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Il dopo Berlusconi
di G. G.
Auspicavamo nell’editoriale del precedente numero della nostra rivista che la politica italiana andasse al più presto possibile oltre Berlusconi, giudicando già eccessivo che una vicenda da considerare esaurita innanzitutto in se stessa continuasse a bloccare il paese intorno a un problema indubbiamente rilevante, e connesso a molti altri importanti problemi, ma che non poteva perpetuarsi, come è andato accadendo negli ultimi anni, senza un danno progressivamente più grave di tutta la vita italiana.
Auspicavamo, perciò, una sinistra e la stessa destra emancipate dall’incombere di un’ombra di Banco, che aveva perduto in questi stessi ultimi anni una gran parte, per non dire la parte maggiore, delle serie ragioni che avevano determinato le fortune politiche di Berlusconi dal 1994 a oggi. Certamente sarebbe stato di gran lunga preferibile che questo superamento avvenisse per le vie ordinarie del confronto e della lotta politica. Già, però, quando scrivevamo questo, era incombente l’esito del processo che il 1° agosto ha di fatto escluso Berlusconi dal quadro ufficiale della politica italiana. E questo non tanto e non solo per l’interdizione
ad tempus dai pubblici uffici, ma perché i condannati a pene superiori a un certo limite non sono più eleggibili al parlamento né designabili a uffici pubblici. Se poi vi si aggiunge che una sorte giudiziaria anche peggiore attende, con tutta probabilità, Berlusconi nei prossimi tre o quattro processi che lo riguardano, ben si comprende che la sua esclusione dal “palazzo” può considerarsi, a questo punto, tutt’altro che temporanea. Si è prodotta per via giudiziaria, e ripetiamo che sarebbe stato meglio un diverso cammino, ma ormai quella esclusione c’è, e non si può che prenderne atto.
Non si può. Ma dobbiamo subito –
italico more – correggerci. Dobbiamo, infatti, dire: non si dovrebbe. Immediatamente si è avuta, infatti, una reazione molteplice e complessa di Berlusconi e del suo partito alla drastica conseguenza politica del verdetto di agosto. Lasciamo stare le argomentazioni con le quali questa reazione è stata sviluppata. Argomentazioni a dir poco estremamente discutibili. Tutte, più o meno, finivano col girare intorno a questo asse: Berlusconi ha partecipato ripetutamente alle elezioni, ottenendo il suffragio di milioni e milioni di italiani; un tale consenso elettorale crea di per se stesso una legittimazione che non può essere inficiata da un esito processuale, quale che sia.
Argomentazione singolarissima. A renderla poco recepibile – se non vi fossero validi e molteplici elementi intrinseci, sia di merito che di forma – basterebbe il confronto con analoghe questioni presentatesi in altri paesi europei, e dei maggiori. In Francia, un presidente della Repubblica, Jacques Chirac, incriminato durante il suo secondo mandato presidenziale, ottenne, è vero, una speciale immunità la cui scadenza venne fissata a un mese dopo la conclusione del suo incarico presidenziale; e, scaduto tale termine, dovette affrontare il procedimento sollevato contro di lui, dal quale uscì condannato in modo da escluderne ogni ulteriore partecipazione alla vita pubblica (anche se poi il suo decesso tolse senso a questa, comunque, vigente sanzione). In Germania, un cancelliere del peso di Helmut Kohl, al governo per sedici anni, vero promotore e realizzatore della riunificazione delle due Germanie uscite dalla guerra, e, dunque, personalità di rilievo storico e di meriti civici e patriottici al di sopra di qualsiasi discussione, fu anch’egli sottoposto a un processo, il cui esito, per quanto non comportasse pene detentive, lo escluse di fatto dalla vita pubblica del paese da lui riunificato. Nella stessa Germania, più recentemente, la stessa sorte giudiziaria è stata riservata a un presidente della Repubblica in carica, Christian Wulff. E nessuno in questi casi, che non sono i soli da potersi citare, ha seriamente parlato di derogare
ad personam alle norme del codice penale vigente.
Altre argomentazioni pro Berlusconi riguardano l’equità e la terzietà del giudizio pronunciato contro di lui. Si insiste nel richiamare la quarantina di processi ai quali egli è stato sottoposto dal 1994 in poi; si parla di vera e propria persecuzione giudiziaria mossa contro di lui da una parte politicizzata e faziosa della magistratura; di assenza di serenità e normalità nelle procedure seguite specialmente in alcuni dei suoi processi e di inconsistenza o delle figure di reato addebitategli o delle prove addotte a suo carico; di discutibilità della figura di alcuni magistrati che lo hanno giudicato; e così via. Si tratta, come si vede, di argomenti che, bisogna riconoscere, riguardano il diritto alla difesa di qualsiasi imputato in qualsiasi processo, ma che essi possano avere traduzioni valide e concrete dopo una sentenza passata in giudicato appare difficile da sostenere anche a chi, profano di diritto e di giurisprudenza, volesse spezzare una serie di lance a favore di chiunque si trovi in condizioni giudiziarie come quelle di Berlusconi.
Dopo di che, si è passati a rivendicare la necessità di un pronunciato della Corte Costituzionale sulla legittimità di una decadenza di Berlusconi dal suo attuale mandato senatoriale, come ritenuto possibile anche a parere di alcuni giuristi interpellati per l’occasione dalla parte in causa. Su questa possibilità si è concentrato tutto il dibattito politico italiano della fine di agosto, in attesa che la competente Commissione del Senato adotti, al riguardo, la decisione che ad essa tocca. Si è, inoltre, anche prospettata la questione se la legge che sancisce la decadenza dal mandato parlamentare e la incandidabilità o ineleggibilità dei condannati a determinate pene, essendo posteriore alla data del reato ascritto a Berlusconi, possa valere, da questo punto di vista, retroattivamente, o se la sua applicazione va riferita alla data della sentenza definitiva di un giudizio, che in questo caso è posteriore rispetto alla data di entrata in vigore della legge. Una questione giuridica davvero – si sarebbe detto una volta – “elegante” di procedura e di merito, che il Senato o la Corte Costituzionale dovrebbero a questo punto sciogliere senza possibilità di equivoco. E, finalmente, si è pure prospettata da parte di Berlusconi la possibilità, in ultima istanza, di un suo ricorso alla Corte di Giustizia europea, evidentemente nella presunzione di una violazione, a suo danno, di indiscutibili diritti politici. Che sarebbe un bel vedere, se mai comportasse un pronunciato di quella Corte a favore di Berlusconi.
Si vedrà. Sulle conseguenze immediate della sentenza del 1° agosto non sapremmo esprimerci così a ridosso del fatto stesso. Si dovrebbe tendere a escludere che questo comprometta definitivamente la sorte del governo Letta, indubbiamente rafforzato anche dalla soluzione del problema della tassa sugli immobili (l’IMU). Si dovrebbe! Ma la politica italiana è spesso capricciosa, e riserva a volte conseguenze immediate anche quando si tratta di conseguenze che non si producono alla data del fatto a una breve distanza da esso. E per ciò è meglio forse chiedersi qui, nella misura del possibile, le conseguenze ipotizzabili a meno breve scadenza.
Una può essere ravvisata in un sobrio ma deciso accenno che, nell’ineccepibile e importante (anche se inconsueto e, anzi, proprio perché inconsueto), commento del Presidente della Repubblica alla sentenza della Cassazione la sera stessa del 1° agosto. Quel commento ci sembra, infatti, dire che l’ora di una soddisfacente riforma della giustizia in Italia non è più procrastinabile. Lasciamo stare anche qui le non esplicitate premesse (del resto, non difficili a immaginarsi) di un tale messaggio. Decisivo è che al massimo livello istituzionale del paese la riforma della giustizia non è affatto considerata materia di destra a certi discutibili fini o materia di sinistra a certi altri discutibili fini. È considerata, qual’è, un’esigenza oggettiva e strutturale dell’attuale stato, vissuto e reale, dell’ordinamento italiano, che non può protrarsi senza provocare danni ancora più gravi di quelli già in corso, e già anche vicini alla soglia critica o di una implosione o di una paralisi del sistema politico italiano: opinione che, a quanto ci risulta, è condivisa all’interno della stessa magistratura più di quanto non si creda. E, se una riforma così necessaria non si fa quando i due maggiori partiti,
bon gré mal gré, compongono la maggioranza parlamentare e partecipano al governo, quando lo si potrà fare con una minore probabilità di contrapposizioni laceranti e irrecuperabili?
Un’altra prospettiva riguarda il fronte antiberlusconiano, che non è facile prevedere se, con l’eliminazione del suo principale collante politico, rappresentato da un bersaglio così esposto a critiche anche pregiudiziali quale è stato ed è Berlusconi, potrà mantenere tutte le convergenze che ha realizzato in questi anni. L’interrogativo riguarda in primo luogo il partito democratico, come tutti i
media largamente e ripetutamente osservano, ma non riguarda soltanto questo partito. Su questo fronte lo sviluppo degli eventi potrebbe anche protrarsi alquanto più avanti nel tempo, così come potrebbe anche precipitare d’un tratto sotto l’urgenza di questioni come quelle della sorte del governo Letta o della segreteria e dei rapporti interni del partito democratico, che, comunque, più di qualsiasi forza politica è investita dal problema.
Né si può dimenticare che, per quanto di minore consistenza rispetto all’area coperta dai due maggiori raggruppamenti, anche altre forze politiche agiscono in Italia. La maggiore, ossia il Movimento 5 Stelle, continua, però, a non dare segni di grande inventiva e capacità politica, dopo il grande
exploit elettorale che lo ha costituito come terza forza politica del paese. A parere di tutti addirittura discreditante è stato, poi, il dietrofront col quale Grillo ha invocato con urgenza le elezioni con la stessa legge elettorale vigente, da lui qualificata fino ad allora come una vera vergogna nazionale, tale da potere e dovere costituire la prima materia di attività parlamentare e di governo, soltanto dopo aver provveduto alla quale il Parlamento si sarebbe potuto sciogliere e si sarebbe potuto passare a nuove elezioni. E perché un tale dietrofront? Perché (dicono i soliti malpensanti, che si rifanno ad Andreotti: a pensar male si fa peccato, ma molto spesso si indovina) Grillo avrebbe sperimentato che i suoi attuali gruppi parlamentari non si sono rivelati del tutto affidabili e proni ai suoi voleri com’egli credeva; col mantenimento della famigerata legge elettorale attuale egli avrebbe, invece, la possibilità di designare candidati quali egli li vuole, suoi obbedienti strumenti in Parlamento. Sarà! Ma anche questo serve a dare un’idea dello stadio attualmente attraversato dalla politica italiana.
A destra il problema è relativamente più semplice, poiché si riassume tutto nell’interrogativo di quel che sia o possa essere una destra senza Berlusconi. Più semplice, ma ovviamente ciò non vuol dire più facile o di più rapida soluzione. Su questo problema noi ne vediamo, peraltro, primeggiare di gran lunga un altro. E, cioè, se davvero l’esclusione dai pubblici uffici e cariche significhi pure, per Berlusconi, la impossibilità di proseguire l’attività politica o una rinuncia ad essa. Le prime dichiarazioni dell’interessato sembrano escludere del tutto, e in via definitiva, ogni rinuncia. L’impossibilità, chiaramente, non sussiste. Anche un detenuto può svolgere attività politica, rientrando questa nei diritti inalienabili della cittadinanza, cui si possono mettere soltanto i limiti che già vi sono per l’esercizio di uffici e cariche pubbliche.
Non è detto, quindi, né che possiamo avere una destra senza Berlusconi, né che possiamo avere un berlusconismo senza Berlusconi. Può pure darsi, a questo punto, che abbiamo un berlusconismo con un altro Berlusconi. Anche se l’interessato potrebbe oggi non rendersene conto, altro è, infatti, fare politica nelle condizioni in cui egli l’ha fatta finora, altro è farla nella condizione di una personalità e di una presenza pubbliche dimidiate.
Una grande personalità politica, congiunta a tenacia di propositi e a chiarezza e novità di idee, può certamente consentire anche in siffatte condizioni dimidiate un’azione di grande profilo, e finanche una grande parte storica. Berlusconi dimostrerà una tale personalità? Nessuno, crediamo, può escluderlo. L’uomo fece sorgere dal nulla, nel 1994, e nelle condizioni politiche più avverse, una forza politica che è durata, si è dimostrata vitale e ha avuto l’importanza che tutti sanno nell’Italia degli ultimi venti anni, in cui egli ha interpretato esigenze oggettive e importanti della società nazionale. La possibilità in via di principio è, dunque, indubbiamente, innegabile. Occorre, però, pensare e agire in grande,e disporre di una destra moderna così animata sarebbe un sicuro guadagno anche per il paese, che finora, con tutte le fortune di Berlusconi, una tale destra non l’ha avuta. E, per la stessa ragione, quindi una destra, anche vivace, ma di sola ripicca o di mero presenzialismo non gioverebbe allo stesso Berlusconi, e, soprattutto, e di gran lunga di più, non gioverebbe al paese.
Il dopo Berlusconi si prospetta, insomma, già al più immediato livello politico, tutt’altro che semplice e scontato, come pure abbiamo sempre osservato. Bisognerà vedere chi e come svolgerà la parte positiva assolta finora da Berlusconi rispetto alla società italiana, nonostante e al di là degli enormi e condizionanti vincoli di ogni genere, innanzitutto personali, che hanno limitato questa parte positiva. Bisognerà vedere se dal panorama ancora confuso delle opposizioni a lui emergeranno finalmente disegni politici e guide all’altezza dei loro compiti, che finora non si sono visti. Bisognerà vedere il tipo di azione politica che il dimidiato Berlusconi avvierà (resistendo anche, magari, a qualche tentazione dinastica – si è parlato della signora Marina, sua figlia – che fosse di semplice comodo e schermo). Bisognerà vedere quali saranno per essere gli sviluppi generali del quadro europeo e globale. Troppe cose per azzardare profezie, o anche solo timide previsioni. Non troppe, invece, per ribadire con forza che il dopo Berlusconi non è – per il paese, per la classe politica e la classe dirigente, per tutti gli italiani – un sentiero più facile e più ameno del precedente. Anzi!



P. S.1, – Scriviamo queste note all’inizio di settembre. Ciò che vi si dice e vi si contempla potrebbe essere anche radicalmente modificato dagli eventi successivi dello stesso mese. Ma, crediamo, è, intanto interessante fissare lo stato delle questioni quale risulta alla predetta data. Se vi saranno, si potranno, infatti, al confronto, meglio apprezzare le modificazioni venture.


P. S.2, – LE NOMINE SENATORIALI DI NAPOLITANO – Alla fine di agosto sono anche sopravvenute le nomine di quattro senatori a vita, alle quali il presidente Napolitano ha proceduto avvalendosi di un preciso disposto costituzionale che gliene dava facoltà.
Il profilo di merito dei quattro nominati è tale da non consentire riserve circa la qualità delle nomine, così come non ne consentiva il potere presidenziale di nomina. La politica entra, però, dappertutto, come si sa, a proposito e a sproposito, ha i suoi diritti, e nemmeno l’eventuale eccesso dei commenti a nomine di alta qualità e all’esercizio dell’indiscutibile potere presidenziale di effettuarle può essere disconosciuto o negato nella sua legittima possibilità. È questione, naturalmente, di misura; ed è questione, soprattutto, di pertinenza e di fondatezza degli argomenti di critica che si adducono nella discussione.
In questo caso gli argomenti usati a motivo di critica alla decisione di Napolitano sono stati i più varii. Perché procedere alla nomina di senatori a vita quando i progetti di revisione costituzionale di cui si parla sembrano nettamente orientati verso l’istituzione di un Senato federale, ossia di un Senato formato su basi e per vie regionali, nel quale non è chiaro se e come possa essere eventualmente introdotta la figura dei senatori a vita? Questo è stato l’argomentomento-principe di quelli della Lega Nord. Quelli del Movimento 5 Stelle hanno, invece, criticato l’esercizio del potere di nomina da parte del presidente Napolitano, perché lo considerano un presidente
ad tempus che dovrebbe essere, per ciò, molto più discreto nell’avvalersi dei suoi poteri; e hanno, inoltre, criticato l’aumento dei costi del Senato per indennità e altri diritti dei neo-nominati e la formazione di cinque canonicati di cui non si sarebbe sentita la necessità. Quelli del centro-destra hanno, a loro volta, criticato il fatto che i nuovi senatori sarebbero notoriamente orientati a sinistra, sicché la loro nomina si tradurrebbe, di fatto, in un cospicuo aiuto al centro-sinistra, che al Senato non ha, come è noto, la maggioranza che ha nella Camera dei Deputati, e che con queste nomine vedrebbe ridotto di molto questo suo svantaggio, che, come si sa, è stato determinante negli sviluppi della situazione politica italiana dopo le elezioni del 2013.
Proprio nella scia di quest’ultimo tipo di commento è stata, poi, tanto diffusa da risultare prevalente nei commenti politici al fatto l’opinione che le nomine senatoriali di Napolitano siano il preludio a un suo disegno di evitare le elezioni anche se, in conseguenza delle vicende giudiziarie di Berlusconi, il governo Letta dovesse cadere, investendo un altro uomo politico dell’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri per formare un nuovo governo e riducendo così per Berlusconi e per quelli della destra il vantaggio dell’arma costituita dalla maggioranza in Senato, che è stata finora la loro carta vincente in questa Legislatura. Sarebbe, anzi, già sicuro chi sarebbe il nuovo designato del presidente della Repubblica. Si tratterebbe, infatti, precisamente dello stesso Letta, che si troverebbe a presiedere così un nuovo governo, che sarebbe un governo del Presidente ancora di più di quanto si diceva e si dice che sia stato il governo Monti.
Se tutta questa dietrologia fosse fondata, Napolitano avrebbe pesantemente interferito anche con le vicende interne del Partito Democratico. Letta si troverebbe, infatti, posto
ipso facto in posizione di grande vantaggio rispetto a ogni altro candidato sia a presiedere il governo che a guidare quel partito. E, d’altra parte, nessuno può negare, lo ripetiamo, il diritto pure all’esercizio della dietrologia, anche se questo esercizio fosse semplicemente un’arma di speculazione politica.
Nel caso di cui parliamo ci sembrano, tuttavia, nettamente superati i limiti sia della misura che della pertinenza. Intanto, diritto per diritto, nessuno può negare neppure i diritti di Napolitano, che non sembra, invero, violare in nulla né la lettera, né lo spirito della Costituzione. Del resto, se lo si ritiene reo di tali violazioni, il Parlamento ha l’arma, anch’essa costituzionale, della messa in stato di accusa del Presidente per una tale gravissima impertinenza. Nessuno lo ha neppure accennato, e, francamente, non crediamo che ciò sia dovuto soltanto a senso di responsabilità politica e civica.
Può darsi, invece, che l’inasprimento delle posizioni politiche dei contendenti dopo quelle nomine al Senato sia stato dovuto anche a timori e disegni che quelle nomine potrebbero aver eccitato. Se, però, così fosse, non sarebbe, forse, meglio per tutti che tale inasprimento rapidamente si stemperasse e che si tornasse a una più ragionata, se non più pacata, dialettica politica?
A noi pare proprio sarebbe il caso.
Pas trop de zèle, diceva quel tale, ed è un consiglio politico che non sempre può essere accettato, ma che merita di essere tenuto sempre presente.
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