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Nota sul liberalismo giuridico kantiano, introdotto da Gioele Solari
di Carlo Scognamiglio
Dopo la scomparsa di Gioele Solari, nel 1952, i suoi allievi Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio Mathieu misero mano a quel lavoro cui gli ultimi dieci anni della vita del maestro erano stati dedicati, ma che pure egli aveva in qualche modo predisposto durante il corso della propria formazione di studioso. Nel 1956 pubblicarono dunque l’edizione pensata dal Solari degli Scritti politici kantiani, preceduti da un’ampia introduzione, che essi ricavarono cucendo tra loro diversi interventi critici del maestro.
Una rilettura della bella preparazione alle parole di Kant, disegnata dalla penna del Solari, è sicuramente un’occasione utile e interessante per riflettere su alcuni passaggi decisivi di quello che il filosofo del diritto italiano chiamava “liberalismo giuridico” kantiano, contrapponendolo così al liberalismo empirico di Locke e al liberalismo etico di Rousseau. Secondo Solari, la specificità del pensiero politico kantiano si delinea per un verso nel rifiuto di ogni fondazione esperienziale del sistema di governo, rinviando sempre a una struttura apriorica della forma giuridica, e per altro attraverso una distinzione non poco problematica tra le dimensioni dell’etica e del diritto. Il liberalismo giuridico kantiano, pertanto, configura un’idea di Stato che si pone come unico scopo la giustizia distributiva, cioè l’eguale distribuzione della libertà. Compete allo Stato infatti l’impedimento di ogni forma di schiavitù, evitando attraverso i propri poteri che un uomo venga utilizzato come mezzo da un altro uomo, vedendo così precipitare la propria capacità di autodeterminazione. Ha ragione Solari nel sottolineare come siano per Kant gli individui il presupposto logico dello Stato, e mai la società. Manca infatti in Kant ogni cenno a una struttura ontologica paragonabile a quella hegeliana di “spirito oggettivo”. E tuttavia si vede subito come quest’idea dell’eguale distribuzione della libertà generi alcuni problemi interpretativi.
Secondo Solari negli scritti politici kantiani ci troviamo di fronte a tre libertà: una naturale, una morale, una giuridica, dove quest’ultima è da ritenersi una sorta di sintesi delle prime due. Cosa vuol dire? Non saprei dire con esattezza cosa possa intendersi per “libertà naturale”, poiché il termine “natura” in Kant assume talvolta un significato antagonistico rispetto a quello di libertà, e tal’altra quello di definizione di una specificità complessiva dell’essere umano, coincidente quindi con quello stesso termine che qui vorrebbe specificare aggettivandolo. Conosciamo bene il concetto kantiano di libertà morale, ma qual è invece lo spazio per la libertà giuridica? In cosa consiste? Secondo Solari, che segue fedelmente le tracce kantiane, il diritto è anch’esso, come la morale, una sfera dell’azione pratica, ma se ne differenzia. La libertà morale si definisce in rapporto al dovere in sé, quella giuridica in rapporto alle relazioni esterne. Il diritto esprime il principio apriori della reciproca limitazione delle libertà, quale condizione stessa della libertà morale, che non può svolgersi, ricorda Solari, fuori da rapporti di coesistenza. In altri termini, siccome l’individuo non esiste se non in relazione ad altri individui, la sua stessa libertà morale è possibile esclusivamente là dove vige il “principio el limite”. In questo senso il diritto è coazione, per la tutela della libertà sterna (e dunque, alfine, lo Stato sarà concepito come garante della libertà interna). Il ragionamento non pare del tutto chiaro. Ripensando alla Critica della ragion pratica, si rende infatti evidente come la prima massima del pensiero morale kantiano contenga in sé il principio del limite, mentre la seconda esprima in modo sufficientemente esaustivo l’istanza dell’eguale libertà. Ora, che bisogno c’è di porre una distinzione tra libertà interna ed esterna? È veramente possibile, in termini kantiani, distinguere con chiarezza tra etica e diritto? Non ne sarei così sicuro, nonostante l’insistenza dello stesso Kant su tale separazione. Questi ricorre a un parallelismo con quanto scritto nella Critica della ragion pura a proposito del rapporto tra senso interno e senso esterno. Come vi sono intuizioni temporali ma non spaziali, sebbene non siano ammissibili intuizioni spaziali non temporali, allo stesso modo ogni azione giuridica è anche espressione di una volontà morale, ma non vale la reciproca. Esterno e interno vanno intesi fuori da un’intenzione di distinzione ontologica tra strutture eterogenee, bensì come due “modalità” di considerazione della medesima realtà. Secondo Kant «la libertà può essere considerata nell’uso esterno o interno del libero arbitrio», quantunque le leggi pratiche, pur essendo sempre motivo di determinazione interna del libero arbitrio, non possano essere pensate sotto questo rapporto in tutte le circostanze. Leggendo con attenzione la metafisica del diritto kantiana, scopriamo però che la relazione può anche essere – in qualche modo – ribaltata. In altri termini, come sembra suggerire Solari (ma si tratta di una mia interpretazione) se è vero che l’uomo si colloca soltanto in un contesto di socialità, e dunque di rapporti regolati dal principio naturale del limite alla reciproca libertà, allora ogni deliberazione morale può sempre essere considerata all’interno di un rapporto giuridico, mentre non tutte le relazioni con l’esterno sono accompagnate dal dovere come impulso all’azione. Sotto questo rispetto, etica e diritto si comportano l’una verso l’altro nella medesima maniera, appaiono come due modalità di osservare la sfera della libertà, e non come due diverse regioni della vita spirituale.
Torniamo dunque alla definizione di liberalismo giuridico, e aggreghiamo, seguendo Solari, alla difesa dell’eguale libertà, l’istanza di eguaglianza di fronte alla legge (concetto che alcuni liberali nostrani oggi fanno costantemente finta di dimenticare, e che non appartiene culturalmente alla tradizione del bolscevismo, bensì proprio al liberalismo moderno). Eguaglianza infine, secondo Kant, significa anche avversione a ogni forma di familismo ed ereditarietà. Scrive Kant: «ogni membro dello Stato deve poter pervenire a quel grado al quale possono elevarlo il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna, senza trovar ostacolo negli altri sudditi che invocano prerogative ereditarie» (I. Kant, Scritti politici, Utet, Torino 2010, p. 257). Da questo punto di vista appare evidente quanto poco liberale sia la nostra società, e a quale incalcolabile distanza da un principio liberale come quello sopra enunciato si collochino le nostre università.
Fuor di polemica, occorre però ricordare come manchi in Kant ogni riferimento forte all’eguaglianza economica. È un punto su cui va sviluppata qualche riflessione. Perché è vero che in Kant, come in gran parte della tradizione liberale, le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza sono ritenute legittime, se non in qualche modo positive e propositive, ma come negare la contraddizione tra quel principio “antiereditario” con la legittimazione di ogni profonda differenza patrimoniale tra i cittadini? Kant ammette la trasmissibilità dei beni materiali, riconoscendo senza criticarle le conseguenti disparità economiche derivate dal passaggio di beni di generazione in generazione. Tuttavia è nelle sue convinzioni che tale iniquità strutturale possa essere infine compatibile con un sistema costituzionale che non impedisca a chi è meritevole di farsi strada per pareggiarsi agli altri. Inutile qui documentare la fragilità di questa prospettiva. Inutile anche citare la quantità e la qualità delle ricerche di ambito socio-psico-pedagogico che confutano l’idea astratta di una società meritocratica all’interno di un sistema capitalistico. Non è abbastanza evidente l’assoluta ineguaglianza delle opportunità (e dunque la reintroduzione di un elemento di ereditarietà) tra un figlio di Montezemolo e un figlio di nessuno? La libertà convive male con ogni forte disparità delle condizioni economiche, le quali, tra l’altro, mettono spesso in discussione anche la prima missione dello Stato kantiano, cioè l’impedimento che un uomo diventi schiavo di un altro suo concittadino. Nel secolo in cui il filosofo di Königsberg metteva a punto la sua visione politica, era consuetudine disporre di servi nelle case o nelle botteghe, ma proprio per questo, per la loro “dipendenza”, Kant finiva per escluderli dalla cittadinanza attiva. Ora, alla luce delle trasformazioni sociali, se il “servo” o il “garzone”, emancipati in certo senso rispetto ad allora, conservano il pieno diritto alla cittadinanza, non si può occultare il problema della loro “dipendenza economica” trincerandosi dietro il principio liberale della difesa della proprietà e della ricchezza.
Ciò detto, quale forma politica meglio realizza le aspettative di libertà così articolatamente espresse negli scritti politici kantiani? Senza dubbio, il filosofo tedesco predilige le monarchie rappresentative, fondate su una forte vocazione costituzionale (dove l’idea di costituzione coincide con il modello repubblicano), incardinata sulla divisione dei poteri, tra i quali maggior dignità è assegnata senz’altro al potere sovrano, fatto coincidere con l’attività legislativa svolta dai rappresentanti della cittadinanza attiva, cioè i suoi elementi migliori. Il potere esecutivo, invece, potrebbe ben essere consegnato anche alle cure di un monarca. Il rischio da mantenere alla giusta distanza è tuttavia la “deriva democratica”. Da essa sorge infatti l’intenzione di ciascun cittadino di esercitare una sovranità. In questo senso, la democrazia è naturalmente dispotica. Questo atteggiamento critico nei confronti della democrazia meglio lo si comprende attraverso la concezione kantiana della trasformazione sociale.
È possibile, infatti, che in uno Stato l’attività di governo sia contraria agli interessi della cittadinanza, cioè lesiva dei suoi diritti di libertà. Cosa possono i sudditi di fronte a un cattivo governo? Kant è risoluto nel condannare ogni forma di resistenza contro lo Stato, qualsiasi genere di disobbedienza all’autorità. Resistere ai comandi, significa infatti negare l’idea stessa dello Stato. Un discorso a parte meriterebbe invece la considerazione kantiana della rivoluzione, interpretata come un “fatto storico collettivo”, cui ogni reazione è un tentativo sterile di opporsi a un prodotto inevitabile della storia. Ma tornando alla questione della resistenza al malgoverno, il cittadino possiede qualche spazio di agibilità politica che sia legittimo? Kant, a tal proposito, difende con insistenza la libertà di pensiero, e dunque la difesa della “pubblicità” dell’azione critica stessa. Giole Solari, molto opportunamente, utilizza proprio tale passaggio per presentare uno dei nodi più complessi e distintivi del pensiero giuridico kantiano: il superamento del dualismo tra diritto naturale e diritto positivo. Quest’ultimo in età moderna era stato tradizionalmente considerato una traduzione in atto di norme derivanti dal diritto naturale, cui non potevasi sottrarre il diritto alla resistenza contro un governo che andasse a ledere i principi del diritto naturale. Ma Kant supera quel dualismo, proponendo la coppia “diritto naturale-diritto pubblico”, nella quale il primo è soltanto un’esigenza ideale, mentre il secondo, attraverso lo Stato, è l’unica possibile realizzazione di quei principi. In ciò si situa anche una differenza importante tra Kant e Rousseau. Lo spiega bene Solari: «mentre per il Rousseau il contratto significa rinunzia allo stato e alla libertà naturale, creazione di un ordine nuovo morale e sociale, per Kant esso non innova sull’ordine giuridico naturale e solo tende a consolidarlo, a realizzarlo in una forma più perfetta e razionale. Perciò il contratto di Kant non è sociale, ma politico: non crea lo Stato, ma lo costituisce nelle forme del diritto» (G. Solari, Introduzione a I. Kant, Scritti politici, cit., p. 15). Il contratto originario non è un fatto, un episodio storicamente ricostruibile, è una semplice idea della ragione, ha cioè funzione regolativa dell’esperienza, costituendo cioè un punto di riferimento per il legislatore, orientandolo verso dispositivi normativi potenzialmente capaci di raccogliere il consenso di tutto il popolo. Si tratta però di un riferimento ideale valido soltanto per il sovrano, non per i sudditi, ai quali spetta comunque e sempre un destino d’obbedienza: «Anche se il potere o chi lo rappresenta – scrive Kant – il capo dello Stato, violasse il contratto originario e perdesse in tal modo, a giudizio dei sudditi, il diritto di essere legislatore, per aver autorizzato il governo a condursi del tutto tirannicamente, ciò nonostante non sarebbe lecito al suddito far resistenza a titolo di rappresaglia» (ivi, p. 265). Quindi il diritto di resistenza è negato, perché disobbedire allo Stato è in sé la negazione della possibilità stessa del diritto. Un diritto di coazione verso il proprio sovrano, da parte del popolo, presume la costituzione di una volontà generale fattasi corpo sociale. In altri termini, «solo mediante il sovrano il popolo può giuridicamente costringere» (ivi, p. 269). Ribellarsi al sovrano, significa allora spogliarsi di ogni possibilità di coazione. Nessun pensiero giuridico può in sé contemplare il diritto al sovvertimento dell’ordine legale. Scrive Solari, parafrasando Kant: «le deficienze, le lacune, le ingiustizie della costituzione esistente devono essere corrette, integrate, tolte per mezzo di riforme preparate dal sovrano stesso in conformità allo Spirito della costituzione ideale» (ivi, p. 45). A me piace definire la posizione kantiana, così ben ricostruita dal Solari, una sorta di riformismo socratico. Per cui l’attività dell’individuo, nella sua volontà di riformare lo Stato, deve essere sempre e comunque pubblica.
Kant, differenziandosi esplicitamente da Hobbes, difende l’esistenza di diritti inalienabili del cittadino, sebbene non capaci di dar vita a un diritto di coazione verso il sovrano. Al cittadino deve sempre concedersi il diritto di manifestare pubblicamente la propria opinione. Così come deve essere pubblica l’attività di governo. Ecco perché per Kant, come per Montesquieu, la libertà di stampa è, appunto, inalienabile: «contestare questa libertà non solo è privarlo di ogni pretesa giuridica nei riguardi del sovrano (come vuole Hobbes), ma è togliere al sovrano […] ogni conoscenza di ciò che, se gli fosse noto, modificherebbe lui stesso, ed è porlo in contraddizione con sé stesso» (ivi, p. 271). La massima che può essere resa pubblica, sia essa un’istanza dei cittadini o del governo, è giusta. Ogni istanza che deve invece adottare la segretezza per mettersi in movimento, è per ciò solo ingiusta.
Un ultimo aspetto estremamente attuale e interessante che Solari aiuta a far emergere dagli scritti kantiani è il rapporto tra Stato e felicità. Kant respinge quasi con orrore la costituzione di una parentela tra azione di governo e vita felice dei cittadini. Lo Stato non può e non deve azzardare di porre tra i propri fini alcuna ricaduta sulla soddisfazione esistenziale del popolo. La via alla felicità, infatti, non può essere indicata da chi amministra. Lo Stato non è un pedagogo e non è un padre, non può indirizzare moralmente il cittadino, perché indicare un’idea stessa di felicità significa irrompere nella sfera morale. Non va confusa la dimensione “esterna” con quella “interna”. Fin qui siamo in una presa di posizione classica della tradizione liberale. Ciò che è veramente interessante è la motivazione addotta da Kant. Chiunque potrebbe opporre la seguente obiezione: e perché mai lo Stato non deve porsi in modo paternalistico? Può non piacere, ma dove sarebbe l’illegittimità di una opzione di questo genere? Kant è subito pronto a ricordare come un governo che si sostituisca all’individuo nelle scelte etiche indebolisce in quest’ultimo proprio il senso morale, e quindi lo “spersonalizza”, lo tratta come una cosa, perdendo di legittimità come istituzione. Efficace la formula con cui Solari sintetizza la questione: «spontaneità etica e coattività giuridica sono termini incompatibili» (ivi, p. 18).
Che il soggetto tempri la propria forza morale confrontandosi con la realtà e mettendo alla prova i propri principi. Nonostante la possibilità di comportamenti socialmente non apprezzabili, il pericolo di uno Stato che assuma decisioni morali al posto dei propri cittadini è troppo alto per la stessa difesa dell’umanità.
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