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La mia scuola elementare
di Giuseppe Galasso
La mia scuola fu la “Giosuè Carducci”. Si trovava agli ultimi due piani di un palazzo della Salita Pontecorvo, al n° 60. Questa Salita è su uno dei percorsi che, in questo caso dalla Piazza Dante attraverso la Piazza Gesù e Maria e la successiva Via San Mandato, partono dal centro antico della città per giungere alla sommità dell’attigua collina del Vomero. Io abitavo al numero 116 della parallela Salita Tarsia, che, una cinquantina di metri più a ovest, offre lo stesso percorso, mettendo capo alla Salita della Cesarea (l’Infrascata, come la si denominava un tempo: e nella parrocchia della Cesarea io fui battezzato, essendo nato in Via Salvator Rosa 103).
Avevo frequentato un asilo infantile posto nella stessa Salita Tarsia dove abitavo, ma alquanto più giù. Di quell’asilo poco, se non proprio nulla, ricordo, tranne che lo stesso edificio è per me connesso, non so più per quale ragione, al ricordo di una sorella di mia madre. Della scuola elementare ricordo, invece, tutto, o quasi.
Dal punto di vista dell’edilizia scolastica, la “Giosuè Carducci” era una vera sintesi dell’opposto di quanto si desidererebbe per una scuola in generale, e per una scuola elementare in specie. Una scala impervia soprattutto nella sua ultima parte portava al quarto e quinto piano, destinati, come ho detto, alla scuola. All’incirca trentacinque anni dopo sarei stato eletto assessore del Comune di Napoli per l’edilizia scolastica, e avrei toccato con mano quante fossero le case private prese in fitto per alloggiarvi scuole di ogni ordine per assolvere all’obbligo di legge per i Comuni di provvedere ai locali per le scuole elementari, innanzitutto, oltre che per altri gradi di scuole. Avrei constatato quanto più grave sarebbe stata la situazione, se a locali scolastici non fossero stati destinati tanti immobili appartenenti all’asse ecclesiastico avocato allo Stato nel 1865 o, in molti casi, anche prima dell’unificazione italiana. E soprattutto avrei sperimentato quanto fosse difficile modificare una situazione che si era rapidamente consolidata, appena, con l’unificazione italiana appunto, venne diffuso il principio dell’istruzione obbligatoria. Per l’edilizia scolastica si era provveduto allora con il fitto di locali quasi sempre sprovvisti di ogni idoneità funzionale allo scopo e, soprattutto, con edifici religiosi secolarizzati. Di scuole costruite ad hoc ve n’erano state, quindi, estremamente poche nel periodo pre-fascista, e qualcosa di più si era fatto o si cominciava a fare negli anni del fascismo, nei quali (più precisamente nell’autunno del 1935) mi trovai io a iniziare la scuola elementare.
Al primo dei due piani della “Giosuè Carducci” erano ospitate le prime e seconde classi; all’ultimo piano le terze, quarte e quinte. I servizi igienici erano quali potevano risultare dall’adattamento di case private a funzioni pubbliche. A noi bambini la cosa non faceva alcuna impressione. Appartenevamo, nella stragrande maggioranza, a famiglie povere o poverissime, e nelle nostre case le comodità non erano maggiori, o erano addirittura inferiori, a quelle di cui ci trovavamo a disporre a scuola; e anche nelle case delle famiglie più agiate o delle poche famiglie con uno status decisamente più alto non era detto che si trovasse molto di meglio.
Specialmente all’ultimo piano il disimpegno delle aule non era sempre assicurato. Quando iniziai il terzo anno e passai quindi all’ultimo piano, l’aula riservata alla mia classe si trovava fra altre due, una delle quali aveva il suo ingresso solo dal lato del terrazzo di quel piano, sicché, se pioveva o per qualsiasi altro impedimento, non si poteva uscirne o entrarvi se non passando per la nostra aula. Allo stesso modo dovevamo attraversare una o due aule (non ricordo bene) per recarci dalla nostra ai gabinetti. Il che offriva a noi scolari un più che gradito motivo di distrazione, ma quanto fosse rispondente alle necessità scolastiche è facile immaginare. I terrazzi del nostro piano – i tipici terrazzi napoletani asfaltati e recinti da un muretto di un metro o poco più di altezza – erano pure il nostro spazio per il tempo libero e l’educazione fisica. La quale educazione fisica si limitava, peraltro, a qualche esercizio elementarissimo (il più diffuso, in quattro tempi, consisteva nel sollevare le braccia diritte in alto, poi abbassarle e distendere all’altezza delle spalle, quindi proiettarle, sempre diritte, in avanti e, infine, abbassarle ugualmente diritte sui fianchi: esercizio ripetuto più volte, che si poteva, però, eseguire facilmente anche in classe).
Di educazione artistica e musicale si faceva ben poco di più. Un po’ di disegno e qualche «canto della patria» (dominavano Giovinezza e, soprattutto, La leggenda del Piave). In classe l’arredamento era più che spartano. Il Crocefisso e i ritratti del Re e del Duce erano sul muro alle spalle di quella che mi pare di ricordare venisse denominata già la “cattedra” dell’insegnante, e che non era, peraltro, più che una scrivania (talora un semplice tavolo), spesso su una pedana. C’era sempre una lavagna, a volte a muro, altre volte più grande e montata su un trespolo di legno, invariabilmente dipinto di grigio: ma questo era possibile solo nelle aule più ampie, che non erano le più frequenti. Qualche carta geografica al muro, un armadietto e un attaccapanni completavano l’arredamento. Di sussidi didattici non ricordo nulla, ma non ricordo neppure che questo povero e nudo ambiente didattico suscitasse in alcun modo sensi di frustrazione o di privazione. Quella era la scuola, e appariva, quale voleva essere, indiscutibile; e, per la verità, per quanto io ricordi, nessuno, assolutamente, la discuteva. Non parliamo dell’ortodossia religiosa che essa trasmetteva (a ripensarci) senza neppure darsi la pena di imporla, tanto era sentita come connaturata a quel mondo. Quanto all’ortodossa politica, via via, passando da anno ad anno, sarebbe apparso più chiaro che in Italia regnava Vittorio Emanuele III di Savoia, la cui moglie era la regina Elena, nome inseparabile dal suo, e il cui figlio era Umberto principe di Piemonte. Il Re stava sopra tutto e tutti, ma il paese e le cose andavano avanti perché governava il Duce, il capo del Governo, Benito Mussolini, che tutto teneva sotto il suo occhio vigile e a tutto provvedeva in maniera che migliore non si sarebbe potuto. Distinguere tra il Re, Mussolini, il Fascismo, e l’Italia e noi stessi e i nostri sentimenti e interessi e il nostro futuro sarebbe stato impensabile: e, per quanto io ricordi, nessuno, infatti, ci pensava (e tanto più in quanto, poi, nello stesso senso andava tutto ciò che si diceva fuori della scuola, a cominciare da casa, dalla famiglia).
Questo sarebbe apparso sempre più chiaro, e noi scolari, e io con gli altri, ne avremmo preso sempre più coscienza. E ancor più certamente da tutto ciò erano lontanissimi i miei pensieri allorché, in quell’autunno del 1935, cominciai a frequentare presso la “Giosuè Carducci” la prima elementare. Tra i miei compagni di classe molti erano quelli che riluttavano alla scuola e nei primi giorni piangevano e strillavano a lungo quando venivano accompagnati a scuola, e spesso continuavano o facevano di peggio quando venivano lasciati in classe. Io non appartenni a questi molti. A me piacque subito di andare a scuola; e sarebbe poi stato così per tutti i miei anni scolastici: mi facevano un gran piacere le vacanze, ma tornare a scuola, specialmente a inizio di anno, in ottobre dopo le lunghe vacanze estive, era sempre assai bello.
Quanto all’apprendimento e al profitto, non incontrai mai alcuna fatica. Appresi subito a leggere e a scrivere, a eseguire le quattro operazioni aritmetiche elementari, a fare i primi esercizi grammaticali (“volgere al femminile” o “al maschile” o “al plurale i seguenti nomi…”), a comporre i primi “pensieri” (mi pare si preferisse dire “pensierini”) e i primi temi (“dite che avete fatto il tale giorno”, “parla di tuo padre, di tua madre”…), a risolvere i primi “problemi” di calcolo. E così fu pure negli anni seguenti e quando si passò alle nozioni di cultura elementare fino all’analisi grammaticale e logica, alla storia, geografia, matematica, geometria, scienze, secondo il concetto dell’«educazione ciclica», sostenuto dal grande Comenio, di cui molto più tardi avrei appreso che aveva costituito un momento fondamentale nella storia della pedagogia (né solo della pedagogia), e che tuttora, avendolo un po’ studiato, considero come la concezione pedagogica più funzionale sia dal punto di vista individuale che dal punto di vista sociale.
A dirla tutta, divenni subito, e restai sempre anche in seguito, il primo della classe, sopravanzando, per lo più, di molto i miei compagni. A casa facevo i compiti con grandissima rapidità. In classe apprendevo e ritenevo quel che apprendevo altrettanto facilmente (mi venne da sorridere quando poi lessi in Dante che non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso). Appresi, in particolare, a leggere con la dovuta espressione e ritmo. Solo alquanto più tardi avrei poi capito che ad accrescere il mio profitto negli studi interveniva un’altra circostanza; e, cioè, che – allora, certo, del tutto inconsapevolmente – tutto ciò che apprendevo o su cui riflettevo lo mettevo in reciproca relazione, sicché non restava un insieme di nozioni disparate e separate, formava (come suol dirsi) sistema, acquisiva connessione e ordine e diventava, con ciò, più chiaro e più dominabile nel pensiero e nella memoria.
Con questo profitto contrastava, la mia grafia, sprovvista di qualsiasi non dirò eleganza o raffinatezza, ma regolarità di tratto e altre doti che la potessero far considerare calligrafia. Contrastava la mia inettitudine a disegnare e a rappresentare figure anche elementari. Contrastava la mia facilità di macchiare, togliere lindore e perspicuità ai miei quaderni o album e ai miei scritti o disegni. Contrastava, soprattutto, la mia condotta. Ero, infatti, perennemente irrequieto; pronto a prorompere in incontenibili risate e a vociare o a gridare a ogni minima occasione e con qualsiasi pretesto; sempre disposto a partecipare alle monellerie e alle peggiori iniziative dei compagni di classe e di scuola, a “fare chiasso” – come si diceva allora a scuola e fuori – benché assai più di rado a prenderne da me l’iniziativa.
Per questo motivo accadeva relativamente spesso, quando facevo la prima e la seconda, che i miei genitori venissero chiamati dall’insegnante e che dovessi andare a scuola accompagnato da loro: altre espressioni dell’epoca. I miei genitori erano poi mia madre; e lo stesso accadeva – credo di poter dire senza eccezioni – per tutti i miei compagni, ché per tutti i padri lavoravano e le madri, nella stragrande maggioranza, erano casalinghe o facevano lavori che si potevano esercitare a casa (a cominciare dal cucire). Del resto, tutte le famiglie tendevano a essere numerose e partivano da un minimo di tre figli. Il sistema si reggeva solo grazie a una ramificata e intensa solidarietà familiare. Il lavoro femminile era molto poco diffuso, ma era difficile che potesse essere altrimenti con quelle strutture familiari e in tempi in cui di stato sociale e relativi servizi e assistenze si cominciava a vedere appena qualcosa grazie al Fascismo (innanzitutto l’Opera Maternità e Infanzia). Così accadeva che a scuola si andasse la mattina a gruppetti di fratelli e cugini, e solo per la prima classe e per i primi giorni dell’anno scolastico oppure in giornate di pessimo tempo si vedevano i piccoli accompagnati da familiari o rilevati da loro all’uscita. Per Tarsia, Pontecorvo e dintorni non v’era quasi alcun traffico che costituisse un qualche effettivo pericolo. Familiari, parenti e vicinato erano più che sufficienti ad assicurare sicurezza e assistenza ai più piccoli per il tragitto e le occorrenze scolastiche, mentre i più grandicelli conoscevano ben presto le strade del quartiere e potevano così fare anch’essi da scorta ai più piccoli. A ben pensarci, non è che la scuola, in quella realtà sociale desse un forte impulso di socializzazione. La socialità che vi si ritrovava e vi si esprimeva e che ne veniva sollecitata era pressoché, soltanto una proiezione, estensione e prosecuzione della socialità di quartiere e, in particolare di vicinato, che era, invece, forte ed era avvertita, ricercata, praticata, e incrementata un po’ da tutti.
Il colloquio di mia madre con l’insegnante era sempre lo stesso, da come lo ascoltavo o da come lo sentivo da lei riferito a mio padre: il bambino è bravissimo, ma troppo discolo; bisogna fare qualcosa per disciplinarlo. Mia madre non solo non contraddiceva, ma non faceva altro che aggiungere note negative a quelle dell’insegnante, a cominciare dalla mia viva riluttanza all’uso dell’acqua e del sapone. In realtà, mia madre letteralmente travedeva per me, che per casi non lieti ero diventato il suo primogenito e manifestava per me un evidente sentimento di orgoglio, che allora percepivo (ricordo bene anche questo) molto oscuramente, e a posteriori mi sembrò poi di capire come istintiva fiducia, convinzione, intuizione di un qualcosa che in me le sembrava più che promessa di qualcosa, non saprei dire cosa).
Scontata, quindi, l’indulgenza materna, (e, di conseguenza, paterna, ché le opinioni materne in fatto di figli e di casa erano vangelo per mio padre come per tutti i padri del quartiere). Meno scontata, ma addirittura, poi, più prodigata era quella della mia insegnante, la “signorina” Maria Conte (le insegnanti delle elementari erano tutte signorine, gli insegnanti tutti professori). La signorina Conte era, però, effettivamente nubile; e ben lo sapevo perché abitava anch’ella alla Salita Tarsia 116, dove abitavo io. Noi abitavamo in un “basso” del cortile; la signorina Conte al primo piano (con una sorella, mi pare di ricordare). La ricordo come una donna piccola e minuta, ma dolcissima e, ciò malgrado, autorevole.
Gli insegnanti delle scuole elementari erano posti per tutti noi al di là di una linea di separazione invisibile, ma effettiva e sentita, che poi avrei capito essere quella tra ceti popolari e piccola borghesia, tra popolani e ciò che nella vita e nelle gerarchie sociali stava immediatamente sopra di loro. E nella logica di quella società il prestigio e la distinzione di chi stava più su non potevano essere e non erano alterati per il fatto che i popolani (non era il nostro caso, né, in generale, quello del mio quartiere) potevano essere in più agiate condizioni dei piccoli borghesi (ed era certamente il caso di chissà quanti insegnanti delle scuole elementari).
Il prestigio della signorina Conte era, comunque, alquanto superiore a quello consueto per gli insegnanti. Il suo impegno nell’insegnamento era notorio e rispettatissimo. Anche i risultati del suo insegnamento erano notoriamente efficaci. Non mi risulta che allora si facessero pressioni, come poi, a distanza di tempo, è diventata pressoché una regola, per ottenere che i bambini fossero assegnati all’una piuttosto che all’altra sezione della loro scuola, e cioè all’uno piuttosto che all’altro insegnante. Tuttavia, “andare” con la signorina Conte era ritenuto da tutti nel quartiere una fortuna, come, per quanto riguardava noi (“andò” con lei, dopo di me, mio fratello Francesco), sentivo sempre ripetere da mia madre.
Nulla saprei dire del metodo didattico di quella mia prima insegnante. Posso dire con certezza che era il metodo tradizionale. Si cominciava con le asticelle tracciate diritte o diagonali nei quaderni (dalla invariabile copertina nera) a quadretti. Poi si passava alle vocali e, via via, alle consonanti, alle sillabe, alle parole, alle frasi. Per l’aritmetica si cominciava con la numerazione (fino a 10, a 20, a 100); quindi si passava, nell’ordine, alle addizioni, alle sottrazioni, alle moltiplicazioni e alle divisioni. Una tappa importante era, per lo scrivere, il passaggio dai quaderni a quadretti, usati per le asticelle, ai quaderni a 8 righi, che consentivano di tracciare le lettere con tratti larghi più facilmente eseguibili (in seconda si passava al quaderno a 9 righi, in terza al 10 righi, in quarta al 12 righi e in quinta al quaderno a un rigo: così la grafia poteva essere gradualmente personalizzata). Per il calcolo una svolta ancor più importante, un vero e proprio rito di passaggio era lo studio delle tabelline con l’approdo finale alla tavola pitagorica.
Non so come, ma certo è che di questo insegnamento di prima e di seconda classe io feci il massimo profitto. Bravissimo nel calcolo e nelle relative operazioni e tabelline, avevo acquisito in seconda una non minore bravura nello scrivere i “pensierini” e le “composizioni” (si chiamavano così, in questa classe, i “temi”) che rappresentavano il vertice dell’insegnamento della lingua nei primi due anni. Imparavo bene e subito a memoria le poesiole prescritte dalla componente mnemotecnica, allora fondamentale nella concezione dell’insegnamento.
La predilezione che la signorina Conte manifestò subito per me sarà stata dovuta, come è naturale, anche a questo mio buon rendimento scolastico. Vi doveva, però essere pure qualcos’altro. Forse l’abitare nello stesso edificio, forse una spontanea e immediata simpatia, forse una mia particolare corrispondenza al suo impulso o sentire ….chissà; ma è certo che la mia maestra faceva capire in ogni modo quanto mi volesse bene. Allorché feci la prima comunione, e già non ero più suo alunno, mi chiamò a casa sua e mi regalò un piccolo libro di preghiere, con una dedica augurale, tracciata con la sua bella grafia, che ammiravo perché la mia era così diversa e meno bella. Capii anche allora, nel mio sentire infantile, che quel dono aveva una grande intensità di significato, e non perché si trattasse di un libretto di preghiere, graziosamente protetto da una rigida copertina bianca di non so quale materiale, né perché la religiosità della signorina Conte fosse notoria ed ella la rivelasse in tutto ciò che faceva e diceva. Capii, o meglio intuii, la profonda scaturigine emotiva e sentimentale del dono fattomi in un giorno ritenuto allora, nella nostra cultura popolare e cattolica, particolarmente significativo. Conservai e amai molto quel libretto, anche quando, trasferitici da Salita Tarsia 116 in Via Montesanto 52, persi di vista la mia maestra. Poi non vi badai più, e non saprei proprio dire che fine quel regalo – il primo regalo personale, tutto per me, e non di persona di famiglia – abbia fatto. Ma né quando maestra e libretto scomparvero dal mio orizzonte, né mai in seguito si è allontanato da me il ricordo della signorina Conte, e la sua buona e cara immagine di maestra in senso diverso e più specifico e intenso di quello didattico e la percezione del vincolo particolare di affetto avvolgente e pregno di augurale certezza sono ancora, dopo settant’anni, vive e forti in me.
In terza la mia classe ebbe come maestro il “professore” Luigi Sala. Non era del nostro quartiere. Ebbi modo poi di andare a casa sua l’anno seguente per la ragione che dirò, e a me appariva lontanissima la Via Santa Sofia (non ricordo il numero, ma il luogo si) in cui egli abitava. Questo, però, non faceva che accrescere l’autorevolezza di Sala, già di per sé avvertita per il suo modo di parlare e di fare secco e deciso e per la fama di cui godeva di insegnante assai bravo. Una fama che si poteva subito constatare da parte dei suoi scolari, e che, comunque, fu subito avvertita da me, che concepii per lui una immediata simpatia.
Egli spiegava tutto con grande semplicità. Bastava stare attenti a ciò che diceva (e molto pochi di noi alunni lo eravamo) per apprendere in modo soddisfacente quel che vi fosse da apprendere. Aveva anche un giudizio e un intuito che a noi apparivano infallibili. A pensarci ex post, non strafaceva dal punto di vista didattico. Aveva, però, alcune particolarità per cui si distingueva dagli altri insegnanti.
Parlava, innanzitutto, molto di sé. Non sono in grado di dire oggi quali fossero i contenuti di questi suoi discorsi, che facevano sentire lui più vicino a noi e noi a lui. Uno, però, lo ricordo benissimo anche perché era del massimo effetto: la sua esperienza di combattente della prima guerra mondiale. Venti anni dopo quella era ancora «la guerra», e se ne parlava, come tale, nelle nostre case, assai spesso, perché tutti avevano in famiglia qualche reduce da quella drammatica esperienza. Perciò i racconti di Sala non solo non ci apparivano fuori del consueto, ma sollecitavano e soddisfacevano con una testimonianza extra-familiare le naturali curiosità infantili in materia di guerra; e lì avevamo il caso di una guerra vera, di cui si potevano ascoltare i dettagli. Sala aveva, inoltre, un atout formidabile da esibire a tale riguardo. Era stato ferito, e doveva essere stata una cosa non lieve, perché gliene era rimasta un’ampia e profonda cicatrice sul polpaccio della gamba destra. Una chirurgia di urgenza di tutto preoccupata fuorché degli effetti estetici dei suoi interventi gli aveva salvato la piena funzionalità della gamba, ma la cicatrice era brutta: sempre rossa, deturpante nella sua approssimativa ricomposizione della carne lacerata dal fuoco nemico. A volte, e neppure di rado, Sala ce la mostrava, e l’effetto era sempre forte su di noi: ci faceva sentire, in qualche indefinibile modo, un po’ partecipi di quel gran combattere di cui si sentiva così spesso parlare.
C’era stata poi recente la guerra di conquista dell’Etiopia, e se ne dicevano fiumi di cose, che esaltavano ancora di più l’effetto-mito di quel parlare delle guerre (e delle vittorie e della forza italiane) nei nostri sprovveduti animi infantili, già preparati a questo dalle cose analoghe che si potevano sentire fuori dalla scuola e dalla generale intonazione dell’insegnamento.
Per me, tuttavia, fu un’altra la ragione del grande effetto dell’insegnamento di Sala. Alle 11, più o meno, la classe – così era il costume – si recava al bagno per un simultaneo esercizio di bisogni fisiologici, che fungeva anche da pausa di relax e, per così dire, di ricreazione nelle quattro ore, dalle 9 alle 13, di durata della giornata scolastica. Al ritorno in classe Sala soleva invariabilmente, dopo le prime settimane dell’anno scolastico, leggerci, giorno dopo giorno, un libro di quella che tuttora è detta “letteratura per l’infanzia”. Leggeva per una mezz’ora, o anche più, seduto sulla cattedra, anziché sulla sedia dietro di essa, e ciò lo avvicinava di molto, fisicamente, a noi, e addirittura sembrava costituirci in circolo intorno a lui, benché restassimo nei nostri banchi. La sua voce era calda e sonora, ma, soprattutto, espressiva: esprimeva slanci, gesti, sentimenti, pause e tutto, per intero, il corredo del sentire e agire umano. Ci lesse Pinocchio e il libro Cuore. Poi passò subito a Salgari: Tigri di Mompracem e Corsari vari. I soggetti di quei libri sono di quelli che si direbbero adatti a un film di azione; e a un film di azione sembrava a noi di assistere ascoltando il nostro insegnante. Non tutti i miei compagni seguivano la lettura con pari attenzione. Qualcuno talora si annoiava; ma, se lo dava a vedere, Sala gli lanciava appena uno sguardo ammonitore e continuava a leggere. La massima parte della classe seguiva, comunque, con interesse e aveva piacere di quella lettura. Per un paio di noi, e per me soprattutto, c’era qualcosa di più dell’interessamento: c’era un vero e proprio appassionamento, e quella lettura era attesa con ansia, e vi si partecipava e vi si reagiva con una vivacità spesso fin troppo evidente, della quale ricordo di aver visto talvolta ridere o sorridere il maestro-lettore.
Nacque lì la mia esuberante, incontenibile, onnivora passione per la lettura? Fu allora che il piacere di leggere divenne per me uno dei massimi possibili, e l’interiorità della lettura una gioia intima quanto irrinunciabile ed esclusiva, soggettiva e privata fino a essere impenetrabile e inalienabile? Non saprei dirlo. Avevo già preso a leggere alquanto fuori dei libri di scuola, ma si trattava di cose di devozione (preghiere, apologie, exempla o vite di santi) e, soprattutto, di giornali. Nei giornali ricordo che mi suggestionavano i grandi titoli. Quel che, però, mi attraeva irresistibilmente erano le pagine sportive calcio e ciclismo, e, per influsso di mio zio Gennaro, il fratello di mio padre, il pugilato. Erano, comunque, letture rapsodiche e occasionali. Fu da Sala, certissimamente, che mi venne la percezione e il gusto di ciò che è e che significa la lettura come delibazione organica e unitaria di un testo. In altri termini, mi trasmise subito e appieno il senso di ciò che è un libro, o, comunque, il percorso complessivo di una lettura, la capacità di percepire l’unità di un testo, e quindi la nozione stessa di testo.
Allora di tutto ciò non ero consapevole come (presumo) ora; anzi, sarei stato profondamente sorpreso e non avrei capito nulla se qualcuno fosse venuto a dirmelo. Quel che ho detto qui è, ovviamente, una retroflessione da contributo alla critica di se stesso. Cionondimeno, la realtà è quella che ho detto; e fu allora tra gli otto e i nove anni che cominciai a leggere libri e libretti che in qualsiasi modo mi capitassero nelle mani. Mi avevano accesa la fantasia soprattutto le avventure dei corsari. Ero ben lontano allora anche semplicemente dal potere immaginare che quegli spagnoli che i corsari beffavano e deridevano, quei governatori e comandanti, soldati e marinai di Spagna dell’epoca dei corsari avrebbero costituito uno dei miei maggiori (da ogni punto di vista) oggetti di studio; e, ancora meno, che avrei avuto per essi ben altra comprensione e che ne avrei dato ben altro giudizio.
Così in quei due anni di scuola col maestro Sala crebbi molto. Non solo – se ripenso alla mia vita di allora – per la scuola, ma la parte di quest’ultima fu certamente dominante in quella mia prima Bildung. Del resto, quella era allora la parte della scuola per tutti. Solo molto più avanti nel secolo XX avrei constatato che la formazione culturale, e non solo culturale, extra-scolastica aveva preso o andava prendendo il sopravvento su quella scolastica. Per me dal punto di vista dell’istruzione la formazione extra-scolastica comportò soprattutto un incremento notevole della lettura; e, insieme con altri fattori, ciò contribuì a determinare fra il mio livello di informazione, di elaborazione e di espressione di quel poco che sapevo e gli analoghi livelli dei miei compagni di classe uno stacco notevole, che specialmente nell’anno della quarta classe, si avvertiva troppo spesso per non colpire, anche se io non vi facevo caso e continuavo nella mia piena e dissoluta camaraderie coi compagni.
Fu, tuttavia, una grande sorpresa per me che un giorno, a metà anno della quarta, Sala mi dicesse di voler parlare coi miei genitori; e che, incontratili, proponesse ad essi di non farmi fare la quinta elementare, ma, piuttosto, di farmi preparare per sostenere, alla fine dell’anno scolastico, l’esame di ammissione, come allora usava, al grado inferiore delle scuole secondarie. Se avessi frequentato la quinta, mi sarei trovato ad andare l’anno seguente alla scuola media, istituita con la riforma Bottai e avviatasi nel 1939. Vigeva, invece, allora l’ordinamento precedente, che contemplava ginnasi e licei e istituti inferiori e superiori per le scuole magistrali e tecniche. Sala spiegò ai miei genitori che il mio livello di preparazione era tale, a suo avviso, da non dare preoccupazioni – con appena un po’ di ulteriore preparazione “mirata” nei mesi seguenti – per il superamento dell’esame di ammissione alle scuole secondarie. Non ci volle molto per convincere i miei genitori, e così, infatti, si fece. Io seguii la corrente senza rendermi davvero conto del significato e dell’importanza della cosa. Mi piacque subito l’idea che, con questo, mi si considerava più grande, più cresciuto dei miei coetanei; e mi disposi con piacere e con lena alla integrazione di studio richiesta dall’esame di ammissione al quale era stato deciso che mi presentassi.
Per l’occasione Sala mi prescrisse non solo di studiare i libri di testo della quinta classe, ma anche di ripassare quelli della terza e della quarta che frequentavo. Più di una cinquantina di anni dopo, scorrendo un catalogo di antiquariato, trovai in offerta uno dei sussidiari per la quarta classe dell’anno in cui io, appunto, la frequentavo. Lo comprai e cercai poi l’altro sussidiario, che pure trovai e comprai, e il libro di lettura, che invece non ho finora ritrovato. C’era allora il libro di testo unico, prodotto dalla Libreria dello Stato. Dopo il sillabario in prima classe, c’era un libro per la seconda che comprendeva un po’, in generale, tutta la materia dell’insegnamento previsto per tale classe. Dai due sussidiari che ho ritrovato ho visto, non senza sorpresa, che i redattori erano nomi importanti della cultura italiana d’allora: Roberto Paribeni per la storia, Roberto Almagià per la geografia.
Con l’esame di ammissione alle scuole secondarie terminò il periodo della mia scuola elementare, della quale non uscii, quindi, con la licenza che si conseguiva al quinto anno. Per qualche anno il maestro Sala di tanto in tanto si affacciava da noi per informarsi su quel che facevo e per trovare, come trovava, conferma del suo aver visto giusto nel farmi «saltare» la quinta elementare, e anche un po’ per darsi vanto di aver consigliato quel «salto». Della signorina Conte persi, invece, più presto le tracce. Ci eravamo, come ho detto, trasferiti, proprio all’inizio del mio quarto anno scolastico da Salita Tarsia 116 in Via Montesanto 52, ossia ai piedi della stessa Salita. Mi sarebbe toccato di andare, perciò, per ragioni di platea scolastica, alla scuola “Giuseppe Mazzini”, in via Ventaglieri. Potei, tuttavia, rimanere, come desiderato, alla “Giosuè Carducci”; ma dopo il nostro trasferimento in Via Montesanto le occasioni di rivedere la signorina Conte si fecero via via più rare.
Del resto, sopravvenuta la guerra, sorsero emergenze imprevedibili e, ben presto, enormi. La trama dei rapporti sociali non poteva che soffrirne profondamente, e così fu. Ma ripeto che i miei due insegnanti delle elementari non solo non li ho mai dimenticati, ma li ho sempre sentiti presenti in tutta la mia posteriore esperienza di vita. Così come ho sempre continuato a ricordare e a «sentire» la “Giosuè Carducci”. Che – ho scoperto e capito a distanza di tempo – amavo come una istituzione e una esperienza con cui mi ero profondamente immedesimato a cui sentivo consegnato molto di me, né ho mai avvertito che ne fosse cessata la presenza sollecitante nel progressivo evolvere della mia personalità. Ricordo tuttora che, dall’erta scala che portava agli ultimi piani, ai quali si trovava la scuola, tra il secondo e il terzo piano si vedeva sull’opposto muro che chiudeva il cortile dal quale accedevamo alla scala, un ampio finestrone con una grata di ferro a grossi rombi. Si vedeva da quel finestrone il lembo di un piccolo giardino intercluso nella insula in cui l’edificio della scuola era inserito. In autunno colpivano gli occhi le arance fittamente pendenti dai loro alberi, risplendenti anche quando il cielo era grigio e coperto; e da quel giardino saliva un’aria agra, spiritosa, vivificante, che rallegrava gli animi e il fisico. In marzo si sentiva di lì come un profumo di terra smossa di fresco, e un’aria tutta pregna del sapore della primavera imminente, che un po’ stordiva, un po’ chiamava alla gioia e alla vita. In seguito, innumerevoli volte, con la piena consapevolezza della gioventù e della maturità, ho fatto l’esperienza di quell’aria autunnale così come di quell’aria di primavera. Sempre, però, quest’esperienza rinviava al grande finestrone sulle scale della “Giosuè Carducci”.
E tuttora è così.
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