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Aspetti dei rapporti fra Italia e Spagna nei secoli XVI e XVII*
di Giuseppe Galasso
Gli Spagnoli – notava Tommaso Campanella nelle sue Consultationes aphoristicae del 1635, e dunque già della fase filofrancese e antispagnola del suo pensiero politico – «prae superbia nolunt hispanizare nationes sicut Romani romanizabant»1. In questa voluta riluttanza a ispanizzare il frate calabrese ravvisava la ragione della diminuzione del potenziale demografico spagnolo. La romanizzazione dava a Roma masse di nuovi cittadini e quindi di soldati; la Spagna, per volersi mantenere sempre spagnola con l’esclusività del suo status nazionale, disponeva sempre soltanto dei suoi abitanti, che per varie ragioni andavano diminuendo2. E poiché per Campanella «monarchia Hispaniae non modo non hispanizat, sed non thesaurizat», essa si ritrovava in condizioni sempre meno felici3.
La limitazione campanelliana del significato di questa contrapposizione della Spagna a Roma ha un senso del tutto particolare. Può essere, però, un buon avvio alla considerazione dei rapporti che per un paio di secoli corsero fra le due penisole mediterranee al di là di quello vigente sul piano politico, determinato dalla sovranità spagnola su buona parte dell’Italia e da un’ampia egemonia ispanica sull’intero spazio italiano. Risulta già comprovata nella consapevolezza dei contemporanei la piena autonomia culturale e linguistica che, nell’ambito dell’impero dei sovrani iberici, fu la regola, fin dall’inizio, in tutti i paesi europei, in contrasto con le ben note caratteristiche di tendenziale e piena assimilazione, fino all’estinzione delle culture indigene, che il domino spagnolo ebbe nei paesi transoceanici4. Il castigliano entrò a far parte delle lingue più conosciute e parlate fra le classi colte dell’Europa di allora, come il latino e lo stesso italiano; e in Italia lo si parlò, forse, più largamente che in altri paesi europei5. Ciò non fu mai dovuto a un’imposizione istituzionale dei nuovi sovrani. Fu, invece, un frutto naturale della potenza politica di un impero quale non si era mai visto di comparabile estensione in tutto il mondo; una naturale conseguenza della presenza in Italia di tanti funzionari, soldati, uomini d’affari, ecclesiastici, privati cittadini di ogni condizione sociale, che venivano dal paese dominante, dando origine a quella ricca serie di cognomi ispanici che, specie in alcune regioni, è rimasta poi a caratterizzare l’onomastica italiana.
D’altra parte tutta la rete di tali relazioni non nacque solo con il fiorire della potenza imperiale ispanica nel secolo XVI. I rapporti fra le due penisole si erano fatti stretti e continui ben prima, con il fiorire della potenza catalana e l’apogeo mercantile e marinaro di Barcellona nel quadro mediterraneo6. Declinato l’astro catalano, con la monarchia dei successori di Ferdinando il Cattolico quei rapporti divennero molto più intensi. Lo divennero a tal punto da far dire a Croce – al quale rimane il merito storico di aver segnato una svolta e condotto approfondimenti decisivi nella storia dei rapporti fra Italia e Spagna dal secolo XV al XVIII7 – che «Spagna e Italia vissero per oltre due secoli vita quasi comune per effetto e del dominio territoriale e della egemonia politica spagnuola nel nostro paese»; e allora «lingua e costumanze di Spagna, e alcune parti della sua letteratura, vigevano tra noi, come lingua, letteratura e costumi nostri in Ispagna»8. Che questa interrelazione si trasformasse in una vera e propria simbiosi, non si può, tuttavia, dire. La vita culturale di ciascuno dei due paesi proseguì sulle direttrici che nel rispettivo ambito erano già evidenti alla fine del secolo XV, prima che iniziasse l’epoca dell’apogeo imperiale spagnolo, e la cresciuta intensità dei rapporti non si trasformò mai in un connubio.
Una koiné italo-spagnola dal punto di vista culturale non vi fu, quindi, se non in senso particolare ed entro limiti cospicui e facilmente percepibili. Per questo aspetto, il confronto con l’antica Roma, così baldanzoso su altri piani per l’estensione e la potenza dell’impero di Madrid, non fu mai neppure tentato. E ciò senza togliere nulla al fatto che all’intensità dei rapporti italo-ispanici di governo civile e militare si accompagnarono relazioni culturali e artistiche che, dati quei rapporti, furono più rilevanti e diffuse che con altri paesi e culture europei.
Si ha da questo punto di vista addirittura l’imbarazzo della scelta. Tuttavia, due luoghi comuni sono da individuare come pregiudizi da dissolvere in via preventiva. Il primo è che, in generale, per vecchie convinzioni di tutta la cultura europea fino a non molto tempo addietro, i bilanci delle relazioni culturali tra l’Italia e gli altri paesi europei, la Spagna innanzitutto, si pongano solo, o in maniera dominante, in termini di esportazione e influenza italiana; e ciò perché nel periodo della grandezza politica spagnola si ebbe anche il culmine della civiltà italiana del Rinascimento, con i suoi prolungati effetti e risonanze in Europa. Il secondo è che in Spagna il tempo della massima grandezza politica, per quanto abbia coinciso con un periodo di splendore culturale, si sia, in effetti, tradotto in una vita intellettuale che si presume afflitta non solo dalla politica della monarchia, dall’Inquisizione e dalle chiusure ecclesiastiche e religiose, ma anche da fattori sociali limitativi e pregiudizievoli.
Per il primo punto è forse più facile ricordare che le importazioni culturali in Italia nel Rinascimento non solo non mancarono, ma in più casi furono anche di rilievo9. I nomi più grandi della cultura europea di allora non sono affatto tutti e soltanto italiani. Ci limitiamo qui a ricordare l’olandese Erasmo, il polacco Copernico, il francese Michel de Montaigne, l’inglese Francis Bacon. Inoltre, un ‘secolo d’oro’ si dipana allora in tutte le letterature europee, e non sempre con grandi sfasature temporali, presentando ovunque nomi fra i maggiori delle rispettive letterature10. Nella vita religiosa ciò appare particolarmente evidente. Prima che si diffondano gli echi grandiosi e profondi del pensiero di Lutero o di Calvino, lo spagnolo Juan de Valdés segna un momento di penetrazione di idee rilevanti di riforma religiosa, molto partecipate in Italia. Più tardi non furono minori le ripercussioni di un altro importante movimento culturale spagnolo, la cosiddetta Seconda Scolastica, il cui influsso si fece sentire non solo sul pensiero filosofico-religioso, bensì anche in vari e disparati campi del sapere, come il diritto e l’economia11. La vita intellettuale europea del Rinascimento non è insomma un esclusivo monopolio italiano, ma è – come sempre – il teatro di attivi scambi tra i suoi molteplici protagonisti, anche se di volta in volta, come accade con l’Italia del Rinascimento, qualcuno di essi predomina e contrassegna un’intera epoca. E in questo coro europeo la parte della Spagna negli scambi culturali con l’Italia non è per nulla secondaria.
Sul secondo punto è sempre alquanto diffusa la già accennata idea, ricorrente ancora di più in opere per la scuola o di divulgazione, secondo la quale nel rapporto tra grandezza politica e livello della vita intellettuale della Spagna imperiale non solo non vi sarebbe corrispondenza, ma si avrebbero anche aspetti paradossali. Il corso della vita letteraria e, soprattutto, artistica avrebbe avuto, in quest’ottica, una netta prevalenza, per qualità e forza delle sue realizzazioni, sugli sviluppi della vita scientifica, tecnica, e anche filosofica, giuridica e di altre sezioni dello scibile. Non discutiamo qui la fondatezza del carattere di paradossalità ravvisato in questo più o meno presunto contrasto tra il corso e gli sviluppi dell’uno e dell’altro campo. Ci limitiamo a osservare che si avrebbe, così – per quanto riguarda lo svolgimento della personalità storico-culturale della Spagna – quasi una sorta di anticipazione di quella distinzione separatrice e generale tra le ‘due culture’, l’umanistica e la scientifica, di cui ha molto discusso anche il secolo XX e si discute ancora oggi12. Notiamo piuttosto che le spiegazioni di un tale dualismo culturale sono state molteplici, quasi a provare che lo sviluppo della vita intellettuale spagnola non fu un fenomeno particolare, settoriale, ma una vicenda in profonda, intima connessione con tutta la vita politica e sociale del paese.
La più interessante di queste spiegazioni è forse quella che si riferisce alle generali condizioni politico-sociali caratteristiche della Spagna in epoca rinascimentale e post-rinascimentale. È stato detto, ad esempio, che la prevalenza aristocratica nella società spagnola del secolo XVII «non aveva bisogno del progresso tecnico e scientifico e non sapeva profittarne, e, invece, avallava vecchie strutture politiche e ideologiche». Perciò «le arti e le lettere partecipano, in questa situazione, a una società di “ordini” [o ceti, o classi] e sclerotizzata», e quindi – pare di poter dedurre – si giovano di questa partecipazione per la loro fioritura. Invece, «le deboli istituzioni scientifiche, che nascono nel secolo XVI, si estinguono per mancanza di sensibilità» al riguardo. Sopravvivono la Chiesa e le Università, che «mantengono il loro tradizionale scolasticismo», ma esse sole «si sostengono in un mondo che sprofonda». La stessa fioritura di lettere e arti si potrebbe «spiegare come sopravvivenza di tempi migliori», e questo «fino all’ultimo con Calderón de la Barca e il suo teatro»13.
La situazione generale della Spagna, con la mancanza di libertà, per la pressione dell’Inquisizione e della monarchia, e con le sue condizioni sociali, spiegherebbe, quindi, l’arretramento culturale del paese rispetto all’Europa del secolo XVII. Che questo poi basti a individuare quei «livelli profondi» nei quali andrebbe ricercata la «spiegazione»14, è chiaramente tutt’altro discorso.
Indugiamo qui su questi elementi interpretativi della storia spagnola nei secoli XVI-XVII perché, in sostanza, non diversi sono gli elementi interpretativi più diffusi nel caso dell’Italia post-rinascimentale. Anche per l’Italia si parla, com’è noto, di una sclerotizzazione sociale, di un’azione compressiva da parte dei poteri statali, della Chiesa e delle classi dominanti, e di una generale ‘decadenza’15.
Nella vistosa rassomiglianza delle due situazioni e del loro decorso sono peraltro ben chiare le diversità di struttura e sviluppo. In Italia non vi è l’unità politico-dinastica che distingue la Spagna, né l’Inquisizione di tipo spagnolo. La società sclerotizzata è solo in parte di origine e tradizione feudale, mentre in larghissima parte è una società di antica ascendenza urbana e mercantile o manifatturiera. Il movimento della cultura e delle arti è già fortemente attivo nel secolo XV, e per un buon secolo e mezzo dà alla cultura italiana un indiscusso primato civile in Europa. La spinta creativa e i suoi splendori si estendono ad ogni campo dello scibile e riguardano anche la vita e la cultura materiale. Le diversità interne al paese sono più numerose e rilevanti di quelle che si possono notare in Spagna, pur con i casi macroscopici che in essa presenta il caso catalano. E in questa differenziazione si potrebbe ancora proseguire16.
Nel caso dell’Italia i «livelli profondi» auspicati per l’interpretazione del caso spagnolo sono stati ricercati anche nella crisi morale, in vario modo ravvisata come un tarlo dell’organismo civile italiano mentre perdurano i fulgori rinascimentali, e ritenuta la vera e più importante ragione di quell’arresto di vitalità creativa e progressiva dalla quale l’Italia appare sorretta nei tre o quattro secoli precedenti. Dopo aver trovato nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis una sua esposizione addirittura canonica, la crisi morale dell’Italia rinascimentale e post-rinascimentale ebbe poi un’espressione ancora più stringente nella Storia dell’età barocca in Italia di Croce17. Dopo di che, sembra che non sia stato tanto il problema della ‘decadenza’ a non riscuotere più lo stesso interesse quanto l’insistenza sul tema della crisi morale a perdere vigore e a ricorrere sempre meno (il che richiamerebbe ad altre considerazioni). Tra l’altro, non si comprende come un paese, preda di una tale crisi morale, avrebbe potuto dar luogo ad ancora feconde attività creative, quale, a tacere d’ogni altra, il fervore operativo sul piano politico e religioso in tutta la seconda metà del secolo XVI e oltre, e quale il geniale slancio che nel secolo XVII fa dell’Italia la principale patria della musica moderna18.
Le due decadenze, l’italiana e la spagnola – delle quali abbiamo sottolineato le vistose e corpose differenze – sono due processi paralleli o tra l’uno e l’altro vi sono interferenze e condizionamenti? Nella tradizione italiana in quell’addormentarsi dello spirito gran parte avrebbe avuto la Spagna, che sarebbe stata, insieme con la Chiesa, una corruttrice della vita italiana, oltre ad opprimere politicamente e civilmente il paese, a dissiparne le risorse e a trasmettere ad esso uno spirito di indolenza e passività anche per quanto riguarda l’iniziativa economica e sociale19. Era una delle tante facce della leyenda negra fiorita intorno alla Spagna imperiale in tutta Europa. Poi lo sviluppo degli studi ha portato, a partire già da quelli del Croce, ad abbandonare lo schema interpretativo monocromo della Spagna nefasta per l’Italia. Si è sottolineato, piuttosto, che la Spagna dominatrice non governò l’Italia con criteri diversi da quelli con i quali governava se stessa, e si è considerato il loro rapporto in questo periodo come quello di «una decadenza che s’abbracciava a una decadenza»20, ossia come processi convergenti ma in rispettiva e specifica autonomia.
In ciò vi è indubbiamente una sottovalutazione di quel che l’appartenenza di una gran parte dell’Italia alla Corona spagnola e alla sfera dell’egemonia spagnola in Europa significò per Napoli, Milano, la Sicilia, la Sardegna. In conclusione, se tra le due decadenze d’Italia e Spagna non c’è solo parallelismo ma anche un qualche legame, allora la dipendenza politica dell’una penisola dall’altra non può non essere considerata il fattore principale o determinante di tale legame, anche se neppure per quanto riguarda la vita intellettuale di entrambi i paesi la parte giocata della comune appartenenza alla monarchia degli Austrias può essere trascurata.
In quale senso? Certo la monarchia esigeva un lealismo politico che portava di necessità anche a determinati atteggiamenti culturali: condizione notevolmente rafforzata dalla linea di pieno sostegno delle posizioni cattoliche, che fu da Carlo V in poi un altro dei suoi criteri strategici di fondo e che in Italia, data la posizione e il ruolo della Chiesa, trovava una eco particolare. Si può facilmente immaginare che cosa ciò significasse in campi come quelli della storiografia, della filosofia e del dibattito politico, del pensiero religioso, del diritto, dell’economia. La monarchia controllava, inoltre, l’istruzione universitaria, la circolazione dei libri e altri aspetti fondamentali del processo culturale. Tuttavia, pur entro limiti che in seguito sarebbero apparsi ristretti, né la pressione delle autorità politiche, né quella ecclesiastica impedirono mai, in ultima analisi, il sorgere e lo sviluppo di nuove idee.
Così in Italia meridionale si sviluppò tra il secolo XVI e il XVII il movimento filosofico meridionale che ebbe in Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Giovambattista Della Porta e Tommaso Campanella i suoi alfieri; e nella seconda metà del secolo XVIII un episodio importante come l’Accademia degli Investiganti, il cui solo nome allude a un atteggiamento mentale significativo; mentre si erano già fatta strada le personalità di Giovan Battista Vico, Ludovico Antonio Muratori e altri, che segnano un nuovo tempo della cultura italiana, al quale appartiene anche la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia nel 1690. Allo stesso modo con Galilei, malgrado processi e repressioni, si avviò la ‘nuova scienza’, che, dopo quella dei Lincei, ebbe presto nell’Accademia del Cimento una sua espressione istituzionale, sia pure di breve durata, e negli allievi di Galilei e negli adepti delle sue idee prosecutori di varia importanza che mantennero accesa la fiamma della ricerca scientifica in Italia.
Per queste ragioni nella storiografia italiana si è, bensì, preso atto del carattere di esperienza conclusa nei suoi tempi per la «forte discussione filosofica» meridionale tra XVI e XVII secolo e per l’intensa attività culturale prolungatasi sul piano scientifico ben oltre gli inizi del secolo XVII. Si sono, allo stesso modo, registrati i molti altri simili tratti degli ultimi e conclusivi sviluppi in cui si esauriscono anche le spinte tardo-rinascimentali. Nello stesso tempo si è fatta, però, tempestivamente valere pure la tesi che un vero rinnovamento cominci già intorno al 1670 e segni addirittura gli incunaboli del futuro Risorgimento nazionale21.
Anche per la Spagna pensare a un XVII secolo vuoto di pensiero e di passioni intellettuali e senza alcuna importanza nella storia della cultura spagnola è un’impresa difficile perfino nel campo delle scienze matematiche e naturali, e ciò anche per chi delinea un quadro più nero della ‘decadenza’ spagnola. Già verso la fine di quel secolo nelle Università di Valenza, Saragozza e Barcellona si è potuto notare un gruppo di novatores che lotta per atteggiamenti, se non più liberi, almeno più aperti alle nuove caratteristiche della cultura e delle scienze europee; ed è stato giustamente osservato che la fondazione e l’autorizzazione della Regia Sociedad de Medicina y otras ciencias a Siviglia nel 1700 è importante non solo in sé e per sé ma anche come preannuncio della grande fioritura di accademie scientifiche nel secolo XVIII22.
A questo si aggiunga che sia in Italia, sia in Spagna proprio nel secolo XVII si va intensificando una partecipazione ecclesiastica al movimento della cultura che, da un lato, è un fattore di stabilizzazione immobilistica di questo movimento su posizioni conformistiche, ma, da un altro lato, raccoglie ed esprime in qualche misura istanze e tendenze della cultura del tempo. Protagonisti di questa partecipazione sono indubbiamente i Gesuiti, che vantano figure spesso marginali, ma non trascurabili, di ricercatori e scienziati, e offrono una delle poche possibilità di quel tempo in fatto di istituzionalizzazione dell’attività scientifica23. In Italia, poi, l’apporto ecclesiastico è ancora più notevole24.
Sulla cultura ecclesiastica per entrambi i paesi sarebbero però necessari studi più ampi ed esaurienti. Ci riferiamo, in particolare, al confronto fra le posizioni dei diversi ordini religiosi e del clero secolare, nelle quali si può rilevare una complessa dialettica. Da una parte vi si ritrova uno scarso significato di modernità rispetto alla cultura del tempo. Dall’altra parte, invece, vi si riscontrano rapporti più o meno evidenti con la cultura laica e risposte ad esigenze analoghe, e ciò, a volte, perfino inconsapevolmente, perché questi rapporti nascono proprio dalle tensioni e dai contrasti, soprattutto filosofici ed etici, emergenti nelle discussioni interne al mondo ecclesiastico25.
Come si vede, il contesto culturale dei due secoli della grandezza imperiale spagnola e dell’appartenenza italiana alla sfera della monarchia degli Austrias è ricco di una complessità di piani e forme, di motivi e sviluppi, che non appaiono finora abbastanza riflessi nella storiografia, anche perché – sia notato qui per inciso – siamo lontani dal possedere un quadro attendibile e soddisfacente delle traduzioni dall’una nell’altra lingua in quei due secoli26.
Con questo non vogliamo affatto dire che la ‘decadenza’ di cui si parla per i due paesi sia una convenzione storiografica da dissolvere. La ‘decadenza’ – sia nel senso di una perdita di peso nella vita culturale europea e di un’emarginazione rispetto alle punte più attive e militanti della stessa cultura europea, sia nel senso di un forte indebolimento del polso, per così dire, della vita dei due paesi – vi fu, e fu notevole.
In Italia essa è evidente nel fenomeno per cui ancora fino ai primi decenni del secolo XVII sono gli stranieri a venire a studiare e a formarsi alla scuola della cultura italiana; poi questo quadro muta, e già dalla metà del secolo XVII sono gli Italiani a varcare le Alpi e a frequentare i nuovi templi della cultura europea in Francia, in Inghilterra, in Olanda. La connotazione di un paese che non ha più molto da insegnare e ha invece bisogno di apprendere circonda ben presto l’Italia e, nonostante la sua fervida partecipazione alla République des lettres del secolo XVIII e la rinnovata fama di molti suoi intellettuali e studiosi, si protrae molto avanti nel periodo posteriore.
Beninteso, si continua a venire in Italia, che rimane una delle tappe inevitabili, e per molti aspetti la maggiore, del grand tour, ossia del viaggio di formazione e istruzione che le famiglie delle classi agiate e colte contemplavano nei loro programmi di vita sociale e culturale. Ma l’Italia del grand tour – aspetto posto molto poco nella dovuta evidenza – è soprattutto l’Italia del passato, delle grandi memorie classiche, cristiane, rinascimentali, e sempre meno l’Italia del presente, in un’Europa che allarga i suoi confini culturali sino a comprendere alla fine del secolo XVIII il mondo russo. E anche per la Spagna – quando in Europa essa diventerà popolare come meta di viaggi analoghi a quelli del grand tour, sebbene con una certa accentuazione sul tema del ‘colore locale’, ossia alla fine del secolo XVIII, e soprattutto in epoca romantica – accadrà lo stesso.
Agli stranieri la ‘decadenza’ dei due paesi apparirà ben presto più chiara che a Italiani e Spagnoli. Una data importante sarà segnata dalla Querelle des anciens et des modernes27, non senza precedenti e radici nella cultura italiana del Rinascimento28: essa segna il punto in cui la coscienza della modernità si impone ormai nettamente sul prestigio e la forza del classicismo, inteso come insuperabile modello estetico e culturale, che era stato trasmesso soprattutto dalla cultura italiana29.
Per l’Italia troviamo espresso il nuovo giudizio, che rapidamente si afferma, in modo tanto drastico quanto icastico, nei versi del poeta francese Jean Regnault de Ségrais (1624-1701), che vale sempre la pena di citare:
Ah! C’est non plus dans ces beaux lieux,
peuplés jadis de Demy-Dieux,
qu’on trouve la haute science:
malgré son triste aveuglement,
la présomptueuse Ignorance
y tromphe superbement30.

L’aveuglement italiano non è però totale, né dura a lungo. Già gli storici della fine del XVI secolo e degli inizi di quello successivo notavano ormai che il paese, tutto compreso nella sfera dell’egemonia spagnola, non offriva più argomenti degni di storia. Noi italiani, scriveva Paolo Sarpi, siamo ormai «in ozio così profondo che non solo ci tien lontani dalle novità, ma anco dai disegni e pensieri, di maniera che anco gli scrittori delle gazzette non hanno altra materia che qualche conviti e feste»31. Poi, come già abbiamo notato, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento la ‘decadenza’ divenne oggetto di una presa di coscienza degli stessi Italiani, che si andò man mano ampliando nel corso del Settecento fino a dare luogo ai primi sforzi e idee di un rinnovamento, al quale sarebbe stato dato ben presto il nome famoso di Risorgimento.
In Spagna il rango di quella Corona come una delle maggiori potenze europee durò a lungo, grazie al suo così vasto impero coloniale e al rilancio della sua vita politica e dell’attività di governo dopo l’avvento dei Borboni sul trono di Madrid. La presa di coscienza spagnola fu quindi più lenta di quella italiana, che già nella seconda metà del Seicento inizia a farsi evidente, mentre gli sforzi per retrodatare anche gli albori del rinnovamento spagnolo agli anni Ottanta del medesimo secolo appaiono meno persuasivi. In pratica, in Spagna si tratterà soprattutto di quell’intenso allineamento all’Illuminismo francese, che negli anni napoleonici farà parlare di afrancesamiento, con grave scandalo dei circoli più tradizionalisti e nazionalisti, ma in linea con una tendenza estesa in tutta Europa, e in Italia non meno forte che in Spagna32. Poi le storie dei due paesi si fanno fra loro più diverse che parallele, e ciò anche perché il recupero europeo dell’Italia sarà più rapido e ampio di quello spagnolo. Il che non impedisce che il secolo XVIII veda ancora una notevole intensità di relazioni culturali tra i due paesi, come gli studi, ad esempio, di Franco Venturi e di una serie di studiosi non solo in Italia e in Spagna hanno messo nel dovuto rilievo, e ciò anche sotto la sollecitazione dell’avvento al trono di Napoli di un ramo cadetto della nuova dinastia borbonica regnante in Spagna33.
Su questo sfondo generale della loro vita civile nei due secoli di più stretto legame politico fra loro, il parallelismo storico fra Italia e Spagna non copre la loro profonda diversità. Tanto meno, poi, i reciproci influssi ne riducono mai la rispettiva, autonoma identità. Per l’Italia una tale eventualità sarebbe stata, invero, più difficile a verificarsi in quanto il policentrismo della sua vita culturale non era minore di quello della sua geografia politica. Anche per la Spagna, però, non bisogna affatto credere, come molti inclinano a ritenere, a un mondo culturale uniforme, monolitico. È vero, invece, che le reciproche influenze non procedono sui binari di relazioni di singole parti dell’un paese con singole parti dell’altro. Esse hanno sempre, infatti, una fisionomia di insieme, per cui pare che, mentre la varietà politica italiana sia ben percepita in Spagna, come, del resto, in tutta Europa, la varietà culturale spagnola conti nella percezione europea molto meno34.
Nel loro parallelismo le due storie presentano, inoltre, alcune cifre comuni che, pur essendo anch’esse di un più generale carattere europeo, assumono nelle due penisole mediterranee una certa, più specifica fisionomia. Controriforma e Barocco sono, di certo, gli elementi da mettere, al riguardo, in maggior rilievo.
Per la Controriforma il discorso parallelo da fare è più semplice. L’applicazione dei decreti del Concilio di Trento non poteva presentare differenze fondamentali tra le due situazioni. Per l’aspetto repressivo connesso a tale applicazione la presenza in Spagna del Tribunale dell’Inquisizione è compensata – se così si può dire – da quella della Curia romana in Italia. Due presenze che di per sé non escludevano contrasti e tensioni tra lo Stato e l’Inquisizione o la Curia romana, le quali, infatti, vi furono e in qualche caso assunsero anche toni assai aspri. Questo era però scontato nel quadro complessivo di quella società e di quel tempo.
Più importante sarebbe l’approfondimento della dibattuta questione se la Controriforma si sia risolta in una grande opera di riorganizzazione e rilancio della vita ecclesiastica e religiosa dei popoli in cui operò, ridando alla Chiesa, in quanto specchio del mondo cattolico, una nuova e più efficace presenza nella società di quel periodo, o se abbia dato luogo anch’essa a una diversa intuizione cristiana, a un differente modello etico e religioso, come variamente accade con il Protestantesimo. È noto che la storiografia cattolica del Novecento ha decisamente respinto il termine Controriforma per indicare questa fase della storia della Chiesa, e ha sostenuto la diversa, se non opposta, definizione di Riforma cattolica per indicare la stessa fase storica, rivendicando non solo lo slancio religioso e morale, senza il quale la Chiesa non avrebbe potuto ottenere i grandiosi risultati che conseguì dalla metà del Cinquecento in poi, ma anche lo sforzo di riflessione teologica ed etica, storica e filosofica, che essa portò avanti nello stesso periodo a sostegno sia delle sue posizioni, sia della sua fisionomia teoretica e dottrinaria35.
La querelle è sempre viva, e in sostanza è destinata a non chiudersi, data la profonda diversità di impostazione dei due punti di vista, anche se, a nostro avviso, disconoscere la novità profonda dell’intuizione protestante dell’uomo e della sua vita morale è piuttosto difficile. Più facile è riconoscere, invece, che in questo confronto sia la Spagna che l’Italia apportarono contributi fondamentali per la posteriore vita della Chiesa e del Cattolicesimo. Ed è proprio per questo che assume un rilievo particolare l’apporto allo spirito e alla vita interiore del rinnovato Cattolicesimo che si ravvisa nelle figure e nelle dottrine dei maggiori mistici spagnoli del secolo XVII36. La loro suggestione fu anche in Italia notevole, benché di tale influenza si desideri ancora uno studio soddisfacente e benché anche in Italia il misticismo di quel periodo abbia trovato espressioni ragguardevoli37.
Alla mistica è da riportare sia in Spagna che in Italia la partecipazione femminile, come ad uno dei pochi canali in cui la presenza delle donne assume un’autonomia maggiore e un’importanza che si fa ben sentire anche nella vita civile38. E alla mistica si collega pure, in qualche modo, l’altro punto del rapporto fra Italia e Spagna, al quale abbiamo accennato, ossia la questione del Barocco.
Questione che ricordiamo qui perché, per quanto si tratti di un fenomeno di portata e significato europeo, non vi è dubbio che – come per la mistica – in Spagna e in Italia il Barocco ebbe le sue espressioni più intense, nel senso che furono più pienamente connesse a tutto lo sviluppo della vita culturale dei due paesi e la permearono più a fondo e in modo più totalizzante. È noto che sia in Spagna che in Italia non mancarono artisti, poeti, scrittori di tendenza non barocca e in polemica con il gusto e le forme artistiche e culturali dominanti. Queste voci rimasero tuttavia sempre minoritarie e non diedero il loro timbro a quel periodo. L’interrogativo che perciò si può porre è se il Barocco italiano e quello spagnolo furono soltanto un aspetto della loro consueta partecipazione alle forme e agli spiriti della civiltà europea o se nel Barocco si espresse qualcosa di più di una tale partecipazione, qualcosa che rinvia a un certo genio nazionale dei due popoli, a una loro propensione storica a quel tipo di cultura e di arte, anche se – a nostro avviso, correttamente – non lo si vuole affatto considerare un loro particolare Idealtypus.
È dubbio se sul piano storico un tale interrogativo sia plausibile, così come discutibile è tutto ciò che rinvia ai caratteri, al genio o all’indole di un popolo anziché alle vicende che sono la matrice delle forme in cui si esprimerebbero quei caratteri, geni o indoli. Per l’Italia, poi, molto più che per la Spagna, la vicenda del Barocco si inserisce nel corso di uno sviluppo dell’arte che dal Rinascimento al Manierismo aveva manifestato caratteri e forme largamente diversi da quelli che poi furono del Barocco, e ancor più, o altrettanto, congeniali allo spirito nazionale; e, sia pure alquanto di riflesso, Rinascimento e Manierismo vi furono anche in Spagna. Tuttavia, pur sulla base di tali precauzioni di metodo, la straordinaria fortuna e l’intensità con cui il Barocco si impose nei due paesi inducono a sottolinearne una rispondenza alle loro condizioni generali, che sembra andare oltre le circostanze storiche di allora.
Le precauzioni di metodo vanno, peraltro, accompagnate da altre notazioni. La prima delle quali è, certamente, che, parlando di Barocco, non si risolva tutto facendo valere i criteri di una valutazione estetica, positiva o negativa. Le valutazioni del tutto o largamente negative invalse nella cultura europea fino ai tempi di Jakob Burckhardt cominciarono ad essere superate già da quest’ultimo e poi dal suo allievo Heinrich Wölfflin e, comunque si voglia concludere a questo riguardo, è certo che il Barocco rimane una pagina fra le maggiori dell’arte europea. La seconda è che non si concepisca il Barocco come un unico, indifferenziato blocco di opere d’arte e di artisti, ma si conservi a quel tempo della storia dell’arte tutta la sua varietà di forme ed espressioni. La terza è che, ancora parlando di Barocco, se ne conservi il significato essenziale di episodio o fase della storia dell’arte, certo con le sue implicazioni ideologiche e dottrinarie, ma senza che la definizione di Barocco assuma la connotazione di generale filosofia e complessiva cultura di un’epoca, per cui è lecito parlare di una ‘età barocca’ nelle lettere e nelle arti, ma è difficile o impossibile farlo per altri settori della vita civile e della cultura di quel tempo.
Questa triplice notazione vuole essere soprattutto un’indicazione delle questioni che l’uso della ‘categoria’ del Barocco pone non solo, anzi non tanto, allorché la si considera in sé e per sé, quanto allorché se ne estende il significato dai suoi più determinati e specifici ambiti genetici a quello di momento generale della civiltà europea o, addirittura, di elemento strutturale della condizione umana. Rischio, in particolare, quest’ultimo, presente in una certa tradizione culturale non soltanto spagnola, anche se proprio in Spagna questa declinazione del concetto di Barocco ha avuto più fortuna39 (il che non toglie, a sua volta, che a studiosi spagnoli si debbano anche alcune delle più interessanti e penetranti analisi dello spirito del Barocco)40.
In ogni caso fu proprio il tempo del Barocco a segnare una particolare intensificazione dei rapporti italo-spagnoli sul piano delle arti41, anche se ciò si verificò, forse, più nella pittura che non nell’architettura e nella scultura42. E, volendo, si possono riconoscere nella permanenza di Velázquez a Roma43 e in quella di Luca Giordano a Madrid44 i termini più significativi nella partnership barocca dell’arte dei due paesi, al cui estremo si trova anche il trasferimento in Spagna, cinque anni prima che vi arrivasse Luca Giordano, della collezione di quadri (ben 1.800) del viceré di Napoli, marchese del Carpio, che non rappresenta un episodio isolato nella tradizione del collezionismo vicereale napoletano45. In precedenza anche i rapporti italiani con altre esperienze europee passavano, come con l’arte fiamminga, attraverso la Spagna46, rendendo più notevole l’interscambio italo-ispanico47 (in seguito, come si sa, i rapporti maggiori furono tra Italia e Francia).
In conclusione, come già si è detto, una vera e propria koiné italo-spagnola non vi fu nei secoli XVI e XVII, ma le relazioni fra i due paesi si intensificarono sul duplice piano culturale e letterario, ed è lecito ritenere che ciò sia avvenuto con loro reciproco profitto.
Certo all’inizio si trovarono di fronte l’Italia del Rinascimento e una Spagna ancora tutta permeata di spiriti e forme del tardo Medioevo. La posizione di preminenza italiana fu perciò indubbia. Poi la piena, splendida fioritura del siglo de oro riequilibrò notevolmente le cose e le importazioni italiane non furono trascurabili. Rimasero, tuttavia, all’Italia un suo particolare prestigio e un ruolo attivo di non poco conto. Ne è quasi simbolo, in uno dei vertici della letteratura spagnola ed europea qual è il Don Quijote, l’episodio del rogo di tutti i romanzi e poemi cavallereschi che avevano sedotto la mente del generoso cavaliere della Mancha. L’Orlando furioso, nel passo in questione, è fra i libri per i quali ogni decisione è rinviata, segno questo di una particolare e alta considerazione48. Né meno significativo è l’indiscusso magistero del Petrarca nella lirica spagnola del siglo de oro, benché la prima traduzione spagnola integrale del Canzoniere petrarchesco risalga solo al 159149; e addirittura più significativo è che, quando si trattò di difendere le ragioni della Corona spagnola nella questione delle devoluzioni pretese da Luigi XIV alla morte di Filippo IV, fu a Napoli che ci si rivolse per una trattazione giuridica soddisfacente delle ragioni spagnole, ricorrendo al Marciano e al d’Andrea50. Importante è, inoltre, da questo stesso punto di vista, che ancora alla fine del secolo XVII, quando la pittura spagnola aveva già conosciuto alcuni dei suoi maggiori vertici, Carlo II chiami Luca Giordano a Madrid.
La ripercussione italiana della cultura spagnola del siglo de oro fu anch’essa, come si è accennato, ragguardevole ma forse meno appariscente e immediata. Singolare è che lo stesso grandissimo libro di Cervantes, malgrado la traduzione di Lorenzo Franciosini già nel 1622, non sembra aver ricevuto in Italia un’accoglienza quale i rapporti dei due paesi e i tanti debiti italiani della formazione dell’autore avrebbero fatto supporre51; e questa osservazione può essere ripetuta anche per altri eminenti autori spagnoli52. Un discorso a sé meriterebbero, poi, Erasmo e l’erasmismo come linea di raccordo tra vari aspetti della cultura e dello spirito dei due paesi (il Bataillon parlava di erasmismo anche a proposito di Cervantes53, e basta questo a mostrare il rilievo di questa corrente di pensiero e di spiritualità ancora alla fine del Cinquecento).
Tutto ciò sta, però, solo a confermare quale ampio campo di studio e di ricerca offrano i rapporti italo-spagnoli del tempo dei Re Cattolici e degli Austrias, e quanto ancora poco essi appaiano svolti in tutta la portata della loro realtà storica.







NOTE
* Testo della relazione introduttiva tenuta dall’autore per il convegno “Il tesoro messicano. Libri e saperi tra Europa e Nuovo Mondo” (Roma 30-31 maggio 2012), i cui atti sono in corso di pubblicazione a cura dell’Accademia dei Lincei.^
1 T. Campanella, Consultationes aphoristicae (An monarchia Hispanorum sit in augumento, vel in statu, vel in decremento), in Id., Opuscoli inediti, a cura di L. Firpo, Firenze, 1951, p. 108.^
2 Ivi, p. 109: «non enim aggregant Hispanismo populos sibi fideles, tamquam si nullus esset dignus; ideo continuo bello minuuntur».^
3 Ivi, p. 111.^
4 Questo aspetto della profonda diversità di criteri, atteggiamenti e comportamenti – anzitutto sul piano dei principi – del governo di Madrid nei paesi transoceanici rispetto alla linea adottata nei suoi domini europei, pur rilevante nella storia della Spagna imperiale, non è sempre tenuto presente in misura adeguata alla sua rilevanza anche in lavori importanti sulla storia politica, istituzionale e culturale di quella Spagna. Abbiamo cercato di far valere tale elemento in relazione, in particolare, al Mezzogiorno d’Italia: cfr. G. Galasso, Spagna e Mezzogiorno, in Idem, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze, 19842, p. 162 sgg. Notiamo pure che su tutti i temi trattati nel presente lavoro moltissimi elementi di vario ordine, ma spesso interessanti e importanti si ritrovano negli atti di convegni, congressi etc, e nelle miscellanee pubblicate in tutta Europa, e, com’era ovvio, in particolare in Spagna, per il quarto quinto centenario della nascita di Carlo V e quarto della morte di Filippo II, dei quali abbiamo tenuto conto qui e ai quali, perciò, generalmente rinviamo.^
5 Sull’uso delle rispettive lingue e sulle questioni linguistiche dei rapporti fra i popoli europei in questo periodo cfr., per un primo panorama, J.R. Hale, La civiltà del Rinascimento in Europa. 1450-1620, Milano, 1996, pp. 157-169; più specificamente G.L. Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinquecento e Seicento, Torino, 1968.^
6 Rinviamo, su questo punto, ad alcuni nostri saggi: Tradizione aragonese e realtà della monarchia spagnola in Italia nei secoli XVI-XVII, in La Corona d’Aragona in Italia. Secoli XIII-XVIII, Atti del XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Sassari-Alghero, 19-24 maggio 1990), I, Sassari, 1993, pp. 177-192; Caratteri della dominazione spagnola in Italia, in Gli Spagnoli e l’Italia, a cura di D. Puccini, Milano, 1997, pp. 17-22; Los territorios italianos, in La Corona de Aragón. Siglos XII-XVIII, eds. E. Belenguer e F.V. Garín, Valencia, 2006 (edito anche in catalano), pp. 129-141.^
7 Cfr. al riguardo Croce e la Spagna, a cura di G. Galasso, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011. Per la tradizione ispanistica italiana cfr. El hispanismo italiano, «Arbor», 488-489, 1986; A. Ruffinatto, L’ispanistica italiana, in Gli Spagnoli cit., pp. 125-130; L. Ribot, Italianismo español e hispanismo italiano, in Roma y España. Un crisol de la cultura europea en la edad moderna, Actas del Congreso Internacional (Roma, 8-12 de mayo 2007), coord. C.J. Hernando Sánchez, I, Madrid, 2007, pp. 79-90; Id., Italianismo spagnolo e spagnolismo italiano, in La Calabria del viceregno spagnolo. Storia, arte, architettura, urbanistica, a cura di A. Anselmi, Roma, 2009, pp. 37-45.^
8 B. Croce, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari, 19494, p. 1.^
9 Oltre a J.R. Hale, La civiltà del Rinascimento cit., cfr. per una veduta d’insieme Il Rinascimento italiano e l’Europa, a cura di G.L. Fontana e L. Molà, I-VI (l’opera è prevista in 12 volumi), Treviso, 2005-2010.^
10 Una vera e propria storia europea della letteratura non vi è né per questo periodo, né per altre epoche (cfr. F. Meregalli, Premessa, in Storia della civiltà letteraria spagnola, a cura dello stesso autore, II, Torino, 1990, pp. 1041-1044). Bisogna perciò fondarsi, per un’idea generale – europea, appunto – della letteratura del tempo, sulla sterminata bibliografia relativa alle storie letterarie dei singoli paesi, per le quali sarebbero pretenziose, in questa sede, indicazioni particolareggiate. Limitandoci ai due paesi di cui qui si tratta, ricordiamo soltanto per la Spagna: C. Samonà, G. Mancini, F. Guazzelli, G. Martinengo, La letteratura spagnola. I secoli d’oro, Milano, 19974; Historia y crítica de la literatura española, coord. F. Rico, II-III, Barcelona, 2001; M. de Riquer, Historia de la literatura catalana, Barcelona, 1964. Quanto all’Italia la tradizione critica che si rifà a Benedetto Croce è ben rappresentata da F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, 1941, 3 voll.; Id., Storia della letteratura italiana, Milano-Verona, 1953, 5 voll. (completata da Flora con la sua personale trattazione del Novecento, in precedenza affidata a Luciano Nicastro). Le altre, e molto varie, direzioni della critica letteraria in Italia delineatesi dalla metà del secolo XX in poi sono efficacemente rappresentate nelle numerose storie della letteratura italiana apparse in questo lasso di tempo, fra le quali ricordiamo quelle a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Garzanti; di Alberto Asor Rosa, Einaudi; di Enrico Malato, Salerno; di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Federico Motta Editore, le cui bibliografie sono larghe di indicazioni generali e monografiche.^
11 Per stare solo agli studi italiani, vale sempre il richiamo a C. Giacon, La Seconda Scolastica, Torino, 2004, 3 voll. In generale cfr. R. Quinto, «Scholastica»: storia di un concetto, Padova, 2001; e inoltre La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Atti dell’Incontro di Studio (Firenze, 16-19 ottobre 1972), a cura di P. Grossi, Milano, 1973; Dalla Prima alla Seconda Scolastica. Paradigmi e percorsi storiografici, a cura di A. Ghisalberti e M. Forlivesi, Bologna, 2000; C. Fantappiè, Introduzione storica al diritto comune, Bologna, 2003, p. 265 sgg.; M. Mantovani, La discussione sull’esistenza di Dio nei teologi domenicani a Salamanca dal 1561 al 1669, Roma-Salamanca, 2011; L. Cedroni, Democrazia e diritto delle genti nella Seconda Scolastica, in La democrazia nell’età moderna, a cura di C. Vasale e P. Armellini, Soveria Mannelli, 2008, pp. 205-223; P. Di Vona, L’ontologia dimenticata. Dall’ontologia spagnola alla Critica della Ragion Pura, Napoli, 2009; A. M. Palamidessi, Alle origini del diritto internazionale. Il contributo di Vitoria e Suárez alla moderna dottrina internazionalistica, Roma, 2010; P. Broggio, La teologia e la politica. Controversie dottrinali. Curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento, Firenze, 2009; Iustus ordo e ordine della natura. Sacra Dottrina e saperi fra XVI e XVII secolo, a cura di F. Todescan e F. Arici, Padova, 2007; R. Riverso, La nascita del concetto dei diritti umani nel secolo XVII, Viterbo, 2011.^
12 Ci siamo occupati della questione delle ‘due culture’ in L’unità del sapere, in «L’Acropoli», 10 (2009), pp. 324-341.^
13 J.-L. Peset, M. Peset, Cultura y artes en el Barroco, in Historia de España. Esplendor y decadencia de Felipe III a Carlos II, in «Historia 16. Extra XIX», 7 (1981), pp. 76-77; la citazione da un testo divulgativo ci sembra mostrare in modo evidente la diffusione dei giudizi esposti nel nostro testo. Per Calderón cfr. Calderón de la Barca y la España del Barroco, coord. J. Alcalà-Zamora/E. Belenguer, Madrid, 2001, che, insieme col catalogo della omonima mostra, coord. F. Checa Cremades/J.M. Díez Borque, Madrid 2000, è una vera miniera di dati e di sollecitazioni sui più varii aspetti della vita e della cultura spagnola del tempo.^
14 J.-L. Peset, M. Peset, Cultura, cit., p. 77.^
15 Per tali questioni cfr. G. Galasso, Dalla “libertà d’Italia” alle “preponderanze straniere”, Napoli, 1997, pp. 3-170; Id., L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750), in G. Galasso, L. Mascilli Migliorini, L’Italia moderna e l’unità nazionale (Storia d’Italia, dir. G. Galasso, XIX), Torino, 1998, in particolare p. 436 sgg.^
16 Anche B. Croce, La Spagna, cit., pp. 264-267, si sofferma sulla diversità delle due decadenze, la spagnola e l’italiana, con tratti efficaci ma più schematicamente di come è indicato nel nostro testo (sul libro del Croce cfr. i saggi di Giuseppe Mazzocchi e Alberto Varvaro in Croce e la Spagna, cit.).^
17 Ciò non vuol dire che da De Sanctis a Croce si sia proceduto, per quanto riguarda l’idea di decadenza e la sua applicazione al caso italiano dei secoli XVI-XVII, in linea retta sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista del giudizio critico sugli elementi e sulle forme di quella decadenza; cfr. il quadro tracciato da W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. 1896-1946. Scritti in onore di B. Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, I, Napoli, 19662, pp. 241-266; G. Quazza, La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento, Torino, 1971; J. S. Woolf, Il problema della “decadenza” italiana nella recente storiografia, «Studi Storici», 11 (1975), pp. 103-122.^
18 Vero è che Croce ricorda che il suo lavoro «dovrebbe essere perseguito per le arti figurative e architettoniche, per la musica, e per altri aspetti e manifestazioni della vita secentesca» (B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, a cura di G. Galasso, Milano, p. 11). Per la musica italiana in questa età cfr. G. Galasso, Musica e identità italiana, in «L’Acropoli», 8 (2007), pp. 529-563.^
19 Cfr. Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di A. Musi, Milano, 2003.^
20 B. Croce, La Spagna, cit., p. 267.^
21 Basti anche su questo punto, pur meritevole di qualche discussione, il rinvio a B. Croce, Storia dell’età barocca, cit.^
22 J.-L. Peset, M. Peset, Cultura y artes, cit., p. 87; cfr. inoltre L. M. Enciso Recio, La reforma de la Universidad española en la época de Carlos III, in I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, II, Napoli, 1985, pp. 191-240.^
23 Cfr. U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù, Padova, 2000; The new science and Jesuit science. Seventeenth century perspectives, ed. M. Feingold, Dordrecht, 2003.^
24 Per l’Italia cfr. Legem impone subactis. Studi sulla filosofia e scienza dei Gesuiti in Italia. 1540-1632, a cura di U. Baldini, Roma, 1992; L. Bisello, La “Ratio studiorum” dei Gesuiti, in La cultura. Una vocazione umanistica, a cura di C. Ossola (La cultura italiana, dir. L.L. Cavalli Sforza, VII), Torino, 2010, pp. 82-95. È noto che nel Collegio Romano si ebbe un significativo ampliamento della nozione di ‘classico’ alle scienze matematiche e fisiche, per cui nei programmi di filosofia si studiavano le più recenti acquisizioni geografiche, gli Elementi di Euclide e il sistema tolemaico.^
25 Si vorrebbe più presente questo criterio nelle storie degli ordini religiosi e della Chiesa, che, pur trattandone l’attività e la presenza culturale, di rado ne colgono le implicazioni alle quali si accenna nel nostro testo: rilievo che affacciamo qui, beninteso, sia per la storiografia cattolica che per quella ‘laica’. Ricordiamo, tuttavia, benché di varia ispirazione, l’attività del Centro italo-tedesco di storia comparata degli ordini religiosi; cfr. al riguardo E. Filippini, Regole, consuetudini, statuti nella storia degli Ordini religiosi, in «Quaderni Medievali», 55 (2003). Cfr., inoltre, gli scritti relativi a un seminario di cui riferiscono F. Motta, S. Pavone, Per una storia comparativa degli Ordini religiosi, in «Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica», 1 (2005), pp. 13-24; e M. Caffiero, Premessa, ivi, pp. 7-11.^
26 A mero titolo esemplificativo ricordiamo La traduzione della letteratura italiana in Spagna (1300-1939). Traduzione e tradizione del testo. Dalla filologia all’informatica, Atti del I Convegno Internazionale (Barcellona, 13-16 aprile 2005), a cura di M.N. Muñiz Muñiz, Firenze, 2007.^
27 Basti citare qui La querelle des anciens et des modernes. XVIIe-XVIIIe siècles, ed. A.-M. Lecoq, Paris, 2001; cfr. inoltre J. A. Maravall, Antiguos y modernos. La idea de progreso en el desarrollo inicial de una sociedad, Madrid, 1998; J. W. Lorimer, A neglected aspect of the “Querelle des anciens et des modernes”, in «The Modern Language Review», 53 (1956), 2, pp. 179-185; M. Fumaroli, Le api e I ragni. La disputa degli antichi e dei moderni, tr. it., Milano, 2005.^
28 Cfr. G. Margiotta, Le origini italiane de “La Querelle des anciens et des modernes”, Roma, 1953; e inoltre H. Baron, The Querelle of the Ancients and the Moderns as a problem for Renaissance scholarship, in «Journal of History of Ideas», 20 (1959), 1, pp. 3-22; R. Black, Ancients and Moderns in Renaissance and history in Accolti’s “Dialogue on the preminence of men of his own age”, in «Journal of History of Ideas», 43 (1982), 1, pp. 3-32.^
29 Su questo significato della querelle cfr. G. Galasso, Prima lezione di storia moderna, Roma-Bari, 20092, pp. 115-120.^
30 I versi di Jean Regnault de Ségrais (citati in B. Croce, Storia dell’età barocca, cit., p. 76) sono tanto più da notare in quanto rivolti a Gilles Ménage, che partiva per l’Italia. Sul diffondersi dell’impressione di decadenza italiana in Europa utili elementi si raccolgono anche in M. Verga, La Spagna e il paradigma della decadenza italiana tra Seicento e Settecento, in Alle origini di una nazione, cit., pp. 49-82, soprattutto nella parte dedicata agli scrittori stranieri.^
31 P. Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di D. Busnelli, I, Bari, 1935, p. 85.^
32 Afrancesados è termine che ricorre già durante il regno di Filippo V, quando si ha un’accentuata penetrazione della cultura francese in Spagna, per cui l’uso del termine per indicare i fautori del nuovo regime sotto Giuseppe Bonaparte non è affatto una novità (cfr. M. Artola, Los afrancesados, Madrid, 19892; G. Stiffoni, Gli “afrancesados”, in Id., La guida della ragione e il labirinto della politica. Studi di storia di Spagna, Roma, 1984, pp. 153-188). Per un esempio di analogo uso a Napoli cfr. R. Ajello, Gli “afrancesados” a Napoli nella prima metà del Settecento. Idee e progetti di sviluppo, in I Borbone di Napoli, cit., I, pp. 115-192.^
33 Cfr. almeno I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna. Un bilancio storiografico, a cura di M: Di Pinto, 2 voll., Napoli, 1985; ma anche tutti gli studi degli ultimi decennii sulla cultura e sulla circolazione delle idee illuministiche confermano e ampliano notevolmente il quadro dei rapporti culturali italo-spagnoli in quest’epoca.^
34 Lo si vede, ad esempio, per tutto l’arco della storia europea, anche in un’opera di sommario compendio ma, data la personalità dell’autore, significativa come quella di C. Seignobos, Histoire comparée des peuples européens, Paris, 1938.^
35 Per una valutazione delle questioni e degli sviluppi religiosi nella contrapposizione tra Riforma e Controriforma o Riforma cattolica cfr. G. Galasso, Storia d’Europa, Roma-Bari, 20012, pp. 290-296; Id., Prima lezione di storia, cit., pp. 58-68.^
36 La letteratura sulla mistica spagnola del siglo de oro è, come si sa, imponente. Cfr. M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Milano, 2008, per un più generale inquadramento europeo; V.I. Stoichita, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel secolo d’oro dell’arte spagnola, Roma, 2002, per le implicazioni di storia dell’arte; e, inoltre, M. Andrés Martín, Los Recogidos. Nueva visión de la mística española (1500-1700), Madrid, 1975.^
37 Anche qui ci limitiamo a segnalare S. Stroppa, Sic arescit. Letteratura mistica nel Seicento italiano, Firenze, 1998.^
38 Superfluo parlare del ruolo di Teresa d’Avila da questo punto di vista. Per un episodio alla periferia dell’impero, cfr. V. Fiorelli, Una santa della città. Suor Orsola Benincasa e la devozione napoletana fra Cinquecento e Seicento, Napoli, 2001.^
39 Ci riferiamo, com’è facile intendere, in particolare a E. d’Ors, Du baroque, Paris, 1935, che, come si sa, faceva del Barocco un momento eterno dello spirito umano, in opposizione al classicismo, inteso quale affermazione di mera armonia formale. Egli non esitava, quindi, a sostenere che la sua interpretazione era la «novela autobiográfica», che narrava «la aventura de un hombre lentamente enamorado de una categoría», quella per l’appunto del Barocco. Va tuttavia notato che su questa base concettuale d’Ors elencava ben ventidue ricorrenze storiche del Barocco, dal Buddismo al Romanticismo, con una – a nostro avviso – del tutto insufficiente e superficiale storicizzazione della sua astrazione concettualizzante del fenomeno. E anche ciò tradisce, sempre a nostro avviso, una filiazione di d’Ors da Heinrich Wölfflin, che già in Renaissance und Barock, München, 1888, faceva del Barocco un polo ineliminabile nella vita dell’arte in opposizione al classicismo. Wöllflin si manteneva però strettamente sul terreno storico-artistico e girava intorno a un’idea dell’arte come pura visibilità. Per più recenti discussioni intorno al Barocco cfr. J. Rousset, Dernier regard sur le baroque, Paris, 1998; G. Lambert, The return of the Baroque in modern culture, London-New York, 2004; Baroque new worlds. Representation, transculturation, counterconquest, eds. L. Parkinson Zamora e M. Kaup, Durham, 2010. Altri modi generalizzanti possono essere colti nei saggi raccolti in L’uomo barocco, a cura di R. Villari, Roma-Bari, 1991; e in Barocco al femminile, a cura di G. Calvi, Roma-Bari, 1993. Cfr. inoltre C. Ossola, L’anima in barocco. Testi del Seicento, Torino, 1995. Sempre interessante la discussione sul Barocco fra Benedetto Croce e Karl Vossler, per cui cfr. G. Galasso, Croce e la Spagna, in Croce e la Spagna, cit., pp. 9-16. Un aspetto rilevante si può cogliere anche in R. Assunto, “Infinita contemplazione”. Gusto e filosofia dell’Europa barocca, Napoli, 1979. Infine, cfr. anche N. Spinosa, Spazio infinito e decorazione barocca, in Cinquecento e Seicento, a cura di F. Zeri (Storia dell’arte italiana, coord. ed. di G. Bollati e P. Fossati, VI, 1), Torino, 1981, pp. 277-343.^
40 Soprattutto, diremmo, J.A. Maravall, La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica, Bologna, 1985, per il suo sforzo di individuare l’omogeneità della cultura del tempo, pur nei suoi molti contrasti e conflitti e nelle sue particolarità nazionali, in un periodo giustamente considerato di crisi generale e acute tensioni sociali. Ne risulta un quadro della cultura barocca come cultura urbana, dirigistica e conservatrice ma anche con caratteri di massa; e tutto ciò viene prospettato come analisi di un modo di pensare e sentire che sta pure alla base dell’arte e della letteratura barocca e ne spiega l’impatto sulla società nei suoi effetti dal punto di vista della psicologia sociale, ravvisati come particolarmente efficaci nel caso del teatro.^
41 Vi contribuirono non poco gli istituti culturali spagnoli in Italia, per cui cfr. F.V. Garín Llombart, L’Accademia di Spagna a Roma, in Gli Spagnoli cit., pp. 189-194; J.G. García Valdecasas, Il Real Colegio de España a Bologna, ivi, pp. 195-200.^
42 Cfr. F. Sricchia Santoro, Arte italiana e arte straniera, in L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità, a cura di G. Previtali (Storia dell’arte, cit., III), Torino, 1979, pp. 100-156.^
43 Cfr. L. Díez del Corral, Velázquez, la monarquía e Italia, Madrid, 1979; e inoltre J. Gallego, Velázquez e Goya in Italia, in Gli Spagnoli, cit., pp. 181-188; F. Checa Cremades, La «antorcha resplendeciente del arte». Algunos aspectos de la relación de Velázquez con el arte italiano, in Calderón de la Barca y la España del Barroco, coords. J. Alcalá-Zamora e E. Belenguer, II, Madrid, 2001, pp. 319-332; J. Portús, Velázquez en Roma: de la pintura de historia al triunfo del retrato, in Roma, cit., II, pp. 729-744.^
44 Cfr. G. Scavizzi, Gli anni della Spagna, in O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano. L’opera completa, Napoli, 19922, pp. 123-158. Non è un caso che la posizione storica di Velázquez e Giordano abbia richiamato quella di altri grandi esponenti dell’arte del loro tempo ugualmente legati a Corti europee; cfr. Velázquez, Bernini, Luca Giordano: le Corti europee del Barocco, a cura di F. Checa Cremades, Milano, 2004.^
45 Cfr. España y Nápoles. Coleccionismo y mecenazgo virreinales en el siglo XVII, ed. J.L. Colomer, Madrid, 2009; A. Anselmi, Gaspar de Haro y Guzmán VII marchese del Carpio: “Confieso que debo al arte la Magestad con que hoy triumpho”, in «Roma Moderna e Contemporanea », 15 (2007), 1-3, pp. 187-254; Ead., Il VII marchese del Carpio da Roma a Napoli, in «Paragone/Arte», 58 (2007), 71, pp. 80-109. I 1.800 quadri di Napoli si aggiunsero ai 1.200 che Carpio già possedeva in Spagna, formando quindi un’imponente collezione di 3.000 opere.^
46 Cfr. F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli, 1977; Les Flandres et la culture espagnole et italienne aux XVIe et XVIIe siècles, éds. M. Blanco-Morel e M.-F. Piejus, Lille, 1998.^
47 Cfr., ad esempio, Rinascimento italiano e committenza valenzana. Gli angeli musicanti della cattedrale di Valencia, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 24-26 gennaio 2008), a cura di M. Miglio e M. C. Pérez García, Roma, 2011.^
48 Cfr. il capitolo VI della parte prima del Chisciotte (Del donoso y grande escrutinio que el cura y el barbero hicieron en la libreria de nuestro Ingenioso Hidalgo), dov’è scritto che dell’Ariosto, definito «cristiano poeta», non si poteva fare alcun rispetto se lo si fosse letto in traduzione, «pero, si habla en su idioma, le pondré sobre mi cabeza». Si aggiunge, in un passo rilevante, che le traduzioni dei libri di autori di altra lingua sono destinate sempre a non eguagliare gli originali, perché, per quanta cura e abilità vi si ponga, «jamas llegarán al punto que ellos tienen en su primer nacimiento»: superfluo sottolineare la modernità di questo punto di vista. Sull’Ariosto in spagnolo cfr. M. Morreale, Appunti per uno studio sulle traduzioni spagnole dell’“Orlando Furioso” nel Cinquecento, in «Atti del Premio Città di Monselice», 6 (1977), pp. 33-72.^
49 Cfr., ad esempio, A. Ruffinatto, Il petrarchismo spagnolo, in Gli Spagnoli, cit., pp. 103-108; I. Navarrete, Orphans of Petrarch. Poetry and Theory in the Spanish Renaissance, Berkeley, 1994. Interessante è anche la prospettiva suggerita in M. Lefèvre, Una poesia per l’impero. Lingua, editoria e tipologia del petrarchismo tra Spagna e Italia nell’epoca di Carlo V, Manziana, 2006.^
50 Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Roma, 20053, pp. 106 sgg. e 131.^
51 Cfr. M. Cervantes de Saavedra, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, eds. J. García Soriano e J. García Morales, Madrid, 1973, p. 110. La traduzione di Lorenzo Franciosini fu seguita da quella di Bartolomeo Gamba soltanto nel 1818, a due secoli di distanza; cfr. D. Pini Moro, G. Moro, Cervantes in Italia. Contributo a un saggio bibliografico sul cervantismo italiano (con un’appendice sulle trasposizioni musicali), in Don Chisciotte a Padova, Atti della I Giornata Cervantina (Padova, 2 maggio 1990), a cura di D. Pini Moro, Padova, 1992, pp. 149-268.^
52 Cfr., ad esempio, G. Poggi, La fortuna in Italia di Cervantes, Góngora e Quevedo, in Gli Spagnoli, cit., pp. 111-117.^
53 Cfr. M. Bataillon, Erasmo y España. Estudios sobre la historia espiritual del siglo XVI, México-Madrid-Buenos Aires, 1966, p. 777 sgg.^
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