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Il berlusconismo nella storia d'Italia
di
Maurizio Griffo
I libri dedicati a Berlusconi sono legione; in genere, però, si tratta di libri polemici. Anche quando ci si trova di fronte ad analisi che si presentano come ricostruzioni storiche rigorose, il canovaccio che viene seguito è quello di un’antistoria d’Italia in cui l’imprenditore milanese è visto come l’epitome dei vizi nazionali. Secondo questa vulgata, insomma, Berlusconi sarebbe l’ultimo avatar della continuità negativa della storia d’Italia, la terminale e infausta autobiografia della nazione. In controtendenza a una simile deriva interpretativa arriva ora un libro che vuole studiare il fenomeno cercando di comprenderlo dall’interno (G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 2013).
Rovesciando quello che è l’approccio corrente, l’autore non si concentra sulla vicenda personale di Berlusconi, ma s’interessa del berlusconismo, cioè della risultante tra l’iniziativa del leader azzurro e la risposta dell’elettorato. In buona sostanza, a parere di Orsina è possibile capire il berlusconismo soltanto «se si compie lo sforzo di osservare il mondo dal punto di vista di chi lo ha votato». Assumere un atteggiamento diverso porta a fraintendere il fenomeno sopravvalutandone gli aspetti emotivi (la “pancia†degli elettori che Berlusconi sarebbe bravo a sollecitare), senza comprenderne la razionalità . Occorre, invece, abbandonare i preconcetti e sforzarsi di capire gli «elettori del Cavaliere con un’analisi della loro diversa intelligenza, diversa moralità , diversa razionalità » (pp. 13-14).
Il libro si articola in cinque capitoli ma si può dividere idealmente in due parti. I primi due capitoli sono di storia generale, l’uno dedicato alla vicenda dello Stato unitario, l’altro alla storia della repubblica e costituiscono una sorta di necessario retroterra dell’analisi successiva. Gli altri tre capitoli affrontano in maniera specifica l’argomento “berlusconismoâ€, concentrandosi rispettivamente sul discorso pubblico di Berlusconi, sul modo in cui la sua proposta è stata recepita e valutata dagli elettori, mentre l’ultimo capitolo propone una periodizzazione del fenomeno, fissando le varie fasi della parabola berlusconiana.
Il capitolo iniziale può apparire, a prima vista, tralatizio. Orsina sottolinea come, a partire dal Risorgimento, nelle élite politiche italiane sia stata prevalente un’attitudine che definisce «pedagogica e ortopedica». Un atteggiamento che origina da una sostanziale sfiducia nella qualità civica della società italiana. A tale ritardo di modernità si deve rimediare con un’attitudine giacobina di minoranze virtuose. Queste, però, non riescono a mantenersi all’altezza del progetto modernizzante, e la loro azione degrada in una logica di clan. L’autore, non sposa la storiografia negativa alla Cusin o alla Mack Smith, né offre ulteriori variazioni sul tema dell’inferiorità antropologica dell’italiano. Piuttosto riecheggia, riarticolandolo, un giudizio di Massimo L. Salvadori secondo cui l’Italia, fino agli anni Novanta del secolo scorso, non ha mai conosciuto ricambi di governo ma soltanto crisi di regime. Tuttavia, il senso del capitolo non è quello di una riflessione sulle gracilità del giovane Stato unitario, ma è funzionale all’architettura del lavoro. Sottolineare la permanente cesura tra paese legale e paese reale che caratterizza la storia italiana, pone le premesse per intendere la discontinuità rappresentata dall’avvento di Berlusconi sulla scena politica.
Con il secondo capitolo passiamo dalla preistoria alla storia antica del berlusconismo. Orsina si sofferma sulle correnti di opposizione all’ordine partitocratico che si manifestano nel dopoguerra. Il qualunquismo, anzitutto, ma non solo. La diffidenza verso i partiti di massa e di integrazione sociale accomuna una porzione non trascurabile dell’elettorato. Elettori che sono soprattutto anticomunisti ma, in maggioranza, non antidemocratici: conservatori, moderati, liberali di vario orientamento. Simili posizioni vengono progressivamente marginalizzate dall’evoluzione del quadro politico, soprattutto dopo l’avvento del centro sinistra.
Buona parte di questa cospicua minoranza silenziosa vota per la Dc, ma non si sente rappresentata dal partito dello scudo crociato, anzi ne diffida. Il collante di queste posizioni è quello che Orsina definisce l’anti-antifascismo. Un sentimento di ripulsa per gli sviluppi della politica italiana, che a questa fetta di elettorato appare caratterizzata da una crescente influenza del partito comunista. Finché c’è la guerra fredda la vischiosità elettorale rimane però alta. I moderati e i conservatori scontenti continuano, seppure con crescente disagio, a turarsi il naso e a votare Dc. La fine del mondo bipolare libera questi voti che trovano uno sbocco naturale proprio nella proposta politica di Berlusconi. In questa chiave si può intendere anche il motivo anticomunista così presente nel discorso berlusconiano. Un argomento che è stato spesso considerato come un rozzo anacronismo, ma rispetto a cui il leader azzurro «si è trovato in sintonia profonda con una fascia assai ampia dell’elettorato». A tal proposito viene opportunamente notato che se il pericolo comunista non sussisteva più in ambito internazionale questo «non rendeva meno indigesto il trionfo degli avversari di un tempo, tanto più perché li si riteneva sconfitti dalla storia» (pp. 116-117).
Come si vede, nell’analisi di Orsina, lungi dall’essere un fenomeno estemporaneo, legato solo alle indubbie capacità mediatiche dell’imprenditore milanese, il berlusconismo viene da lontano. Nel lungo periodo esso origina dal «fallimento delle vie giacobine alla modernità » perseguite non virtuosamente dalle élite italiane; sulla più breve durata, invece, può essere inteso come una risposta alla «marginalizzazione ideologica e culturale delle destre nell’età repubblicana».
Riflettendo su questo ancoraggio nella storia d’Italia, appare evidente la cesura operata da Berlusconi rispetto alla tradizione delle classi politiche precedenti: il rifiuto dell’approccio «pedagogico e ortopedico» e, per converso, la costante sottolineatura degli aspetti positivi del nostro paese. Per la prima volta un leader politico ha detto agli italiani: andate bene così come siete. Sotto accusa, invece, erano messi l’attitudine statalista, fino ad allora dominante, che costituiva un ostacolo alla crescita. A parere dell’autore «Berlusconi ha ideologizzato il carattere positivo e l’autosufficienza del paese, ne ha fatto uno strumento di propaganda e raccolta del consenso» (pp. 97-98).
La sottolineatura ottimista della vitalità e dell’inventiva italiane, il richiamo alla intraprendenza e alla capacità d’iniziativa individuale contrapposte alle eccessive pastoie legislative caratterizzano il discorso pubblico di Berlusconi in tutti questi anni e forniscono la cifra ideologica che lo contraddistingue. Certo, non ci troviamo di fronte a un formulazione dottrinaria precisa, pure, è possibile inquadrare le costanti affermazioni dell’imprenditore milanese all’interno di precise coordinate ideali. Sinteticamente, secondo Orsina, il berlusconismo è «un’emulsione di populismo e liberalismo» (p. 125). Il termine emulsione non è stato scelto a caso perché sottolinea che le due componenti non si sono fuse in un nuovo composto ma sono rimaste distinte, anche se di fatto si sono compenetrate in modo inestricabile.
La convinzione che l’Italia non abbia più bisogno di tutele, che il popolo sia diventato autosufficiente è un’istanza liberale, che suppone uno stato minimo, ma amico, in grado di assecondare e far progredire questo processo. L’idea che il paese abbia bisogno di una nuova élite che faccia a meno dei politici di professione, in modo da potersi esprimere senza mediazioni è una pulsione populista che vede nello Stato un avversario da contrastare. La convivenza tra queste due anime è risultata problematica creando tensioni e scompensi che hanno caratterizzato tutta la parabola del berlusconismo. La sintesi che, rispetto a tali orientamenti divergenti, si è realizzata di fatto è quella di una proposta definita ipopolitica (in contrapposizione alla iperpolitica che contraddistingueva l’ordine partitocratico) che ha trovato un costante e assai largo seguito elettorale.
Non casualmente, proprio alle ragioni e ai motivi del consenso Orsina dedica parecchio spazio spulciando e annotando una gran messe di dati elettorali e di studi sul comportamento di voto. E proprio i risultati di questa
analisi forniscono alcuni degli spunti più interessanti del lavoro.
L’autore parte da una notazione consolidata: fra gli elettori di Berlusconi è più alta la percentuale di persone meno istruite, non interessate alla politica e che non seguono con continuità gli avvenimenti correnti. Tuttavia, incrociando i dati e raffrontando le percentuali e i flussi elettorali, Orsina contesta un corollario che è stato spesso ricavato da queste rilevazioni, cioè che lo zoccolo duro del consenso al leader azzurro sia costituito da un elettorato fideisticamente fiducioso nel leader o sollecitato da spinte emotive.
Fin dall’avvento sulla scena pubblica, Berlusconi si è molto servito di sondaggi e rilevazioni di opinione, strumenti che erano parte integrante del suo bagaglio culturale d’imprenditore del settore televisivo. Rispetto a questa competenza specifica si è sviluppata una sorta di leggenda nera; l’idea che i suoi successi elettorali dipendessero dalla capacità di ottenere il consenso di elettori creduli e scarsamente informati grazie a promesse mirabolanti. La perspicace messa a punto di Orsina mostra che lungi dall’essere fideistico il voto a Berlusconi è stato in genere motivato da un calcolo, magari non sofisticato, ma razionale. Un voto ispirato alla logica dello stiamo a vedere cosa è in grado di fare, ovvero motivato dalla scelta per quello che era ritenuto il male minore. Peraltro, che il consenso all’imprenditore milanese sia sempre stato ragionato e non fideistico risulta anche da un altro aspetto che l’autore non sottolinea ma che vale la pena di richiamare. Il fatto cioè che i maggiori successi elettorali di Berlusconi si siano sempre registrati alle elezioni politiche, mentre in altri tipi di competizioni elettorali (amministrative, regionali, europee) le sue parole d’ordine, tarate su issues nazionali, risultavano meno interessanti.
Se in buona parte del lavoro la vicenda del berlusconismo è abbracciata con uno sguardo d’insieme, per tirare le fila della sua analisi Orsina delinea, come si è accennato, una puntuale periodizzazione incentrata su quattro momenti. La creazione di Forza Italia con un approccio dall’alto (1994-1996). Il consolidamento e il radicamento all’opposizione, che dà maggior spazio al rapporto con il territorio (1996-2001). Un berlusconismo di governo (2001-2006). Un’ultima fase che l’autore definisce di Berlusconi senza il berlusconismo (2006-2013). La periodizzazione proposta ci appare in gran parte convincente, trovando conferma nelle proposte e nelle parole d’ordine che caratterizzano i vari momenti. Nella fase iniziale predominano i motivi liberali. Motivi che si scoloriscono nella fase di radicamento territoriale. Durante gli anni di governo le istanze populiste superano quelle liberali. Nell’ultima (e non breve fase) domina un approccio contrastivo più che propositivo, per cui il centro destra tende a presentarsi semplicemente come una scelta preferibile rispetto al centro sinistra.
L’analisi svolta dall’autore, per quanto rivolta a intendere un periodo recentissimo, si mantiene, con sobrietà e distacco, nei limiti del giudizio storico. Tuttavia il libro non può non rimandare a un interrogativo che investe la politica attuale.
Il merito maggiore di Berlusconi è stato quello di baricentrare il sistema politico sull’asse destra/sinistra, consentendo l’alternanza di governo. Ovvero, per riprendere la studiata formulazione di Orsina, il suo avvento nella vita politica ha «creato le condizioni oggettive perché si passasse a un diverso stadio di civiltà istituzionale, dando allo spazio pubblico italiano una conformazione bipolare per la prima volta in centocinquant’anni di storia unitaria» (p. 115). Non essere riuscito a consolidare questo risultato in una riforma costituzionale rischia di restringere la parabola berlusconiana nei limiti di un’avventura personale, disperdendo quella pulsione modernizzante che, pur non senza contraddizioni, aveva saputo esprimere.
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