorito dalla disponibilità da parte del mondo culturale italiano a farsi permeare da quello tedesco, tale avvicinamento iniziò a manifestarsi come ammirazione verso il sistema universitario tedesco. E infatti, auspicando una graduale emancipazione della cultura italiana dalla sino ad allora preponderante influenza francese, già nel 1865, Villari riconobbe che nulla fosse «più utile all’Italia, che un rapido e continuo scambio di idee e di simpatie fra noi e la Germania». Fu dunque sotto la continua influenza della cultura tedesca che, secondo Anna Maria Voci, si compì la stessa maturazione intellettuale di Villari e, in particolare, il passaggio dal suo giovanile entusiasmo verso la scuola rankiana alla sua più matura adesione a una concezione della storia come strumento di pedagogia nazionale, sul modello della scuola di Droysen, Sybel e Treitschke. Se avvertì la necessità di un drastico rinnovamento del sistema universitario italiano sull’esempio di quello germanico, Villari fu tuttavia consapevole che ciò non potesse avvenire nei termini di un’imitazione pedante. E ciò per via degli stessi difetti della cultura tedesca, che egli non esitò a individuare nell’eccessiva tendenza all’astrattezza, nel borioso senso di superiorità , nel radicato e talora pregiudiziale sentimento antifrancese. Il volume non si limita però a prendere in considerazione solo il Villari ammiratore della cultura tedesca, il Villari critico dei suoi eccessi o il Villari che, in forza del proprio rilievo istituzionale, esercitò a lungo un’intensa opera di promozione culturale, destinata a concretizzarsi, tra l’altro, nella pubblicazione, tra 1907 e 1914, dei tredici volumi dei Regesta Chartarum Italiae. Al contrario, uno degli aspetti più interessanti che affiora dalle corrispondenze qui raccolte riguarda senz’altro il Villari “confidenzialeâ€. Quel Villari, cioè, che scambiò con i suoi omologhi tedeschi lucide osservazioni sulla situazione politica e sociale dell’Italia e della Germania di allora. In tal senso, a distinguersi per intensità sono soprattutto i carteggi con Otto Hartwig e Karl Hillebrand, che testimoniano sia un crescente disagio verso i mutamenti socio-culturali in atto nei rispettivi Paesi, sia un amaro senso di delusione verso quello che fu avvertito come un vero e proprio tradimento verso quegli ideali di libertà e quelle aspirazioni al rinnovamento morale che, prima del 1861 e del 1871, avevano ispirato intere generazioni di patrioti italiani e tedeschi. Secondo Hartwig, per esempio, le maggiori responsabilità di tale deriva erano da addebitare alla svolta autoritaria intrapresa da Bismarck nel 1878, all’indomani della quale la Germania era stata consegnata alla «dittatura degli Junker e dei preti». In sintonia con Burckhardt, Hartwig ritenne che Bismarck, dopo aver addomesticato politicamente i tedeschi, avesse trasformato lo Stato in un “nuovo leviatanoâ€, dominato da una classe politica conservatrice e militarista che avrebbe presto o tardi condotto la Germania alla catastrofe. Se tale fu il senso delle comuni riflessioni di Hartwig e Hillebrand sulla situazione politico-culturale della Germania post-unitaria, non meno pessimiste furono quelle sullo stato delle cose in Italia. Anche qui, infatti, altrettanto preoccupanti erano i segni di decadenza spirituale, riscontrabili soprattutto nella grave degenerazione del sistema politico, esposto agli opportunismi di parte, alla pratica sistematica del trasformismo e all’incapacità di venire a capo del divario sociale, economico e culturale esistente tra le diverse aree del Paese. In generale, secondo Hartwig e Hillebrand, la mancata saldatura, in Italia, tra risorgimento politico e risorgimento morale doveva essere rimandato all’eccessiva rapidità del processo di unificazione nazionale. In una lettera del 1882 spettò a Hillebrand esporre in termini netti la sostanza di tale parere: «La vostra grande disgrazia è stata la spedizione dei Mille. È duro dirlo a un Meridionale; ma voi siete sincero e coraggioso abbastanza per dirvelo voi stesso: l’Italia meridionale è il grande impedimento a uno sviluppo sano dell’Italia». È dunque soprattutto da questi scambi, talora segnati anche da reciproca diffidenza, che emerge tutto il valore delle corrispondenze di Villari raccolte in questo volume, il quale merita di essere preso in seria considerazione da tutti quegli studiosi interessati alla difficile ricostruzione dei tanti segmenti che, secondo le stesse parole di Hillebrand, comporrebbero l’«anello ideale» tra Italia e Germania.
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Il secondo e più recente lavoro di Anna Maria Voci mantiene rispetto al primo un rapporto di forte continuità tematica. Anche in questo caso il principale interesse dell’autrice ricade sulla ricostruzione del controverso nesso tra storia e politica. Se nel primo volume era stata ripercorsa con accuratezza una porzione significativa della storia dei rapporti tra Italia e Germania, qui, il fuoco delle analisi della studiosa si concentra però sulla sola Germania. In altre parole, mentre nel primo, sullo sfondo delle corrispondenze di Pasquale Villari, era stata messa in luce l’intensa partecipazione degli intellettuali italiani e tedeschi alla vita politica dei rispettivi Paesi, in questo secondo volume, prendendo spunto da alcuni noti lavori di Theodor Schieder e Friedrich Meinecke e richiamandosi indirettamente a uno dei temi cari a Pierangelo Schiera, è oggetto di approfondita rilettura il tema del rapporto peculiare tra Deutsche Wissenschaft e liberalismo nell’Ottocento. Ai capitoli centrali del volume, rispettivamente dedicati all’analisi delle modalità attraverso cui tale complesso rapporto fu declinato negli scritti di Friedrich Nietzsche, Karl Hillebrand, Karl Wilhelm Nitzsch e di Harry Bresslau, l’autrice accompagna un’ampia introduzione. Qui, prendendo le mosse dalla distinzione introdotta a suo tempo da Ludwig Häusser tra Historikers des Lebens, Historiker des Salons e Historiker der Stube e, più in generale, dalla polemica nei confronti della pura erudizione antiquaria, sono ripercorse le principali convinzioni teoriche di alcuni tra i più autorevoli esponenti della cosiddetta “scuola storica prussianaâ€. Secondo l’autrice, la specificità dell’opera di uno storico come Droysen coincise con l’esplicita volontà di porsi quale praeceptor politicus, cui compito preciso era den Staat in stetem Zusammenhange mit dem Gesammtleben der Nation, als dessen höchste irdische Blüthe zu begreifen. In virtù di tale proposito, nel periodo della loro massima influenza, cioè tra gli anni ’50 e ’70 dell’Ottocento, gli storici riconducibili della scuola prussiana, legati a riviste come i «Grenzboten», i «Preußische Jahrbücher» e la «Historische Zeitschrift», furono in grado di formare la coscienza di ampi strati della società tedesca. Oltre all’indirizzo esplicitamente politico delle loro opere e alla loro straordinaria capacità di orientamento dell’opinione pubblica, altra caratteristica di storici come Baumgarten, Häusser, Hillebrand, Waitz, Haym, Duncker, Sybel e Treitschke fu l’abbinamento peculiare tra una concezione della politica autenticamente liberale e, come tale, fondata sulla centralità del singolo individuo, e una concezione organica del progresso storico. Da qui la loro idea fondamentale secondo cui l’unificazione della Germania avrebbe potuto compiersi unicamente nel segno della monarchia prussiana e quale risultato di una graduale evoluzione storica, dotata di un’intrinseca razionalità ed eticità . Se da un lato, la sintesi tra storicismo e liberalismo rappresentò un fattore decisivo di emancipazione, dall’altro l’attribuzione di un superiore significato etico alla politica di potenza prussiana finì invece per tradursi nell’illusione secondo cui il rafforzamento dello Stato e dei suoi apparati sarebbe andato, una volta raggiunta l’unità , a vantaggio esclusivo della libertà e della Kultur. In altre parole, il grande auto-inganno in cui cadde la stragrande maggioranza degli storici della scuola borussa nei decisivi anni Sessanta coincise con la convinzione di carattere strettamente dottrinario, secondo cui l’auspicata sintesi ideale tra libertà e autorità potesse concretizzarsi nella realtà del nuovo Stato, nonostante e, se necessario, anche in contrapposizione alla Cäsarengestalt bismarckiana. E tale esito fu ritenuto tanto più inevitabile quanto più imminente sembrò essere la successione al trono del principe Federico Guglielmo – il futuro Federico III – con la quale sarebbe stata inaugurata una nuova stagione politica all’insegna dei valori liberali. Rispetto agli eventi cruciali degli anni Sessanta e alla successiva mancata evoluzione in senso liberale del Reich, il merito principale dell’autrice consiste dunque nell’aver messo in luce come la convinzione liberale circa l’inevitabile emarginazione politica di Bismarck fosse maturata a partire dall’idea hegeliana di una razionalità immanente alla storia, intesa come manifestazione di un continuo, benché apparentemente contradditorio, progresso. Secondo Anna Maria Voci, non sarebbe pertanto appropriato parlare di “tradimento†o di cedimento opportunistico dei liberali e degli storici prussiani. Al contrario, costoro ritennero che, solo aderendo al corso bismarckiano, avrebbero conferito maggior forza ai propri ideali. In questo senso, l’adesione da parte dei liberali alla politica bismarckiana non sarebbe perciò da interpretare nei termini di una conversione al realismo o di un rinnegamento dell’idealismo, quanto piuttosto nei termini di quella che, ai loro occhi, risultava essere la più compiuta traduzione pratica delle proprie aspirazioni ideali. La consapevolezza circa l’inconsistenza di tale speranza non fu tuttavia immediata. All’indomani del 1871, Baumgarten, Sybel, Treitschke e Hillebrand salutarono entusiasticamente la costituzione del nuovo Stato, giudicandola quale risultato necessario dell’evoluzione intrapresa sin dai tempi di Lutero. Salvo casi isolati – si pensi al pessimismo delle Considerazioni inattuali di Nietzsche cui, peraltro, sono qui dedicate pagine di intensa meditazione – solo successivamente subentrò un senso di profonda delusione abbinato a un altrettanto profondo senso di smarrimento, che si tradusse, per molti storici, in un progressivo allontanamento dall’arena politica. Fu sul finire degli anni Settanta, in coincidenza con la svolta protezionistica intrapresa da Bismarck, che avvenne la definitiva separazione tra liberalismo e storicismo. Separazione, che costituì una delle ragioni in base alle quali il Reich non riuscì a portare a compimento la propria evoluzione in senso liberale e la cui responsabilità , secondo l’autrice, ricadde in buona parte proprio sugli storici della scuola borussa.
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Tornando al tema dei rapporti tra Italia e Germania, nel suo ultimo lavoro, Anna Maria Voci si propone due obiettivi ambiziosi. Da un lato colmare una lacuna nella storiografia su Cavour, dall’altro contribuire a un più approfondito riesame della fortuna del Conte in Germania, seguendone l’andamento nel corso delle differenti stagioni politiche. Lo spunto fondamentale alla base di questo studio coincide con la domanda che, nel settembre 1860, Cavour rivolse a Friedrich Geffcken e che questi riportò allo storico liberale Max Duncker, allora a capo dell’ufficio stampa del Governo prussiano: «Cavour non ha avuto nessuna difficoltà ad ammettere che la Prussia, assieme all’Inghilterra, siano gli alleati naturali della Sardegna, ma, mi ha chiesto, cosa si può fare con questa gente?». Finora, a dispetto delle periodiche rielaborazioni cui è andata incontro nel corso dell’Otto e del Novecento, l’idea della presunta “naturale alleanza†tra Prussia e Piemonte – destinata a tradursi nella suggestiva tesi del parallelismo storico tra Italia e Germania – non è stata oggetto di accurati approfondimenti. Altrettanto può dirsi per l’attenzione che, a partire del 1858, Cavour rivolse nei confronti della Prussia. Attenzione che, largamente oscurata da quella rivolta a Francia e Gran Bretagna, è stata perlopiù ritenuta occasionale o giustificata in termini di mero opportunismo, mentre, al contrario, rientrò nel quadro di una precisa e coerente strategia politica. Il merito principale di questo lavoro consiste nel dimostrare proprio questo e cioè: che l’idea, già avanzata negli anni Quaranta da Balbo e Gioberti, secondo cui Prussia e Piemonte condividessero un’analoga missione storica e un comune interesse consistente nella necessità di combattere il predominio austriaco, fu sviluppata da Cavour in risposta a due precise esigenze. La prima coincise con la possibilità , all’indomani dell’affermazione dei liberali alle elezioni prussiane del 1858 e dell’avvio della neue Ära, di costituire a livello europeo un ampio fronte liberale, basato sulla convergenza di valori e obiettivi tra Piemonte, Prussia e Gran Bretagna. La seconda, invece, con l’ipotesi di trovare, all’indomani della pace di Villafranca, un alleato alternativo alla Francia bonapartista. Attraverso la progressiva sovrapposizione di queste due esigenze sarebbe dunque possibile, secondo l’autrice, spiegare le ragioni a monte del crescente interesse con cui, tra 1858 e 1860, Cavour orientò il proprio sguardo verso Berlino. Nonostante l’intensificarsi dei contatti diplomatici, il rapporto tra Cavour e i suoi interlocutori tedeschi restò però segnato da numerose incertezze e diffidenze. Condizionato a fondo da un insufficiente grado di conoscenza reciproca, esso oscillò tra continui avvicinamenti e allontanamenti, senza riuscire a tradursi in quel matrimonio d’interessi che, di lì a poco, sarebbe stato invece consumato sulla base di una piattaforma non più liberale, ma realpolitisch. E, soprattutto, che avrebbe avuto come principale celebrante non più Cavour, ma Bismarck. Se già nella prima parte del libro l’indagine non si esaurisce unicamente sul piano della storia diplomatica, ma, al contrario, si traduce in un esame di importanti segmenti del pensiero politico in Italia e in Germania, nella seconda l’autrice prosegue per questa via, ripercorrendo la fortuna di Cavour in Germania attraverso i suoi principali interpreti. L’analisi prende le mosse dal celebre saggio del 1869 di Treitschke e da quello meno noto, ma altrettanto significativo di Rochau, nel quale Cavour fu assunto a modello politico polemicamente alternativo a quello bismarckiano. Passando per quello del 1902 del teologo cattolico Franz-Xaver Kraus e quello del 1936 di Ulrich von Hassel, l’itinerario ricostruito dall’autrice giunge fino ai giorni nostri con l’esame del libro di Peter Stadler (2001). Individuando nel testo treitschkiano i motivi tipici di quella che avrebbe costituito non solo l’immagine canonica di Cavour in Germania – Realpolitiker capace di far conseguire al liberalismo europeo l’unica grande vittoria di cui poter vantarsi nel XIX secolo – ma anche l’essenza di tutte le successive discussioni inerenti ai maggiori problemi del nuovo Stato – primi fra tutti il rapporto tra centro e periferia e quello tra Stato e Chiesa –, Anna Maria Voci ripercorre dunque l’evoluzione della sensibilità politica tedesca in relazione alle questioni italiane e, per questa via, riesce infine a riportare alla luce anche importanti aspetti della Weltanschauung tedesca tra Otto e Novecento. Il risultato finale è un altro volume meritevole di attenzione, non solo per l’accuratezza con cui sono ricostruiti lo scenario internazionale di allora e il complesso rapporto tra la cultura politica tedesca e quella italiana, ma anche per i molti spunti che, grazie a fonti sinora inesplorate o del tutto inedite, lo rendono il lavoro maggiormente innovativo nel più recente panorama degli studi su Cavour.
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